martedì 28 dicembre 2010

Rubens: la felicità di dipingere




Non sapevo quale immagine scegliere, dopo la freddezza altera della Madonna di Fouquet di cui ho parlato QUI e allora ho deciso per l'opposto: un'immagine immediata, calda.
Ho scelto uno dei più grandi pittori barocchi.
Ho scelto Pieter Paul Rubens (1577-1640).

Premetto: Rubens non è tra i miei artisti preferiti.
Ogni volta che lo vedo, nelle sale dei musei, sono schiacciata dall'opulenza delle sue tele enormi, dall'eccesso di colori, dalla sovrabbondanza dei personaggi, della ricchezza dei dettagli, dai suoi floridi nudi femminili, dalle carni tremule e bianco-rosate.
Troppo fragoroso, troppo fastoso, troppo carico. 
Insomma: troppo!

Ma c'è un Rubens che mi piace. 
È quello dei ritratti, dove l'introspezione psicologica riesce a dominare ogni eccesso. 
E, soprattutto, mi piace la libertà, la pienezza e la felicità di dipingere dei disegni, dei bozzetti o degli schizzi.



Visitando il museo di Bruxelles con un'amica, abbiamo riscoperto questo studio. 
Un'immagine di forza, di energia: quattro diversi atteggiamenti e quattro diverse espressioni di un giovane nero.
Rubens lo ha disegnato, rispettandone il carattere, la serietà, la dignità, ma anche la gioia di vivere. 
E tutto questo ce lo ha saputo trasmettere con immediatezza, senza filtri.

Qui non pare si sia servito di  un modello, tanto meno in posa.
Sembrerebbe, piuttosto, uno schizzo dal vero.
Forse è un giovane marinaio intravisto nel porto di Anversa, dove non era difficile scorgere fisionomie esotiche tra gli equipaggi delle grandi navi, provenienti da luoghi lontani e cariche di merci preziose.

È probabile che Rubens lo abbia tracciato dal vero e lo abbia rifinito nel suo studio, dipingendolo a olio per riutilizzarlo per un'altra composizione, un'Adorazione dei Magi, per esempio, dove uno dei tre Re è spesso un moro.
È possibile.
Quello che colpisce è, comunque, la freschezza, la velocità e la facilità di esecuzione.

Siamo nella prima metà del'600 e Rubens è un pittore affermato che vive nella sua Anversa natale, come un signore, colto e ben vestito.
Ha una bella casa, fornita di ogni comodità, dove lavora nel suo studio, colleziona statue antiche o legge testi classici.
Un uomo che si sa godere la vita con agio, che sa conversare, ricevere o stare comodamente in famiglia.

Una felicità di vita e d'arte molto diversa dall'introspezione di Rembrandt o dal tormento esistenziale di Caravaggio, che pure aveva conosciuto e amato.
Rubens è sereno. 
Lo dice nelle sue lettere e nei suoi diari. 
La pittura è il modo di comunicare il suo star bene con il mondo e non può smettere di dipingere, non solo opere per commissione-  se ne contano a migliaia-  ma schizzi, disegni, piccole tele.
Trasforma tutto in pittura con entusiasmo, con foga, quasi con frenesia.

Ci sono artisti che sembrano portare su di sé il peso e l'inquietudine di un'epoca e artisti, come Rubens, per cui tutto sembra facile e che sanno trasmetterci, come in questo schizzo, la loro vitalità e il loro sereno rapporto con il mondo. 
E non è poco.




Jean-Baptiste Lully,Ballet de la nuit:


venerdì 24 dicembre 2010

Vigilia




Cosa ci posso fare ? 
Per me Natale non è Natale senza il film di Frank Capra.
Lascio vuota la casa a Bruxelles e arrivo in Italia troppo tardi per fare l'albero o allestire il presepe. Non compro nemmeno la classica "Stella di Natale", tanto so che seccherebbe subito e rimarrebbe là, gialla e senza fiori: un memento della caducità delle cose umane, piuttosto che un lieto simbolo natalizio.


Ma il 24, per la vigilia, so cosa fare per ritrovare il "mio " Natale. 
Preparo DVD, televisore, luci soffuse e inserisco nel lettore "La Vita è meravigliosa".
Ormai è diventato un rito. 
Conosco a memoria la storia dell'onesto George Bailey della moglie Mary, dei bambini e di Clarence Odboody, l'angelo di seconda classe in attesa di promozione.

Evasione, fuga dalla realtà? Forse. 
Ma perché: le renne e il Babbo Natale non lo sono? 
Allora meglio trasferirsi a Bedford Falls e aspettare che la solidarietà natalizia vinca ancora una volta.



Per chi non lo conosce:
http://it.wikipedia.org/wiki/La_vita_%C3%A8_meravigliosa

venerdì 17 dicembre 2010

La "belle dame sans merci": la Madonna di Melun di Jean Fouquet.





Ci sono molti motivi per accompagnare gli amici che mi vengono a trovare in Belgio a visitare Anversa.
Uno è quello di vedere, nel museo, la Madonna di Melun di Jean Fouquet, un quadro straordinario e inquietante, uno dei miei preferiti.


I dati esterni si riassumono in breve: fu eseguito intorno al 1450 e faceva parte di un dittico commissionato da Etienne Chevalier, Tesoriere di Francia, per la chiesa di Melun. L'autore, Jean Fouquet (1420-1481) è un pittore e miniatore francese dei più celebri  (almeno da queste parti), influenzato dalla pittura italiana da Beato Angelico a Piero della Francesca. 


Fin qui è facile. 
Più difficile spiegare quale misteriosa alchimia determini il fascino enigmatico di questo dipinto.
La Madonna è una regina, dalla pelle liscia ed eburnea, avvolta in un manto bianco d'ermellino. 
Mostra, con un'espressione di sdegnosa condiscendenza, dal corpetto semi-slacciato, un seno tondo, marmoreo e tiene sulle ginocchia il Bambino nudo. 
Intorno al trono, decorato di perle e di gemme, un gruppo di angeli rossi e blu.

I colori sono puri, senza sfumature, ridotti all'essenziale.
La scena sembra illuminata dalla luce fredda e perlacea degli inverni del Nord e avvolta in un grande silenzio.
Niente di più lontano dall'iconografia tre-quattrocentesca della Madonna del latte, che rappresentava il rapporto più affettuoso e più intimo che lega una madre a un figlio. 
Qui tutto è raggelato.
La Madonna, elegantissima, con la fronte rasata, secondo la moda dell'aristocrazia del tempo, non si rivolge verso lo spettatore, ma è assorta in un suo segreto pensiero.


Più che alla madre di Dio somiglia a una di quelle algide regine, come la Regina della neve delle favole nordiche o alla "belle dame sans merci" di certi poemi cavallereschi. 
Una tradizione vorrebbe fosse il ritratto di Agnès Sorel, la favorita del re di Francia Carlo VII. 
Probabilmente non è vero, ma è, comunque, la conferma che il dipinto fu creato per un ambiente, chiuso, colto e raffinato come quello della corte francese.

Nessun rapporto d'affetto pare legare la Madonna al Figlio, nessuna empatia la unisce a chi la guarda. 
Gli angeli, simili a sculture e dai colori irreali (il rosso era riservato ai serafini, simboli dell'intelligenza divina, mentre il blu era il colore dei cherubini), la rendono ancora più estranea, quasi un'“aliena”, rispetto alle bonarie e sorridenti Madonne, circondate da “puttini” grassocci,  cui ci ha abituato la tradizione italiana.
Che stia proprio in questa lontananza e nell'ambiguità del soggetto, sospeso tra immagine sacra e favola crudele, la malia sottile di questo dipinto ?




Josquin Desprez, Ave Maria

martedì 14 dicembre 2010

Pascoli


.

Le poesie imparate a memoria  spesso riaffiorano  in maniera inaspettata. 
Ci sono momenti in cui sentiamo di non avere le parole per dire o per comunicare una sensazione e allora, misteriosamente, riemergono, di colpo - chiari alla mente - i versi faticosamente imparati alle elementari, alle medie o al liceo. 
E ci si scopre a sussurrare parole che credevamo dimenticate, rime di poeti che  non leggiamo più, ma che sono legate, dentro di noi, all'emozione di un momento.

Mi è capitato negli ultimi tempi con Pascoli, in una giornata di fine novembre, così silenziosa da percepire "il cader fragile delle foglie" e così tersa e limpida da evocare "gli albicocchi in fiore" della primavera.

E mi è successo, durante un temporale notturno, quando, all'improvviso, un lampo ha illuminato l'edificio di fronte alle mie finestre che a quel bagliore, d'un bianco abbagliante, mi è sembrato estraneo e pauroso. 
E subito mi è ritornata in mente un'immagine, quella della poesia di Pascoli, come se un occhio "largo, esterrefatto" si fosse, davvero, improvvisamente aperto e chiuso, davanti a me, nel buio della notte.

Chi l' avrebbe mai detto? Pascoli!


Gémmea l’aria, il sole così chiaro
Che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore.
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
Di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile.
È l’estate fredda, dei morti.
(Novembre)


E cielo e terra si mostrò qual era :
la terra ansante, livida, in sussulto,
il cielo ingombro, tragico disfatto
bianca, bianca nel tacito tumulto
una casa apparì, sparì d'un tratto
come un occhio che, largo, esterrefatto,
s'aprì e si chiuse nella notte nera.
(Il lampo)



 
G.Pascoli, Il lampo e  Il tuono :

martedì 7 dicembre 2010

Io e il Limbo




Chubby Checker, Limbo rock


Sono nata d'inverno, poco prima della mezzanotte, in un dicembre freddo e piovoso.
Sono nata a rischio, in anticipo di un mese, del tutto inattesa, tanto che non è stato possibile andare alla Maternità e la levatrice è arrivata a casa giusto in tempo, lamentandosi per il freddo e per l'uscita non programmata.
I miei aspettavano un maschio e c'era già pronto il nome.
Sergio, mi sarei dovuta chiamare, come il protagonista di un romanzo rosa, ambientato nella Russia degli zar, tra slitte, camini accesi e passioni focose.
Erano talmente sicuri che non avevano previsto alcun nome femminile.

Mia nonna Maria, subito accorsa, era convinta, nelle sue salde certezze contadine, che i neonati prematuri, quelli a rischio come me, si dovessero battezzare subito o, almeno, che si dovesse immediatamente dar loro un nome.
Diceva che il nome li avrebbe sottratti al Limbo, il luogo destinato nell'aldilà ai bambini innominati. E allora, velocemente, di nomi ne furono trovati due: Grazia e, come secondo  (per precauzione), Teresa, la Santa del giorno.
Ma se così non fosse stato ?


"Grazia, Grazia pensa che ci potevi finire nel Limbo": mi diceva, ogni tanto, mio padre, per scherzo, quando ero piccola.
La frase mi suonava oscura, misteriosa, ma non mi faceva paura, perché il Limbo era entrato, piano piano, a far parte delle fantasie della mia infanzia.


Nessun legame con la religione.
Intanto mi piaceva la parola in se stessa, il suono puro, musicale.
Poi era diventato per me un luogo dell'immaginazione.
Con le mie sorelle, fin da piccole, eravamo abituatea crearci  per gioco degli spazi immaginari: l'Isola del Tesoro oppure i Regni meravigliosi di principi e principesse.

Il Limbo non era propriamente tra questi: era, comunque, per me un territorio a metà tra il vero e il falso, legato al momento che mi piaceva immaginare straordinario in cui, appena nata, ero rimasta impigliata tra due mondi.
Era il momento in cui ero stata magicamente trattenuta nel mondo reale, con la scelta di un nome, del mio.
Rimaneva un luogo fantastico, privilegiato, che un po' mi apparteneva, raccontato dalle parole di mia nonna e da quelle, allora per me più evocative che comprensibili, della poesia.
Erano i versi della Divina Commedia, recitati da mio zio, che mi parlavano del Limbo come di una sede, meravigliosa, abitata da bambini, da poeti e da eroi, i cui nomi cominciavo appena a conoscere: Omero, Ettore.... perfino il Saladino.
Poi per molti anni, per decenni, non ci ho pensato più.

Il nome si legava piuttosto a un'iconografia di dipinti, a un ballo, a un gioco, perfino a un film.
Ma, proprio ieri, ho letto, per caso, in un vecchio articolo di giornale che, seguendo moderni studi di teologia, il Limbo, il "mio" Limbo, quello dei bambini senza nome, era stato da tempo e, a mia insaputa, cancellato, abolito.
Insomma non esisteva, non era mai esistito.
E allora di colpo mi sono ricordata delle mie fantasie infantili e per un momento ho provato una delusione cocente, mi sono sentita sguarnita, privata di una possibilità di sogni.
È stato come quando una compagna di scuola, saputella e un po' crudele, mi aveva detto che non esistevano né Babbo Natale, né la Befana.

Mi sono resa conto d'improvviso che qualcosa mi era stato tolto e che mi sarebbe mancato.
Davvero.





 
Divina Commedia IV Canto dell''Inferno letto da Vittorio Sermonti

giovedì 2 dicembre 2010

Neve: haiku




Ho una grande fortuna con gli amici. 
Ho amici straordinari e tutti mi dannno qualcosa. 
Non solo affetto, lo scambio prezioso di confidenze, il ridere insieme, ma anche letture che non avevo fatto, il piacere di scrivere e di inventare storie, musica che non conoscevo, ricette di cucina, poesie che ignoravo. 
Un'amica mi ha regalato gli haiku.

Dalla terrazza
Haiku è una parola per definire un componimento poetico nato in Giappone, composto da tre versi caratterizzati da cinque, sette e ancora cinque sillabe: 
direbbero i dizionari.

Haiku è una poesia che esprime stati d'animo in maniera fulminante, intensa:  la brevità, la sintesi, l'assenza di nessi, di legami tra i versi lasciano spazio ai propri sentimenti, alle proprie emozioni.

Stamani mi sono svegliata per il silenzio e l'improvviso chiarore dalle finestre che accompagna le nevicate notturne. 
Sono andata a vedere: sì, c'era la neve e tanta. 
La prima sensazione è stata di gioia allo stato puro.
Poi sarebbe venuto il fastidio, la fatica di uscire, il traffico rallentato, i marciapiedi scivolosi, le piante del giardino bruciate dal gelo.

Ma all'inizio ho pensato: qui ci vorrebbe un haiku per fermare questo momento, questo istante di puro piacere.
La mia amica ne avrebbe scritto uno, subito, di getto.
Io li sono andata a cercare:

Ero soltanto
ero.
Cadeva la neve.
(Kubayoshi Issa)

Non c'è nulla.
I campi e i monti
rubati dalla neve
(Joso Naito)

Inverno desolato
nel mondo di un solo colore
il suono del vento
(Chiyo- jo)