mercoledì 30 marzo 2011

Chi è "quell'uomo"?




Non so se "quell'omo”o meglio- per essere corretti- "quell'uomo" comparisse solo nella mia famiglia in Toscana.
In casa era la mamma che ne parlava.

Fatta anche questa-disse quell'uomo che ammazzò la donna-” esclamava quando aveva svolto un compito particolarmente difficile.
Cinica e sintetica affermazione che ci lasciava interdetti.

Quando era sovraccarica di faccende da sbrigare, invece: “Ho un gran daffare- si lamentava- più di quell'uomo che morì di notte “.
Rieccolo! Era forse lo stesso? 
Che fosse morto dopo aver ammazzato la donna e perché ? Saperlo! 
Che fosse stato schiacciato dal rimorso?
Insomma, dietro le due frasi, c'era un giallo, un enigma tutto da scoprire.
“Quell'uomo” portava con sé un alone di mistero che mi incuriosiva.

Raccoglievo, così, tutti gli elementi che potevano essere utili.
 
“Ognuno al suo filare- disse quell'uomo andando nella vigna”- ci sollecitava la mamma, quando ciascuna di noi sorelle doveva svolgere un compito diverso, senza disturbare le altre.
Un dettaglio prezioso, questo.
Allora -ipotizzavo - doveva essere un vignaiolo e i filari quelli delle vigne che coltivava.
Che fosse un bevitore? 
Che avesse ucciso la donna in stato di ebbrezza? 
In tal caso sempre omicidio sarebbe stato, ma preterintenzionale.

Un´altra comparsa, molto più rara, ne rivelava un lato inatteso e sorprendente.


Quando la mamma ci vedeva inaspettatamente pallide o sofferenti usava chiedersi: "Dov'è quel fiore ch'io conobbi? Disse quell'uomo quando tornò a casa” .


Le parole velate di rimpianto, la similitudine floreale lasciavano intuire un aspetto più nascosto: il misterioso personaggio celava dentro di sé l'animo sensibile di un poeta.
Ma la frase apriva la strada ad altre supposizioni. 
Dov'era stato prima di tornare a casa ? 
Che avesse scontato la pena per l'omicidio della donna ? 
E a chi si rivolgeva con quel tono nostalgico e affettuoso ? 
Chissà.



Siamo tutti esseri complessi, pieni di sfaccettature e “quell'uomo” non doveva fare eccezione.
Ogni tanto ci penso e mi piacerebbe risolvere l'enigma di una vita e di una personalità tanto complicate.
Questi, comunque, sono gli unici dati che ho.

Chissà che l'enigmatico personaggio non faccia parte di un lessico familiare diffuso.
Forse chi legge questo post- toscano o no- potrà aggiungere altri dettagli a una ricostruzione ancora troppo parziale e piena di lacune e fare riemergere "quell'uomo", finalmente,  alla luce.



*l'immagine è di René Magritte










domenica 27 marzo 2011

Arte aborigena, M.N. Jagamarra, Cinque sogni.





Chi è venuto a trovarmi a Bruxelles ha visto troneggiare nella parete della stanza da pranzo un grande dipinto, regalo di matrimonio della nostra famiglia australiana. 
È un dipinto che suscita curiosità, che provoca domande.
È un dipinto aborigeno contemporaneo: un'arte estranea, quasi aliena per noi, un'arte che non può lasciare indifferenti.

Gli aborigeni australiani sono un popolo antichissimo, complesso: le loro tradizioni, le loro lingue differiscono molto da un gruppo all'altro e così le loro espressioni artistiche.
Quello che li unifica è il concetto del "Sogno" e del "Tempo dei sogni".
Idee difficili da sintetizzare e di cui si può dire, molto genericamente, che si riferiscono al periodo della genesi del cosmo. 
Il sogno rievoca gli esseri mitici e gli antenati che, percorrendo l'universo ancora amorfo, hanno creato tutto quello che ora vi si trova e hanno instaurato le leggi che regolano il mondo.

L'arte aborigena contemporanea è profondamente legata a quella tradizionale: ne ripete motivi e colori e ne ripropone la mitologia.
Nella zona di Papunya, in pieno deserto, si raccolse intorno agli anni ´70 una comunità di aborigeni di etnia Puintupi che usava, prevalentemente, uno stile nato per i disegni fatti sulla sabbia e connessi alle cerimonie di iniziazione.
È la cosiddetta "dot art", basata sulla tecnica del "poinitillisme", in cui la raffigurazione è realizzata con piccoli punti di diversi colori.

Una pittura astratta che rispecchia una realtà spirituale e modelli legati a leggende e miti ancestrali: ogni dipinto si riferisce a un sogno e rievoca i legami sacri che uniscono gli antenati e l'uomo agli animali e al territorio.
Nel 1971 un professore di disegno introdusse a Papunya l'uso della tela e dei colori acrilici, ma i motivi e i soggetti rimasero quelli tradizionali.
Uno dei maggiori pittori della comunità è Michel Nelson Jagamarra (nato verso il 1949).


M.N.Jagamarra, Cinque sogni, Melbourne coll. PIzzi


In questa tela del 1984 rievoca le vie percorse dagli antenati che si sono incarnati nelle loro creazioni nel cuore del deserto.
Il dipinto è separato in due parti da cinque cerchi, uniti da una linea che rappresentano i siti legati al sogno delle formiche volanti: le righe sinuose sono le tracce che altri animali hanno lasciato sul terreno.
Il grande serpente, invece, allude al mito dell arcobaleno.

Il soggetto, in realtà, è quasi inesplicabile per chi non conosca tutte le leggende del “Tempo dei sogni”. 
Quello che è straordinario è che tutti i motivi tradizionali sono ripresi e armonizzati in una maniera diversa, nuova, creativa, tanto da farne un capolavoro assoluto d'arte contemporanea.
Oggi l'arte aborigena è riconosciuta e apprezzata e raggiunge nelle aste quotazioni da capogiro.
I miti del “Tempo dei sogni”sono ormai raffigurati, con lo stile di Papunya, sugli oggetti più disparati, prodotti industrialmente, magari a Taiwan, e venduti nei centri commerciali e nei negozi di souvenir di tutta l'Australia.
Ma anche l'acquisto di un oggetto-ricordo può essere una porta per entrare nel mondo degli aborigeni e cominciare a conoscerlo: l'essenziale è lasciarsi prendere dal fascino di quella che rappresenta la più antica cultura vivente, totalmente diversa dalla nostra.

È un percorso da fare lentamente, con rispetto, considerando che per questo popolo isolato, senza documenti scritti, nomade, privo di spirito guerresco e quasi distrutto dalla violenza dei bianchi, l'arte rimane il principale mezzo di integrazione e di comunicazione con il nostro mondo.







giovedì 24 marzo 2011

Un infaticabile entusiasta: il punto esclamativo





«Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani...» (Ugo Ojetti, Cose Viste, Treves,1923-29)


Chi mi conosce sa che non sono insensibile al grido di dolore delle specie grammaticali in pericolo. 
Ho già risposto al richiamo del trapassato remoto o del punto e virgola e ho cercato di limitare la crescita di quella specie invasiva e infestante che è il futuro anteriore (ne parlo qui).

Le circostanze attuali mi impongono di spezzare una lancia (sintattica, s’intende) a favore del punto esclamativo, un segno nato per esprimere contenuta meraviglia negli austeri scriptoria medioevali e battezzato all’anagrafe come punto ammirativo.

Per secoli si è limitato a sottolineare, a rimarcare un periodo. 
È vero che si è sempre prestato, da serio professionista qual è, a ogni esigenza, fino ad acconsentire a rimanere capovolto all'inizio della frase, solo per accontentare gli spagnoli. 
Ora, però,rischia l’estinzione per sovraccarico, per eccesso di attivismo. 
Chi l’avrebbe mai detto?

È un lavoratore infaticabile il punto esclamativo, un vero stakanovista dell'interpunzione, tanto da accettare di essere usato, senza mai negarsi, nel linguaggio dei fumetti, in quello giovanile, nelle email, nei blog, negli SMS, nelle chat e, perfino, nei cartelli stradali, là dove sia richiesta attenzione e vigilanza.

È diventato, per eccesso di disponibilità, il prezzemolo di tutte le comunicazioni, ma non è colpa sua se dilaga online, se fa di ognuno di noi un eterno sovreccitato, se sembra impossibile chiudere un messaggio, salutare o ringraziare senza servirsene.

Eppure ora è costretto a subire sempre di più- pur senza fare una piega, com'è nel suo carattere (tipografico, ovviamente)- le più accese invettive dei puristi della sintassi. 
Ma gli è sempre più difficile mantenersi diritto senza mai  piegarsi sotto le sferzate linguistiche, cui è continuamente sottoposto: lamentele nei forum dell'Accademia della Crusca, anatemi nelle pubblicazioni specializzate, richiami negli articoli dei giornali.

Una pressione continua, intollerabile.

Il punto interrogativo, malgrado la sua perenne indecisione, lo ha già scaricato, giudicando una parentesi priva d'importanza la loro occasionale vicinanza (? !)
E allora il punto esclamativo, lasciato a se stesso, moltiplica gli sforzi, si affatica, si fa in quattro, in cinque, in sei o anche di più....!!!!!
Tutto inutile: è proprio l’eccesso, l’abuso che rischia di essergli fatale. 

Sono sicura che lasciato per un po’ in disparte saprà ritrovare la sua primitiva sobrietà e tornare a esprimere, su richiesta e con lieta meraviglia, solo i momenti di entusiasmo più sinceri e inattesi.
Ho pensato soprattutto che bisogna salvarlo da se stesso  e che occorre trovargli, al più presto, un luogo di riposo e di meditazione, dove godersi una tregua, ritemprarsi e approdare finalmente a un punto (uno solo) di riflessione.

La situazione, sempre più drammatica, mi ha spinto a chiedere aiuto agli amici di Scarabooks.
Per sapere cosa ne dicono, questo è il link:

http://scarabooks.blogspot.com/2011/03/il-punto-esclamativo-ha-bisogno-di.html 





martedì 22 marzo 2011

Giovanni Fattori, Il campo italiano alla battaglia di Magenta.




In questi giorni di rievocazioni mi accorgo di quanto poco io sappia degli eventi che hanno portato all'Unità d'Italia.
Le guerre d'indipendenza, per esempio, me le ricordo male e più che altro  come una sfilza di luoghi e di date.
Troppo spesso la storia, ai miei tempi,  la studiava in fretta per arrivare più velocemente possibile alla fine del programma.

L'ho riletta un po' in questi giorni per capire meglio il Risorgimento e, siccome sono abituata a usare le immagini, sono andata a rivedermi i grandi dipinti celebrativi: quello che mi è rimasto nel cuore è questo di Giovanni Fattori (1825-1908).


G. Fattori, Il campo italiano alla battaglia di Magenta, Firenze, Galleria d'Arte Moderna


L'artista, che aveva partecipato attivamente ai moti risorgimentali, collaborando con il Partito d'Azione, esegue questa grande tela nel 1862 per un concorso voluto dall'allora Ministro dell'Interno, Bettino Ricasoli.
L'intento era quello di rendere omaggio al nuovo Stato italiano con la rappresentazione delle maggiori battaglie risorgimentali, ancora vive nella memoria di tutti, per esaltare le vittorie conseguite e il cammino già compiuto
Erano passati solo tre anni da uno degli avvenimenti militari più importanti: la vittoria nel giugno 1859 a Magenta delle truppe franco- piemontesi su quelle austriache, che aveva segnato la grande svolta unitaria, preparata dalla politica di Cavour.


All'epoca Fattori non pratica ancora quel tipo di pittura a “macchia”,con contrasti accentuati di colori chiari e scuri, destinata a dare il nome al movimento dei Macchiaioli, di cui sarà uno dei maggiori esponenti.
La novità del dipinto, anziché nella tecnica, consiste piuttosto nella scelta del soggetto, in cui è assente ogni pur nobile retorica patriottica.
Fattori non sceglie  la strada della celebrazione e di  raffigurare gli episodi più gloriosi ed eroici della battaglia.  
Anzi, la relega  sullo sfondo.
Lo scontro è intuibile solo dal fumo delle cannonate, a mala pena visibile. Molto lontano, all'orizzonte, appare il profilo della città di Magenta.
Domina su tutto l'azzurro di un cielo primaverile, appena velato da qualche nube.
La battaglia è finita; i feriti sono raccolti nelle retrovie da un carro ambulanza e curati da due suore, sotto il controllo dei soldati italiani e francesi.
E sono i caduti di tutt'e due le parti, come dimostra la bianca divisa austriaca del soldato assistito dentro il carro. 
Non c'è più divisone tra vincitori e vinti o tra eserciti nemici.


Alla battaglia di Magenta presero parte cento-ventimila soldati e si contarono alla fine più di seimila vittime. 
Tutti per lo più giovani, soldati semplici e, da parte italiana, soprattutto volontari. 
Fu, davvero, tanto il sangue versato;  si dice che da allora  il termine "magenta" fosse adottato  per definire quel colore rosso scuro, simile alla tinta del sangue rimasto sul terreno.

Scegliendo la dimensione della pietà, anziché quella trionfalistica, Fattori ci ricorda il costo in vite umane di quella vittoria e il prezzo di dolore e di sofferenza pagato in ogni battaglia.


 
 
 
 

sabato 19 marzo 2011

Bruges: il beghinaggio.





Se l´immagine del viaggio in Marocco è stata quella di Essaouira, quella del ritorno non può essere  che quella del beghinaggio di Bruges.
Emozioni e mondi totalmente differenti.

I beghinaggi in Belgio e in Olanda sono piazze o cortili circondati da piccole abitazioni omogenee.
Qui abitavano le beghine: donne sole, non sposate, vedove o vittime di violenza che si ritiravano in luoghi protetti per vivere, lavorare e pregare in comunità, difese dall'insicurezza dell'esterno.



Quello di Bruges è uno dei miei luoghi dell´anima. 
La calma, le sottili sfumature al passaggio delle stagioni, il silenzio sono capaci di un delicato incanto, di una malia irresistibile. 

Tornata dalla luce e dalla varietà di emozioni del Marocco, continuamente sollecitata dai colori, dal rumore dalle gente che circonda, che chiede, dal richiamo dei muezzin, dalle donne velate, dai negozi, dalle merci esposte, dalla miseria, dai carretti sovraccarichi tirati da asini stanchi, dalle moto, dal vento e dalla polvere, ho capito quanto in realtà avessi bisogno di questo mondo più rarefatto, più ovattato, più discreto.

Ho capito, rientrando  in Belgio, quanto questo paese che non è il mio, ma in cui abito da vent'anni, questo paese piatto, di canali, di silenzi, di colori spenti, di nebbie e di piogge sia diventato importate per me.
Certo non è l'Italia e non ho lo stesso senso, a volte, doloroso, di amore e di appartenenza.

Ormai, pero', è in questo strano paese diviso, lacerato, ironico, surreale, che - tornata da un viaggio entusiasmante e faticoso - mi sento finalmente arrivata a casa.






Belgitudine :
Jacques Brel, Le plat pays:


martedì 15 marzo 2011

Essaouira, Mogador





Essaouira la «ben disegnata».
Questo è il nome che la città prende nel 1765, quando l'intero piano urbanistico viene riprogettato  da un architetto francese, che si dice sia arrivato in Marocco catturato dai pirati, Theodore Cornu.

Il nome della città antica era Mogador.

A volte il fascino di un luogo sta anche nel suono di un nome.

Mogador evoca il commercio atroce degli schiavi, ma anche quello delle esotiche piume di struzzo, del sale e dell'oro che partivano da una città, mitica per la mia immaginazione, Timbuctu.

Le carovane arrivavano qui, dopo aver attraversato il deserto e si trovavano all'improvviso sul mare, sull'oceano. La città doveva apparire, allora, un miraggio, alla fine della via africana dell'oro.

Era l'estremo lembo d'Africa,  separato solo dal mare, dalla mèta ultima dei percorso dell'oro e delle spezie: l'Europa.


Anche le isole di fronte hanno un nome straordinario, evocatore.
Sono le Isole Purpuree: da qui - estratto da un mollusco marino, il murex - veniva quel colore porpora che nell'impero romano e poi bizantino era riservato alle vesti degli Imperatori, i porfirogeniti, i nati nella porpora.

Figlia del vento”, bianca e azzurra, in contrasto con il colore ocra, con la polvere delle città marocchine dell'interno.
Le porte dalle infinite tonalità di blu: cobalto, oltremare, turchese ricordano la vicinanza del mare, che le grida dei gabbiani non fanno mai, comunque, dimenticare.
Quando nel 1952 Orson Welles vi gira il suo «Otello» Essaouira offre il nitore delle sue mura, perfetto per l'ambientazione del film, in un bianco e nero eloquente ed espressivo.


E ora, lungo i bastioni,  nella skala della Casbah, con un vento fortissimo e i cannoni delle fortificazioni ormai inutili, si ripensa all'effetto che la  vista di questa città bianca sull'oceano, doveva fare, quando le lunghe carovane arrivavano dal deserto, stanche, impolverate, portando con sé le merci preziose di Timbuctu e scoprivano, d'improvviso, la luce e l'odore del mare.

Essaouira, Mogador, la "figlia del vento".






giovedì 10 marzo 2011

Invito al viaggio




Può essere di pochi chilometri o in capo al mondo, può essere all'interno di se stessi, solitario o in comitiva, niente equivale all'attesa, all'incanto, alla scoperta di un viaggio.
E ora che sto per partire per un viaggio vero, mi vengono alla mente due poesie: "Itaca" di Kavafis (l'ho trascritta qui) e "Invito al viaggio" di Charles Baudelaire.
Sono viaggi speciali, viaggi sentimentali, viaggi dell'anima, in cui la meta non conta, non importa.
Quello che vale, come sempre, è il cammino.


H. Matisse, Luxe, calme et volupté, Parigi, Musée d'Orsay


C. Baudelaire, Invito al viaggio, da "I fiori de male "


Sorella mia, mio bene,
che dolce noi due insieme,
pensa, vivere là!
Amare a sazietà,
amare e morire
nel paese che tanto ti somiglia!
I soli infradiciati
di quei cieli imbronciati
hanno per il mio cuore
il misterioso incanto
dei tuoi occhi insidiosi
che brillano nel pianto.

Là non c'é nulla che non sia beltà,
ordine e lusso, calma e voluttà.

Mobili luccicanti
che gli anni han levigato
orneranno la stanza;
i più rari tra i fiori
che ai sentori dell'ambra
mischiano i loro odori,
i soffitti sontuosi,
le profonde specchiere, l'orientale
splendore, tutto là
con segreta dolcezza
al cuore parlerà
la sua lingua natale.


Là non c'é nulla che non sia beltà,
ordine e lusso, calma e voluttà.


Vedi, su quei canali
dormire bastimenti
d'animo vagabondo,
qui a soddisfare i minimi
tuoi desideri accorsi
dai confini del mondo.
Nel giacinto e nell'oro
avvolgono i calanti
soli canali e campi
e l'intera città;
il mondo trova pace
in una calda luce.


Là, tout n'est qu'ordre et beuté,
luxe, calme et volupté


 



martedì 8 marzo 2011

Parole: obliterare.



O fattorino, dal ciuffo nero / fora il biglietto al.../ fora il biglietto al.../al passeggero. / Foralo bene con diligenza, / fin dal momento del.../ fin dal momento del.... / della partenza “...”
Cantava Paolo Poli riprendendo una canzoncina diffusa, quando l'obliterare era ancora di là da venire.

Sugli austeri autobus delle Autolinee Lazzi che usavo da adolescente per andare a Firenze dal paese dove abitavo c'era ancora il controllore dei biglietti.
Non esisteva il “titolo di viaggio”, né tanto meno ci veniva chiesto di obliterarlo.
Il biglietto, allora, lo si forava.

La prima volta che ho sentito il termine “obliterare”- lo confesso - non l' ho capito. Pensavo avesse a che fare con la parola oblio.
Dimenticare il biglietto? No, decisamente non era quello.
E invidiavo chi lo aveva adottato immediatamente, senza alcuna diffidenza.

Ma non potevano scegliere una parola più semplice ?
Certo non è facile capirla, anche se  un forum dell'Accademia della Crusca ne dimostra, con sapienti ragionamenti, l'assoluta pertinenza linguistica.

Ob” sopra (nel senso di allontanamento) e“littera”nel senso di linea: dunque “cancellare le lettere o i tratti di linea, annullare” spiegano i dizionari etimologici.
Se si guarda il significato nei più comuni vocabolari si trova che, oltre all'“annullare il biglietto”, al termine medico per “occlusione di una cavità” e a quello giuridico per “non tenere conto”, c'è anche quello di “far svanire, cancellare i ricordi”.

Ma allora davvero l'oblio c'entra  qualcosa !
E mi è venuto anche un dubbio: chissà che nella mia vita amorosa anch'io non sia stata “obliterata” da qualcuno.
Ma....! Sarà  la nostalgia dell'adolescenza o del fattorino dal ciuffo nero, sarà  per il ricordo di qualche obliterazione d'amore subìta e mai accettata, fatto sta che a me il vocabolo non è mai piaciuto.

Quando mi sono trasferita a Bruxelles ho pensato di essere al sicuro, di essermelo lasciata per sempre alle spalle.
Mi sbagliavo: la prima volta che sono andata in Comune e mi sono trovata alle prese con un documento per cui era richiesta una specie di marca da bollo ero perplessa. Non sapevo cosa farne.
 Il faut l'oblitérer, madame !” mi ha spiegato l'addetto allo sportello.
Oblitérer ? Ero sconcertata : l'”obliterare” mi aveva seguito fin là.

Le parole non sono neutre.
Possono essere amate o odiate, leggere o pesanti, frivole o serie...
E ho capito che questa è davvero una parola tenace. Non si lascia obliterare facilmente
Bisognerà che impari a conviverci.


sabato 5 marzo 2011

Goya, 3 maggio 1808



Nel mio manuale di storia di terza liceo per illustrare le guerre napoleoniche  c'era la foto di questo dipinto di Goya (1746-1828). 
È un quadro notissimo ed è quello che mi viene in mente ogni volta che si parla di rivolte, di uccisioni e di repressioni. 
Di tutti gli atti di guerra, per quanto la storia li possa spiegare, rimangono nella memoria solo le immagini della paura, della sofferenza e dell'orrore. 
E questa è una delle immagini più famose ed emozionanti, capace di saltare ogni mediazione, ogni filtro e di colpirci nel profondo della nostra sensibilità.





È una scena senza eroismi, senza vincitori, senza trionfalismi. 
Il cielo è scuro non ancora illuminato dal chiarore dell'alba e, sullo sfondo, si intravedono le case e le chiese di Madrid. Sulla sinistra un mucchio di cadaveri e la terra color ocra intrisa di sangue.
A destra una fila di condannati che avanzano impauriti. 

C'è un'unica fonte di luce, una grande lanterna posta a terra, che illumina solo le vittime. 
Rimangono in ombra i soldati, rappresentati, in primo piano, impeccabilmente vestiti, ma tutti di schiena, perfettamente allineati e con i fucili puntati, come una massa anonima e oscura, senza differenze individuali.
Ogni vittima, invece, è raffigurata in maniera differente, con espressioni e atteggiamenti diversi: c'è chi ha i pugni serrati, chi tiene la testa bassa, chi si copre il volto e chi prega, a mani giunte, come il frate chino sopra i cadaveri.

Tutta la composizione culmina nella figura al centro, un uomo con i pantaloni gialli e una camicia bianca,  in cui sembra concentrarsi tutta la luce: ha gli occhi sbarrati dal terrore e le braccia alzate come un Cristo in croce. 
Per rendere più evidente l'allusione Goya arriva a dipingere una ferita che rievoca le stimmate sulla mano destra e un alone luminoso (come un'aureola) intorno alla figura.

L'uomo non è né un santo né un eroe, ma un povero-cristo qualsiasi, forse uno di quei contadini senza nome che furono le vittime più numerose del massacro. La sua angoscia, la sua paura è percepibile, senza conforto. Quegli occhi sbarrati di fronte al plotone di esecuzione, di fronte alla morte, si incidono dentro di noi, facendoci sentire spettatori impotenti di una violenza che non possiamo fermare.

Il quadro di grandi dimensioni (più di tre metri) fu eseguito  nel 1814, quando Ferdinando VII era già ritornato in Spagna e aveva restaurato il potere, ma si riferisce a un evento di sei anni prima.
Nel 1808 la Spagna era stata conquistata dalle truppe napoleoniche. 
Il popolo di Madrid si era ribellato e un ufficiale francese era stato ucciso.
Il generale Murat aveva ordinato una rappresaglia e quattrocento civili arrestati a caso (artigiani, commercianti, mendicanti, ma soprattutto contadini diretti al mercato e rimasti intrappolati in città) erano stati fucilati la mattina del 3 maggio 1808.

Goya  allora aveva sessantadue anni ed era un artista affermato, nominato da tempo pittore ufficiale della corte spagnola. 
Al momento degli scontri e della repressione era a Madrid e  vi aveva assistito, spiando col cannocchiale da una finestra di casa sua e andando di nascosto sui luoghi a disegnare degli schizzi sul suo taccuino.
Ma è solo a distanza di tempo che può' raffigurare l'orrore di quello che ha visto e che è ancora presente sotto i suoi occhi.

Per rendere l'effetto di un'“istantanea", di un  dipinto eseguito quasi di getto, sull'onda dell'emozione, Goya usa, come solo un grande artista sa fare, tutti i mezzi più sofisticati della pittura, preferendo pennellate veloci, sommarie che accentuino l'intensità drammatica della scena.
Ma, pur rispettando la verità  e la forza  delle sensazioni, riesce a dare al dipinto un significato universale che trascende il singolo episodio. 

La vicenda storica o i valori di patria e patriottismo passano in secondo piano e quasi spariscono.
Quello che rimane è una rappresentazione, senza confini e senza tempo, della violenza,  del terrore e dell'ingiustizia di ogni guerra.






martedì 1 marzo 2011

Le zie non sono gentiluomini




Come dice il titolo di un libro di Wodehouse: le zie non sono gentiluomini.
E allora che cosa sono, che cosa rappresentano?
Molti testi specialistici sono dedicati alle relazioni familiari, figli- genitori, marito-moglie, fratelli, perfino suocera- nuora,  ben pochi, che io sappia, sono quelli riservati al rapporto zia-nipoti.

Eppure essere zia è importante: è ricoprire un ruolo diverso da quello dei genitori,è raccogliere confidenze, consigliare senza voler educare, è proteggere senza obbligare. 
Spetta, forse, alle zie anche il compito di radicare nei nipoti non le "piccole virtù" dell'educazione quotidiana, ma le grandi e anche il piacere di consentire quelle lecite stravaganze che i genitori non permetterebbero.

E io mi sento “zia” a tempo pieno.
Ho sei nipoti di varie età e di varie nazionalità (italiani, i miei, tedeschi, quelli di mio marito): tutti amatissimi.
Avevo vent'anni quando, per la prima volta, sono diventata zia.
Le mie zie paterne e materne erano allora, ai miei occhi, delle "vecchie signore" che incontravo regolarmente ai pranzi delle feste e che ritrovavo in tutte le occasioni liete o dolorose della vita familiare, ma a cui non avrei affidato il benché minimo segreto. 
Per quel ruolo che mi era piombato addosso e a cui non ero preparata non avevo, nella vita, alcun modello di riferimento.

Mi riconoscevo poco nell'idea diffusa della zia vecchiotta, con i capelli raccolti e gli occhiali, che priva di figli, vizia i nipoti con appetitosi manicaretti, leggendo favole o filastrocche infantili e, tanto meno, nella zia maliziosa che introduce i nipoti a gioie proibite (come nel  film "Grazie, zia"  di Samperi)
Cercavo modelli nei libri e lì davvero potevo scegliere tra la vecchia brontolona dal cuore d'oro della zia Betsy del David Copperfield, le zie pettegole e impiccione di Wodehouse, l'affascinante e protettrice Duchessa Sanseverina della Certosa di Parma oppure le zie innamorate delle "Sorelle Materassi" di Palazzeschi... 
Tanti libri, tante zie.


Ma quale prendere ad esempio ?

Fu un caso: alla televisione, un pomeriggio d'estate, vidi un film americano, tratto da un libro di Patrick Dennis, solo recentemente divenuto di successo.
Eccolo, finalmente, il modello: divertente, travolgente, anticonformista, viaggiatrice impenitente, lieve ma non superficiale, pronta ad accompagnare i nipoti ovunque, pronta ad accettare ogni confidenza senza mai giudicare (e, in più, bella e ricca).

Eccolo l'esempio- inarrivabile, certo- ma a cui almeno ispirarsi per scoprire con quanta leggerezza e, insieme, con quanta profondità si possa ricoprire il ruolo di zia.


Era lei: Zia Mame !