giovedì 22 dicembre 2011

Argentina, adios ! (5)






Gli ultimi giorni di viaggio, dalla fine del mondo, la Terra del Fuoco, al centro del mondo, o almeno dell'Argentina, a Buenos Aires.

A come  arrivare a Ushuaia, dove finisce la terra australe  e si uniscono le acque degli oceani, immaginando distese enormi e solitarie e  trovare una città di sessantacinquemila abitanti, un traffico che nemmeno sulla tangenziale di Bologna nelle ore di punta e negozi di souvenir e di abbigliamento sportivo più fitti degli "Outlet" della Via Emilia: la" fine del mondo" versione 2011.
Basta, però, allontanarsi un po' e fare un giro in barca nel canale di Beagle per scoprire il verde delle acque  gelide e la luce lunghissima dei giorni del solstizio d'estate. E ritrovare, nel silenzio e nella vastità dello spazio, la possibilità di fantasticare sulle vicine tempeste di Capo Horne.

B come Buenos Aires
Poco più di quaranta milioni di abitanti in Argentina, tredici milioni nella capitale.

Buenos Aires- si dice - è per il Sud America quello che Parigi è per l'Europa. La città della cultura, dell'arte, dell'eleganza. Saranno pure arroganti gli abitanti,  convinti di essere al centro del mondo, ma Buenos Aires rimane un punto di riferimento imprescindibile.
Nessuna citta in tutta l'America latina- tutti lo ammettono - le sta alla pari per bellezza
Un'urbanistica studiata,  palazzi ottocenteschi e grandi avenidas simili ai boulevards parigini.


Più di centocinquamila alberi fatti piantare, alla fine dell'Ottocento, lungo tutte le strade, dal geniale architetto e paesaggista francese Charles Thays.
Una città europea. 
Se ci sono fisionomie indios, sono quelle dei nuovi immigrati (dalla Bolivia, dal Paraguay o dal Perù...) che hanno sostituito la vecchia immigrazione  dall'Europa.
Una città di contrasti, dove l'enorme favela di Villa 21 costeggia il quartiere elegante del Ritiro, e dove, nella periferia, preme la miseria dei nuovi arrivati

B come Boca, il  barrio all'imboccatura del fiume, dominato dallo stadio immenso, in cui gioca la squadra di calcio più amata, il Boca junior.
Gli immigrati italiani, soprattutto liguri, si stabilirono qui e lasciarono un'impronta fortissima, tanto che i tifosi del Boca si chiamano ancora "Xeneises", i genovesi.
Le case fatiscenti, all'ombra dello stadio, accolgono, ora, i nuovi immigrati.
Dappertutto miseria, strade sporche e paura. 



La  facciata  del quartiere, però, è una cartolina turistica: le due vie del "Caminito", con le case di lamiera colorata, ristoranti e caffè.













I visitatori arrivano a frotte: si balla il tango, si mangia la parilla e si celebrano, ovunque, tra turismo e verità, i miti di Maradona, Eva Peron e Carlos Gardel.










B come Borges. Uno dei miei scrittori preferiti: impossibile sfuggire alla suggestione di ritrovarlo  nella casa dell'infanzia, nella sua biblioteca, nei suoi caffè  o nell'ultimo appartamento di calle Maipù. Certo Buenos Aires è cambiata: nel quartiere più amato, Palermo, le boutiques e i bar alla moda hanno sostituito le osterie, in cui si ritrovavano i gauchos arrivati dalla pampa. Inutile cercare la prigione dove don Isidro Parodi risolveva i suoi misteri, rintracciare la casa dell'aleph o  identificare la biblioteca che ha la forma dell'universo.
Il giardino dei sentieri che si biforcano, il labirinto dei suoi scritti, però l'ho trovato: è la città stessa, con la sua pianta a scacchiera e le sue strade parallele che si aprono su piazze alberate, da cui si diramano altre strade, che si aprono su altre piazze alberate, all'infinito...

C come cimitero della Recoleta nel cuore del quartiere di lusso, con le pompose capelle funerarie dei padri della nazione. Ma è solo di fronte a una che i visitatori si fermano si fanno fotografare, sostano e pregano: è la cappella della famiglia Duarte, la tomba di Evita.



D come la decorazione lussureggiante dei palazzi ottocenteschi, dal centro ai quartieri popolari. 
Purtroppo sempre più rari e sostituiti dagli immobili anonimi della speculazione recente.








F come fiume. Buenos Aires è nata su un estuario, grande come un mare e con  un porto che ha fatto la sua  la fortuna, tanto che gli abitanti si chiamano ancora porteňos. Ma non  ha l'aria di una città di fiume o di mare. Il rio della Plata lo si percepisce appena, come una presenza lontana e distante e, quando lo si scorge, maestoso e largo da non  vederne la fine, è quasi una sorpresa.

N come Natale a 37 gradi, con tutto l'apparato di abeti decorati, neve finta, babbi Natale sudati e renne presumibilmente spossate dall'afa. Enormi  panettoni per il cenone della vigilia incombono nelle vetrine di tutti i supermercati.




T come Teatro Colòn, tremila posti, foyer decorati in marmi e stucchi, vetrate importate da Parigi, una sala dall'acustica perfetta. 
Il sogno di grandezza della città.













Nella piazza di fronte i piccioni aspettano, all’ombra dei leggii, il prossimo concerto.












T come Tortoni, il caffè dove prendere un doble e una media luna, serviti da camerieri dalla divisa impeccabile e immaginare, in un tavolino appartato, Borges e Cortàzar che conversano fittamente tra di loro.









Ci sarebbe ancora tanto da dire: la piazza de Mayo, la Subte (la metropolitana), calle Florida,  il cinema. Non basterebbero le lettere dell’alfabeto, né lo spazio di un post.

Ma almeno "Una frase, un rigo appena", per dirla col titolo di un romanzo di un altro porteňo, Manuel Puig,  è d'obbligo:

T come tango. 
Suonato nel mercato di San Telmo, dove tra le case colorate, ad ogni angolo, un vecchio cantante, panama in testa e immancabile sigaretta tra le dita, si spaccia per l'erede  di "Carlito" Gardel.








Ballato nel chiuso delle milonghe o all'aperto, nel parco di Belgrano.

Non importa se vecchi o giovani, belli o brutti, argentini o stranieri.
Basta (per le signore) portare con sé un paio di scarpe da tango, lasciarsi trasportare dalla musica ed è fatta. Coppie improbabili di vecchi tangueros e giovanissime ragazze, ballerini cinesi, eleganti signori di mezza età: tutti stregati dalla magia del tango.






E ora ?

"Nessuno ci toglierà quello che abbiamo ballato...": dicono da queste parti.
Nessuno ci toglierà le mille sensazioni di un paese che, nel ricordo di un'amica, ci è diventato ancora più caro.



Siamo appena rientrati io e il compaňero  e già abbiamo nostalgia e voglia di ritornare, anzi, per citare Gardel, di " Volvèr".

Argentina, adios, o meglio, arrivederci! 

E a tutti ovviamente: 
“Feliz navidad”

















Altre foto saranno pubblicate QUI dal companero, come "Lo zio di Leo", sotto l'etichetta "Argentina" e "Chile".









lunedì 12 dicembre 2011

Argentina, che passione ! (4)








Potrei cercare di definire i paesaggi della Patagonia del Sud, divisa tra Argentia e Cile, la magnificenza delle montagne o dei parchi, come quello di Torres del Paine, dove le acque dei torrenti e dei laghi sono di un trasparente colore turchese.


Potrei parlare dei  ghiacciai che riflettono al sole la loro gelida luce azzurrata.
O dei pezzi di ghiaccio, piccoli o grandi come iceberg, che galleggiano sull'acqua.


Ma non è facile commentare la bellezza e, allora, meglio continuare con i miei appunti sparsi.






A come arrivare nella Patagonia del Sud e scoprire, sullo sfondo di una steppa desertica, un paesaggio di laghi, di ghiacciai di montagne, totalmente diverso dalla piatta distesa che abbiamo attraversato e che aveva finito per commuoverci con la sua brusca riservatezza, il suo isolamento e la sua solitudine. 

Qui è tutto più maestoso e fragoroso, se paragonato al silenzio del Nord.
Ma anche qui il tempo  è trascorso e non è più quello degli avventurieri o dei rudi appassionati di alte vette. 
È passata, e di parecchio, l'epoca in cui qualche locandiere si poteva stupire  nel riconoscere nei suoi ospiti due banditi in fuga, come  Butch Cassidy e Sundance Kid.
È trascorso anche il tempo in cui pochi alpinisti (o meglio andisti) arrivavano alle montagne stremati, dopo aver percorso  la lunghissima e sterrata  Routa 40.
Ora la strada è  asfaltata e la cittadina di El Calafate ha assunto l' aria di una Cortina patagonica. Si dice che alcuni speculatori europei volessero addirittura aprire  delle piste da sci, vicino ai ghiacciai. Per fortuna ci hanno pensato l'indomabile vento patagonico  e il freddo dell'inverno a far naufragare il progetto.
Basta ancora allontanarsi un po' per scoprire le stesse strade solitarie e gli stessi paesaggi senza limiti di una volta.





B come benzina: un miraggio. 
I distributori distano tra loro centinaia di chilometri  e ci si può ritrovare in una pompa in mezzo al deserto ad aspettare, col serbatoio a secco, che il gestore finisca comodamente la sua pausa pranzo.







C come Cerro Torre. Alla fine ce l'hanno fatta a scalarlo, fino alla cima e ora le vie sono aperte. 

Una montagna « mitica », l'”urlo di pietra” di un film di Herzog una parete di roccia granitica che sale  in verticale per ottocento metri e un vento fortissimo. 
Eppure non è alto, poco sopra i tremila metri, un nano in confronto alle vette dell'Himalaya. In quanti, però,  si sono ostinati a conquistarlo! 
Indimenticabile Cesare Maestri. La prima drammatica scalata,nel 1959, con la morte del compagno, Toni Egger, la tempesta, lo smarrimento e il ritorno confuso, stremato, quando racconta di esserci arrivato davvero alla cima. Ma non ha prove e non tutti gli credono. 

Allora un secondo rabbioso tentativo nel 1970  e questa volta con un compressore, con cui pianterà chiodi a espansione per domare quella roccia invincibile. Parte tra le polemiche e arriva fin sotto la cima, sotto il “cappello di ghiaccio” che la ricopre, perché, per lui, la montagna finisce dove finisce roccia: trenta metri che mancano alla conquista. Dirà sempre che ce l'ha fatta e il compressore lo ha lasciato lassù, al chiodo più in basso. La via che ha aperto si chiama ancora “del compresor”, con un misto di rispetto e di ironia e con il fascino che  suscita la caparbietà e la tenacia di chi sfida, a muso duro, la montagna






E come l'Estancia cilena di Cerro Guido, dove siamo stati alloggiati. 
Magnifica la vita per gli ospiti di quesa fattoria, grande come il tre per cento del Belgio, con un paesaggio che sembra una cartolina o una scena di un film western. 
Meno bella per chi ci vive: primi fra tutti i gauchos. Un lavoro durissimo, al di là di ogni mitologia, per  controllare, con la sola compagnia del cavallo e dei loro tanti cani, migliaia di pecore.
Accanto a loro i lavoratori fissi (qui in trentacinque) più gli occasionali che si spostano in gruppo ( la “comparsa”) da una estancia all'altra per tosare le pecore, pagati mezzo dollaro l'una (un dollaro e mezzo l'ora, se va bene). Il governo assicura la presenza di due maestre (una per l'asilo e l'altra per le elementari, con dieci bambini in totale), un'infermiera e una caserma di carabinieri. 
Nel 1995 l'inverno freddissimo, la perdita di migliaia di pecore e la flessione del costo della lana (per la diffusione delle fibre sintetiche) hanno costretto i proprietari di piccole estancias a vendere e ora sono costretti a lavorare alle dipendenze dei grandi proprietari.
Difficile dimenticare che la bellezza di quello che ci circonda è dovuta in gran parte al loro lavoro.

H come huemul. Se tra Stati Uniti e Cina si ristabilirono relazioni diplomatiche grazie a una partita di ping pong, tra Cile e Argentina è stato un convegno sulla salvezza di un cervo andino, l'huemul, a rasserenare il clima tra i due paesi, in contrasto da anni. Gli huemules ora possono circolare liberamente, gli umani meno, visti gli estenuanti controlli doganali, previsti da tutt'e due i paesi.
Per ritrovare, varcato il confine, gli stessi paesaggi, la stessa lingua e le stesse abitudini.

P come Perito Moreno. In Patagonia  si chiama tutto Perito Moreno: i parchi naturali, le strade e, soprattutto, il ghiacciaio immenso (250 chilometri quadrati) che ancora devo vedere.
Pensavo che il nome si riferisse a qualche caratteristica del paesaggio. Invece, no. Moreno è il cognome di Francisco Pascasio (1852- 1919), il grande esploratore della Patagonia. “Perito” significa esperto ed esperto Francisco Moreno lo era davvero. Infaticabile percorse negli anni '70 dell'Ottocento, poco più che ventenne, tutta la Patagonia, disegnando carte, esplorando località deserte, segnando confini, sfidando elementi naturali e animali selvaggi (il suo scontro con un puma da montagna, una leona, ha dato il nome al fiume  che costeggia i ghiacciai).
Il perito Moreno ha conosciuto, come nessun altro, questa terra e ora fiumi, montagne e ghiacciai rendono onore al suo nome. 
Non avrebbe potuto desiderare un omaggio  migliore.

P come Pisco sour. 
Cile e Perù litigano da anni sulla paternità di questo cocktail. In Cile lo offrono dappertutto e in qualsiasi circostanza. La ricetta è semplice: tre bicchierini di Pisco con due cucchiai di zucchero, un bicchierino di succo di limone e un albume di uovo. Si mescola ed e è fatta.
Magari da bere in una bella serata di luna, offerto dal mio "companero de viaje" e fotografo, per festeggiare il mio compleanno


E allora: salud !








lunedì 5 dicembre 2011

Argentina, che passione ! (3)





Un amico, prima della partenza, ha citato una frase di Ennio Flaiano: "Il miglior modo di arrivare è  quello di non partire".
Per una volta Flaiano aveva torto. Il miglior modo di arrivare è quello di partire, magari per l'Argentina.
Quello che mi ha dato e mi sta dando questo viaggio è qualcosa di prezioso, anche se difficile da definire.
Ci provo, continuando, nel Nord Est della Patagonia, i miei appunti alfabetici.


A come animali
Non sono una patita dei documentari del National Geographic, detesto gli zoo e guardo raramente Geo& Geo.
Non avrei mai creduto di emozionarmi, incontrando un intero asilo infantile di piccoli choique, una specie di struzzi, che, disciplinatamente, attraversano la strada, controllati da un adulto (il padre- mi hanno spiegato- perchè la madre, non appena le uova si schiudono, abbandona la famiglia in cerca di nuove avventure), o nel vedere un guanaco, seguito dal suo harem di eleganti "guanachesse", guardare pensosamente il mare, nell' aggirarmi tra migliaia di pinguini di Magellano, che, a coppie  (monogame, ma infedeli è chiarito nel cartello) se ne stanno immobili al sole come piccole sculture da giardino o nel dare la precedenza a un velocissimo armadillo. E certo non avrei mai pensato di osservare a lungo, dall'alto delle falesie, gli elefanti o i leoni marini che si impigriscono al sole come corpulenti e oziosi bagnanti.
È come se, improvvisamente, fossi entrata  dentro la  pagina della fauna del Sud America dell'album con le figurine degli "animaletti", con cui gioca entusiasticamente mio nipote di due anni. Un incanto.


B come balene. Vedere le balene  nelle acque della penisola di Valdès è un'esperienza metafisica. Perchè la balena, è ben più di un animale, è un simbolo: è il Leviatano,  è Moby Dick,  è il mostro che ingoia Geppetto e Pinocchio nella favola della nostra infanzia.
All'inizio le numerose barche, cariche di turisti, possono suscitare quasi il sospetto di una Disneyword patagonica, ma la sensazione sparisce subito, quando, d'improvviso, una specie di isola, comincia a emergere dall'acqua. Si leva dal mare e inizia ad affiorare, sempre più vasta. Le incrostazioni dei crostacei accentuano l'impressione che si tratti non di un animale, ma di qualcosa di inorganico, di un pezzo di terra appena emersa  o del residuo di una nave gigantesca scampato a un naufragio. La meraviglia mozza il fiato. E, quando, dopo qualche evoluzione,  se ne va, immergendosi totalmente e lasciando  fuori dall'acqua solo la grande coda, l'emozione fa fatica a sparire.   E il silenzio, innaturale per un gruppo di turisti, eppure mantenuto per tutto il tempo dell'apparizione, dura a lungo. Difficile da dimenticare.

P come piatta: "Com'è piatta la Patagonia !" ho pensato, scoprendo che  il territorio del nord est  è una enorme pianura bassa, in qualche punto addirittura sotto il livello del mare. Le strade interminabili, spesso sterrate,  corrono rettilinee tra due file di cespugli, coperti di polvere. Tanta polvere. Gli alberi sono rarissimi. Ogni curva è un evento, una doppia curva un prodigio.
Si oltrepassano  per ore distese immense e disabitate, in cui, a volte, fa una comparsa qualche rara collinetta.




Non ci sono ostacoli alla vista e il cielo sembra infinito.
Le distanze sono  enormi e i centri abitati sembrano galleggiare come isole nel vuoto della campagna.
La sensazione non è di monotonia, ma di vertigine.  







P come povera: una terra povera eppure contesa, secondo un copione drammaticamente ripetuto, agli originari abitanti,  i Tehuelches, con la conquista o con lo sterminio 
"Sottomettere o espellere gli Indios"  era il motto della campagna militare del generale Roca nel 1870. E i più furono uccisi.
Una questione di espansione territoriale, ma anche e soprattutto economica: i pascoli poveri del Nord est della Patagonia,  da destinare alle pecore, consentivano di riservare le  fertili terre della Pampa ai più redditizi allevamenti di bovini e di incrementare la ricchezza dei latifondisti.

P come prodigiosa: una terra di avventurieri e di uomini in cerca di fortuna.
Perchè la Patagonia, più che un luogo geografico, è  uno stato d'animo, è un intrecciarsi di vicende e di destini, come racconta Bruce Chatwin nel suo diario di viaggio, immancabile, da queste parti, nello zaino di ogni viaggiatore.

T come Trelew, il nome della città dove siamo arrivati. Un nome che ha una storia, quella del gruppo di disperati, scaricati su queste coste nel 1865.
Venivano dal Galles per sfuggire la carestia, la miseria e la repressione inglese.
Trovarono una terra più povera di quella da cui erano partiti, ma cominciarono ad allevare pecore, a disseminare il territorio di chiesette e  di cappelle, a fondare città che ancora mantengono nomi  gallesi (Trelew, pronunciato Treleu o Rawson, Rausòn..) e, soprattutto, a edificare frequentatissime case da tè per  l'immancabile cerimonia delle cinque del pomeriggio.
Che avviene, immutabile, ancora oggi.



V come visionari come il fondatore, sulla costa a sud di Trelew, di un paese straordinario: Bahia Bustamante.
Se fossimo in un blog  di viaggi lo consiglierei.
Un emigrato spagnolo, Lorenzo Soriano (nessuna parentela con lo scrittore)  e un sogno: sfruttare  le alghe di questi mari.
A centinaia di chilometri da ogni centro abitato crea un villaggio (un "pueblo alguero"), case per quattrocento abitanti, scuola, chiesa, caserma e vie battezzate con i nomi delle  alghe. Poi, la crisi, l'abbandono.
Gli abitanti ora sono quaranta e in  alcune delle case ospitano viaggiatori, cortesemente accolti dal nipote del vecchio sognatore. 

È come una Patagonia in piccolo: un territorio sconfinato e deserto   e una baia sull'Oceano. Pinguini, leoni marini, uccelli che volano indisturbati, pecore e guanacos.
L’isolamento più totale, elettricità solo per qualche ora. E il silenzio.
Quando si viene via tutto sembra troppo piccolo, rumoroso e confuso.
E si scopre che la solitudine della Patagonia ci è entrata dentro l'anima.




E i gauchos ? Li ho visti  finalmente cavalcare dietro  enormi greggi di pecore.
E il tango? Non l'ho ancora ballato, ma non dispero.
Intanto, per ora, mi aspettano le montagne  e la" Fine del mondo" e poi... si vedrà...



Le foto sono sempre fornite dal mio  companero de viaje.