sabato 24 novembre 2012

Tra laghi e foreste: i dipinti di Tom Thomson




Qualche anno fa, uscì un bel film di Sean Penn,  "Into the wild": il grande e profondo Nord americano, con la solitudine e l'asprezza della sua natura, affascina un giovane viaggiatore, fino a provocarne la morte. 
È a questo film  che ho pensato, quando ho visto i paesaggi del canadese Tom Thomson (1877-1917). 
Come questo, per esempio:


Nella scena, illuminata dalla luce candida e fredda del Nord, i rami degli alberi in primo piano formano quasi una griglia di linee scure, che lascia intravedere l'acqua chiarissima di un fiume, mentre le foglie dell'autunno rivestono il suolo di un tappeto multicolore. 
Tutto è calma e silenzio: il pittore sa rendere l'incanto di un luogo solitario e dello splendore luminoso e effimero del passaggio di una stagione

Il dipinto è ancora più suggestivo, se si conosce la biografia dell'autore: la sua vita è un racconto che parrebbe uscito dalla penna di Jack London.
Nel 1914, quando comincia  a dedicarsi esclusivamente alla pittura, Thomson ha trentasette anni; vive a Toronto, dove si è trasferito giovanissimo e ha lavorato, come grafico in un'agenzia pubblicitaria, inserendosi in un gruppo di artisti vivaci e informati. 
Con loro ha scoperto non solo l'Art Nouveau, ma anche la pittura impressionista, Van Gogh e le stampe giapponesi. 
Insieme  a loro si è interessato all'arte europea e alla possibilità di creare un'arte nazionale canadese.

Thomson non è un grande parlatore: non gli piace discutere né di tecnica, né di teorie sull'arte.  
Si sa esprimere bene solo dipingendo e, da un po', ha trovato nella natura la sua fonte di ispirazione. Per questo ha lasciato il suo impiego e ha scelto di vivere  otto mesi l'anno nel parco naturale di Algoquin, in Ontario, un territorio disabitato e sterminato, grande quanto l'Olanda, dove si mantiene con lavori occasionali da guardiaboschi, taglialegna o da guida per i pescatori. 
Immerso in quella bellezza severa vive semplicemente, da solo, in una capanna di legno. 
D'autunno torna in città e va a stare in una pensione: là tappezza le pareti della sua camera con gli schizzi, dipinti a olio su piccole tavole di legno, che ha eseguito nei lunghi mesi, in cui è vissuto isolato. 
Da questi trae l'ispirazione per le sue grandi tele, piene di colori.

Come qui, dove emerge tutto il suo amore per le stampe giapponesi.

I nitidi contorni dei bianchi tronchi di betulla inquadrano il blu profondo del lago.

Il giallo, l'arancio e l'ocra delle foglie autunnali, appena cadute, accentuano il tono caldo e luminoso della composizione


Modesto quanto esigente con se stesso, Thomson è capace di buttare nel fuoco gli schizzi che non lo soddisfano e di esporre all'Ontario Society of Arts solo i pochi dipinti che giudica pienamente riusciti. Le critiche, comunque, non lo risparmiano: i suoi colori sembrano, ai più, fin troppo irreali. "Eppure- dice lui- sono quelle le tinte che ho visto!".
Solo gli spettatori più attenti colgono la qualità della sua arte, che rinnova, attraverso le influenze europee, il genere più tradizionale della pittura canadese di paesaggio.
Thomson è un uomo schivo e riservato. Non riesce a descrivere bene, a parole, gli scenari meravigliosi che l’hanno affascinato e nemmeno le difficoltà tecniche che ha incontrato per restituire su tela i suoi soggetti preferiti: i laghi, le foreste, ma, soprattutto, gli alberi e i giochi della luce e dei colori che cambiano col mutare delle stagioni. 
Sente che solo attraverso i suoi dipinti, con i suoi colpi di pennello e i suoi colori espressivi, è capace di rivelare tutte le sensazioni che quellla natura selvaggia gli ha suscitato. 
Le sue emozioni di fronte a quei paesaggi, che non si stanca mai di osservare, lo soverchiano, fino a lasciarlo senza fiato. L'unica maniera di comunicarle è la pittura.

Finisce per vivere sempre meno in città. 
Ogni tanto organizza delle gite con i suoi amici pittori, perché condividano le sue impressioni, ma, per lo più, preferisce la solitudine.


All'arrivo della primavera si affretta a  rientrare nei boschi per dipingere la neve ancora intatta.
Come qui, dove i tronchi scuri degli alberi con le loro ombre azzurre contrastano con i nitidi raggi luminosi riflessi su un terreno innevato di un candore abbagliante.
Per i rarissimi turisti che visitano il parco, Thomson è un personaggio misterioso, un eremita, più noto per la sua leggendaria abilità di pescatore  che per la sua attività di pittore. Non sanno che la sua è una scelta di vita.
La sua sensibilità e la sua empatia per quei territori austeri e affascinanti, lo ha catturato anima e corpo e lo spinge ad addentrarsi in zone sempre più  isolate. 
Alla ricerca di nuovi paesaggi da dipingere, parte per dei mesi in escursioni solitarie o esplora silenziosamente con  la canoa, le acque dei laghi e fiumi. 
Spingendosi sempre più lontano, fino a smarrirsi nell'immensità che lo circonda.

Nel luglio del 1917  la canoa, con cui era uscito per una delle sue lunghe escursioni sul  Canoe Lake, rientra vuota. Il suo corpo viene ritrovato una settimana dopo: le cause della morte sono tuttora misteriose. 
Aveva quarant'anni e, dietro di sé, una vita vissuta come desiderava, percorrendo e dipingendo quel territorio selvaggio che amava più di se stesso. Con una tale intensità da riuscire a trasmettere le sue emozioni fino a noi.




Nella sua breve e folgorante carriera Thomson  aveva dipinto quarantacinque tele. 
Questo  straordinario video ripercorre la sua attività: QUI è il link.



sabato 17 novembre 2012

"Le ciabatte" di Samuel Hoogstratten: un racconto immorale





Ci sono quadri che  nascondono le loro storie meglio di altri. 
Questo, per esempio: 


Il dipinto, ora al Louvre, è datato  alla metà del Seicento e attribuito al pittore olandese Samuel Hoogstratten (1627-1678, contemporaneo di Vermeer e specialista in effetti prospettici. 
Il titolo, con cui è noto,  è "Les pantoufles, le ciabatte". 

In un nitido interno domestico- un soggetto che, all'epoca andava di gran moda- una prospettiva rigorosa di soglie e stipiti  di porte aperte,  inquadra un'infilata di stanze, divise da un corridoio. Il senso di profondità è accentuato dalle mattonelle a losanghe del pavimento e dal gioco di luce e ombra.
Tutto sembra quieto e tranquillo. 

In realtà,  se lo si guarda bene,  si scopre che  la calma è solo apparente. 
Si avverte, da subito, con un po’ di disagio, che, nel dipinto, manca qualcosa: manca qualsiasi figura umana. Un'assenza che si nota, tanto più che  siamo abituati a vedere, nei quadri dell'epoca- in Vermeer soprattutto- ambienti abitati da giovani donne riflessive, domestiche indaffarate, o gruppi intenti alla musica o alla conversazione. 
E, poi,  abbiamo  l'impressione precisa che qualcuno, da quelle stanze, ci sia appena passato. Ma chi? 
Per scoprirlo non resta che varcare la cornice ed "entrare" nel quadro alla ricerca di indizi.  
Subito, un dettaglio salta  agli occhi: le ciabatte, talmente evidenti da dare il titolo al quadro. 

Senza dubbio non sono lì a caso: sono  illuminate, quasi fosse un proiettore, dalla luce del sole che entra a fiotti nella stanza e  disposte proprio al centro della composizione. 
In un interno, così immacolato, quelle ciabatte, un po' consunte, abbandonate per terra, con negligenza, nel bel mezzo del corridoio, sono un elemento stonato. Ed ecco che quello che,  all'inizio, poteva parere una puro esercizio prospettico sembra, all'improvviso, animarsi.  




Non ci resta che ripercorrere, di nuovo, quegli ambienti silenziosi  e osservare, uno a uno, tutti i dettagli. 
Scopriamo, allora, che la scopa non è stata ben  riposta, ma lasciata, in bella vista, appoggiato su una  parete.  

Il mazzo di chiavi, ha l'aria di essere stato appena infilato nella serratura della porta e poi dimenticato. 
Se entriamo nel salotto, vediamo che,  sul tavolo, c'è un  libro chiuso e una candela, posta  di traverso sul candeliere, che sembra sia stata spenta in tutta fretta. 
Allora qualcuno, qui, c'è stato davvero! 
Ma perché tanta negligenza e tanta precipitazione?  



E dove sarà la padrona di casa? Perché di una donna si tratta, a giudicare dagli oggetti tipici di occupazioni domestiche prettamente femminili.  
Se  proseguiamo nell'indagine, scopriamo che proprio l'autore, Samuel Hoogstratten, un primo indizio ce lo aveva fornito, niente di meno che nel suo "Trattato  sulla pittura", dove aveva scritto: "i quadri migliori sono quelli che hanno un significato istruttivo". 
Vorrà dire che, anche in questo dipinto, un significato c'è. Vale la pena cercarlo. 
Rientriamo nel quadro e, questa volta,  lasciamo che  sia il pittore a guidarci. 

In effetti, se prestiamo attenzione, vediamo che quello che attira subito lo sguardo è il quadro, appeso alla parete di fondo del salotto, che spicca, con evidenza, sul bianco del muro. 
Non cerchiamo oltre: la chiave è là. 
Il quadro raffigurato non è affatto di fantasia, ma  è la copia, con qualche variante, dell”Ammonizione paterna" di Gerard Ter Borch. La tela di Ter Borch, all'epoca, era notissima: ne erano state fatte numerose copie e stampe da esporre, bene in vista, nelle più dignitose case olandesi. Nel dipinto un padre, indicando con fare minaccioso un’alcova rossa, simbolo evidente di peccato, ammonisce la figlia contro il vizio e la dissolutezza, a cui può condurre l'amore carnale.  

Era il soggetto giusto da porre, come monito,  sotto gli occhi delle giovani perbene.

Ecco dove ci voleva portare il pittore!  
Nessun elemento del dipinto era  casuale. Facendo parlare solo gli oggetti fuori posto, l’artista ha costruito un piccolo racconto morale –o immorale- perfettamente comprensibile dai suoi contemporanei: una donna, nella fretta di precipitarsi a un incontro galante, si scorda le chiavi sulla porta, abbandona le scopa appoggiata al muro e si toglie  le ciabatte proprio in mezzo al corridoio. Spegne anche la candela, alla cui luce stava forse leggendo. 
E ora, fuori dal nostro campo visivo, in un'altra stanza, si dedica a un’illegittima attività amorosa.
Presa dalla passione, ha scordato le sue più elementari incombenze: una condotta, all'epoca,  davvero riprovevole. Preferire le vane gioie d'amore alle sagge occupazioni domestiche non era degno di una donna onesta. 
Quella che il pittore ha abilmente suggerito, col suo gioco di indizi,  è  una sottile lezione di comportamento, destinata a qualche casalinga inquieta, a rischio di cadere in tentazione. 

Nessun mistero, dunque, tanto che, a questo punto, potremmo pure proseguire il racconto con un pizzico di pepe e di dettagli piccanti. 
Meglio di no! Ora che tutto è chiarito, la cosa migliore da fare è uscire in silenzio dal quadro,  senza dimenticare di chiudere, con discrezione, la porta d'ingresso.



Su questo dipinto il museo del Louvre ha organizzato una bella iniziativa didattica: QUI è il link alla descrizione del progetto.

sabato 10 novembre 2012

Piet Mondrian,"Broadway boogie-woogie": il ritmo di New York





Quando, nel 1940, si trasferisce negli Stati Uniti, per sfuggire alla guerra che sta per travolgere l'Europa, Piet Mondrian ha sessantott'anni e una lunga carriera alle spalle.
Nato nel 1872, ha iniziato come pittore figurativo, per poi diventare sempre più astratto, fino a teorizzare, insieme a Theo van Doesburg, con cui ha fondato la rivista "De Stjil", una pittura che "risponda a un comune bisogno di certezza, di chiarezza e di ordine" e che sia "un'espressione non soggettiva, ma valida per tutti".



L'opera d'arte, per lui, deve mirare all'essenziale, alla purezza assoluta ed escludere qualsiasi raffigurazione naturalistica. 

Ha abbandonato, dunque, ogni componente figurativa per arrivare a una pittura astratta, fatta di elementi puri: una griglia di linee nere, che si incrociano ad angolo retto, formando quadrati e rettangoli, riempiti con colori primari (rosso, giallo e blu) a cui aggiunge il verde e il grigio.

Scrive in un articolo: "Voglio arrivare il più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a raggiungere l'essenza delle cose".




Un artista capace di perseguire le sue scelte con caparbietà e coerenza
Per i più malevoli, un uomo rigido e fin troppo "ingessato".
Chi lo giudica così, di certo non immagina che, dietro la sua apparenza un po' austera, si celi un ballerino provetto con una passione sfrenata per la musica jazz. 
Lo sanno bene, invece, gli amici che lo hanno visto, a Parigi, partecipare, instancabile, a tutte le feste per esibirsi in indiavolati fox-trot.
Lo ha scoperto anche la collezionista americana, Peggy Guggenheim, che, stupefatta, descrive così il loro primo incontro, nel 1939,  nella galleria d'arte, appena aperta a Londra: "L'altro giorno ha fatto il suo ingresso Piet Mondrian, il famoso pittore astratto e, invece di parlare d'arte, mi ha chiesto subito se potevo consigliargli dei locali, dove andare a ballare...Restai sbalordita, ma, quando ballai con lui, mi resi conto che era uno splendido ballerino, pieno di verve e di vita".

A  New York Mondrian si sente libero di coltivare le sue passioni.
Di giorno, continua a scrivere i suoi articoli, a illustrare le sue complesse teorie artistiche, a dipingere, a frequentare musei e gallerie: è un'artista riconosciuto e i più giovani gli rendono omaggio come a un caposcuola. 
Nel suo studio a Manhattan, tutto dipinto di bianco, con rettangoli di carta colorata appesi alle pareti, ascolta la sua musica preferita da un vecchio apparecchio, un radio-fonografo, che ha dipinto di un rosso brillante.

Di notte, si scatena.
Ogni tanto va a ballare con una giovane pittrice, Lee Krasner, destinata a diventare la compagna di Jackson Pollock. 
Ma, per lo più, frequenta un club per jazzisti accaniti, il Minton's Playhouse. Là, tutte le sere, si tengono jam sessions, a cui partecipano musicisti del calibro di Dizzie Gillespie o Charlie Parker. 
In genere  rimane fino a tarda ora, dopo le tre di notte, quando comincia a suonare un pianista geniale e bizzarro, con cui ha stretto amicizia, Thelonious Monk.
Sembra quasi che, da quando è a New York, tutto, per Mondrian, scorra al ritmo della musica. 
Non solo il jazz, ma anche il boogie-woogie, che, a quel tempo, risuona dappertutto e che pare riprenda il rumore sincopato delle ruote dei treni che passano incessantemente sui binari della metropolitana (QUI è il link).
È il ritmo di New York quello a cui Mondrian si abbandona; un ritmo che cambierà per sempre la sua arte.
Il suo stile si rinnova e si adegua all'atmosfera  vivace  che lo circonda. 
In un dipinto come questo, per esempio, la musica è protagonista, fin dal titolo: "Broadway boggie-woogie". 
Ed ecco come appare New York, vista attraverso i suoi occhi:



Il ballo, il jazz, il boogie, insieme all'energia tumultuosa della città, lo hanno portato a  forzare le griglie rigorose che aveva usato finora, fin quasi a "spezzarle". 
Gli elementi, così puri dei suoi dipinti precedenti, si frantumano in una miriade di rettangoli rossi, blu e gialli, che spiccano luminosi sul fondo bianco.
L'astrazione sembra cedere il passo a una pittura diversa, capace di rappresentare tutta l'esuberanza e l'animazione della città.

Così, le linee, che si incrociano ad angolo retto, evocano la pianta della metropolitana, ma rappresentano anche le strade rettilinee di Manhattan, percorse dai taxi gialli e tagliate dal bianco degli isolati, il rosso e il blu delle insegne al neon di Broadway, il lampeggiare dei semafori e di tutte le mille luci di New York.

E sembra quasi di vedere la città dall'alto, con le sue linee e i suoi giochi di colori, mentre il rumore assordante delle voci, dei passi e del traffico, si trasforma nel ritmo allegro e rapido di un boogie.








venerdì 2 novembre 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Novembre





Quando, a gennaio, ho iniziato a "staccare i fogli" del prezioso calendario delle "Très riches heures du duc de Berry", non credevo che mi sarebbe piaciuto tanto: ogni volta è stato come entrare in una macchina del tempo e lasciarsi trasportare indietro di sei secoli. 
E, ogni volta, è stata una sorpresa.
Quasi un anno è passato e ora tocca all'undicesimo foglio: novembre.



Nella lunetta sono raffigurati, come d’abitudine, i segni astrologici del mese, Scorpione e Sagittario e il carro del Sole. Al di sopra, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.
La scena ripropone l’immagine tradizionalmente legata a novembre, fin dai calendari dei Mesi scolpiti nelle chiese medioevali: la raccolta delle ghiande e l’allevamento dei maiali.

All'orizzonte, sullo sfondo del blu delle montagne, scorre un fiume sinuoso e si intravedono le torri di un castello. In primo piano, in un bosco di querce, un porcaro, con  un bastone in mano, si appresta a far cadere le ghiande, di cui si ciberanno i maiali, sotto gli occhi attenti di un cane. 
Altri, nel folto del bosco, sono intenti alla stessa attività.
Siamo in un’epoca, in cui le foreste ricoprivano le campagne e si estendevano fino al limitare degli abitati. 
Come accadeva da secoli, i maiali erano allevati, per lo più, allo stato brado e i porcari lavoravano direttamente al servizio dei signori.
La loro era un’attività ben remunerata: conoscevano tutti i sentieri più nascosti tra gli alberi ed erano utilizzati anche per sorvegliare i confini delle tenute. In più l'allevamento dei suini era molto più redditizio di quello tradizionale degli ovini.

I maiali, con le loro setole irte, erano più simili ai cinghiali di quanto lo siano adesso. 

Le loro carni erano pregiate e servite alle tavole dei contadini come ai banchetti dei nobili.




Come nelle altre pagine, il miniatore non trascura alcun particolare: lo si vede dall'attenzione, con cui raffigura le ghiande a terra o le chiome degli alberi con le prime foglie dorate dell'autunno.
Una differenza con gli altri fogli, comunque, c’è, ed è evidente: lo stile è meno  raffinato, le linee più nette, le figure sono più rozze e, soprattutto, manca qualcosa.

Manca la raffigurazione degli aristocratici signori che, nelle altre scene, in primo piano o sullo sfondo, facevano parte integrante della rappresentazione. 
Mancano le architetture complesse dei grandi e candidi castelli che dominavano l’orizzonte.
L’atmosfera è profondamente mutata.
Si avverte che, dietro questo foglio, c’è un'altra storia.


Non siamo più ai primi anni del Quattrocento, ma una settantina d’anni dopo, alla fine degli anni ‘80. Il duca Jean de Berry, il committente del manoscritto, è scomparso da molti anni, dal marzo del 1416. Molti dicevano fosse morto di crepacuore dopo la disastrosa sconfitta del fior fiore della nobiltà francese, a opera degli inglesi, nella battaglia di Angicourt.

Nato nel 1340, esponente di spicco della famiglia dei Reali di Francia, aveva condotto, fino ad allora, una vita sontuosa, nell'agio di una ricchezza che pareva inesauribile. Aveva fatto costruire o restaurare castelli e palazzi e collezionato tesori di ogni tipo: le sue spese per i gioielli, i ricchi tessuti o i preziosi manoscritti miniati erano state enormi. La sua corte, con il fasto delle cerimonie, delle feste o dei tornei, era diventata un modello di magnificenza per tutta Europa. 
Anche i miniatori delle "Très riches heures", i fratelli Pol, Herman e Ian de Limourg, erano scomparsi nello stesso anno del Duca, probabilmente vittime  della pestilenza che aveva infuriato in tutta la Francia.

Dopo la morte di Jean de Berry,  molti dei suoi castelli rimasero vuoti e alcuni furono addirittura abbandonati. Le collezioni furono smembrate, le gemme e i tessuti preziosi, a cui teneva tanto, divisi tra gli eredi.

Il manoscritto delle “Très riches heures” finì nelle mani di Carlo I di Savoia, un lontano discendente del Duca.
Il foglio col mese di novembre era l’unico rimasto senza raffigurazione, a parte la lunetta con i segni zodiacali che, probabilmente, era già stata eseguita. 
Il nuovo proprietario dette l’incarico di completarlo al miniatore Jean Colombe (1430-1505), allora al servizi dei Savoia.

I tempi, però, sono cambiati. 
Il duca Carlo è un guerriero, più attento a riprendersi il potere in Piemonte con le armi che ad apprezzare le finezze delle miniature. 
Il vento inarrestabile del Rinascimento ha spazzato via, come fosse un pulviscolo dorato, il gotico fiabesco dei fratelli di Limbourg. 
Il loro stile, fatto per essere apprezzato dalla corte di Berry, un piccolo microcosmo legato all'etichetta, alla moda e al lusso, sfuma ormai nel passato. 
Le scene di attività agricole, che avevano raffigurato erano quelle che meglio rispondevano alla loro immagine della campagna. 
Contadini dalle movenze eleganti di un balletto, che lavoravano, senza fatica, sullo sfondo dei castelli dei loro signori. 

Con Jean Colombe, invece, fin dalla scelta del soggetto e dall'inquadratura della scena,  la realtà, con la sua forza vitale, ma anche con la sua crudezza e la sua volgarità, entra nelle pagine del manoscritto. 

Il sogno di un mondo perfetto di equilibrio e di armonia, cui partecipano insieme signori e contadini, ormai si è infranto. 
La corte del Duca di Berry, così com'era rappresentata negli altri fogli del calendario, è già entrata nell'indeterminatezza del mito. 
Quello che resta è l’alone luminoso di una leggenda.