giovedì 28 marzo 2013

"L'atelier au mimosa" di Pierre Bonnard




"Nei miei dipinti non si tratta di dipingere la vita, ma di rendere viva la pittura" (Pierre Bonnard)


Dietro ogni dipinto c’è una storia, a volte evidente, a volte più nascosta. Come qui, nell’”Atelier au mimosa" di Pierre Bonnard:  



In una giornata di sole, lo splendore di una pianta di mimosa in piena fioritura  in un giardino al di là di una vetrata irrompe in una stanza con la massa radiosa dei fiori che si contrappone alle linee geometriche  del telaio della finestra. 
Su tutto domina il giallo, il colore che  Pierre Bonnard (1867-1947) predilige: dice spesso che "in pittura non lo si usa mai abbastanza"
Un giallo vivo e luminoso che occuperebbe tutto lo spazio, se non fosse interrotto dai piccoli colpi di pennello del verde degli alberi, del bianco e del rosso dei tetti delle case o del blu delle montagne che trascolorano nel cielo in un’ampia apertura di paesaggio. 
All'interno della stanza si intravede la balaustra di una ringhiera e un piccolo tavolo. La parete di sinistra, colpita in pieno dalla luce, sembra scomporsi nei toni del rosa, dell'arancio e del verde.  

Il dipinto, terminato nel 1946, è uno degli ultimi dell'artista. 
La vetrata, da cui si intravede la mimosa, è quella del suo atelier, al primo piano della casa che ha comprato, vent'anni prima, a Le Cannet sulle alture di Cannes e dove ha stabilito da tempo la sua residenza. 
Silenzioso e riservato Bonnard rifugge, da sempre, il lusso e la mondanità. 
L'isolamento e la quiete di Le Cannet sono perfetti per il suo carattere appartato e per curare i problemi di depressione della moglie, l'amatissima Marthe, sua compagna di vita fin dalla giovinezza.  
Bonnard ama l’intimità: utilizza, come soggetto dei suoi quadri, ogni angolo della casa, dalla stanza da pranzo, allo studio, al salotto, al giardino. 
E, soprattutto, nelle sue tele, dipinge, quasi ossessivamente, Marthe, nuda o assorta nelle sue faccende quotidiane.  

Come molti artisti è stato conquistato dall'incanto della luce del Mediterraneo, dove "tutto è più chiaro e la pittura può diventare una pura vibrazione". 
Ha l'impressione  che lì può riuscire finalmente a fissare, nei suoi dipinti, l'essenza più profonda della realtà che lo circonda. 
Con l'uso di forme semplificate e di inquadrature audaci, ma, soprattutto, con quella sua scomposizione  dei colori, che Picasso, con una punta di malignità, definiva "un pot-pourri' di indecisioni”, riesce a raffigurare, con poesia, gli abbaglianti paesaggi del Sud come i momenti più banali del quotidiano. 
Fin dagli esordi nel movimento pittorico dei Nabis, quello che gli sta a cuore non è dipingere "le cose come sono, ma come si trasformano dentro di noi”. 

Come qui, dove l'esplosione improvvisa e invadente del giallo, basta, da sola, a evocare le sensazione che suscita una pianta di mimosa in fiore. 
È una tela talmente viva che sembrerebbe eseguita come un’istantanea, sull'onda dell’emozione. 
Non è così. Bonnard non lavora mai, come gli impressionisti, dipingendo direttamente dal vero. Si basa, invece, sui tantissimi schizzi, annotati con ogni minima variazione di colore, con cui ha riempito taccuini, fogli volanti e, perfino, le pagine delle sue agende, tra la lista della spesa e quella degli appuntamenti. 
Le tele le compra a rotoli e le attacca, tagliate in vari formati, alle pareti del suo studio, dove, su un piccolo tavolo di bambù, tiene i suoi pennelli e i tubetti di colore. Passa, poi, da una tela all'altra, riguardando i suoi appunti, e aggiustandole qua e là con piccoli tocchi. A volte le finisce subito, a volte le lascia lì per mesi o, addirittura, per anni. 

La tela con le mimose è rimasta interrotta a lungo: dai primi disegni datati al 1939 alla fine, passano ben sette anni. 
Nel frattempo, nel 1943, succede uno degli eventi più dolorosi della sua vita: la morte della moglie. Ne dà notizia all'amico pittore Henri Matisse, parlandogli apertamente, lui così pudico, della sua disperazione e del suo dolore. Nella sua agenda la annota disegnando solo una croce e lascia in bianco tutte le altre pagine: per un po' non dipingerà più.

Poi ricomincia a lavorare e riprende in mano la tela. Ma ora cambia il soggetto: quello che rappresenta non è più soltanto il tripudio di colore di una pianta in fiore. 
Se si guarda bene, ci si accorge che nell'angolo sinistro, in basso, nascosto e quasi tagliato dalla cornice, compare un volto di donna: è il viso di Marthe, così come lo aveva raffigurato tante volte nei suoi schizzi. 
Emerge appena, sullo sfondo arancio della parete, con la stessa indeterminatezza di un ricordo. 

Vita e pittura si mescolano: la bellezza fragorosa e la fragranza del  profumo della mimosa gli hanno fatto riaffiorare, d'improvviso, alla memoria del cuore tutta la sofferenza che ha provato. 
Bonnard le sue  sensazioni non la sa raccontare a parole  e, allora, le dipinge. E le concentra tutte in quel piccolo volto di donna che si intravede appena. 
Con grande pudore ricrea, nel suo dipinto, l’alternarsi sottile dei sentimenti tra la tristezza del ricordo e l’emozione per la vita che continua nella bellezza di una mimosa in fiore.



QUI è il link a un video con una bella lettura del"Atelier au mimosa". 
E QUI un link al sito del Musée Bonnard recentemente aperto a Le Cannet.

mercoledì 20 marzo 2013

La “Grande zolla” di Albrecht Dürer: l’universo in un filo d’erba





L’inverno quest’anno fa fatica a finire. Fino a qualche giorno fa a Bruxelles  c'era la neve. 
Ieri, invece, è spuntato il sole con un cielo così azzurro e limpido che mi ha messo addosso una gran voglia di primavera. 
Per questo mi è venuta a mente un’immagine che, per me, evoca tutto il rifiorire della bella stagione: un acquerello, attualmente conservato all'Albertina di Vienna.



Una zolla, una piccola porzione di terra, su cui crescono le piante più semplici e diffuse. Sono quelle che, nel pieno della primavera, fioriscono in qualsiasi spazio erboso, ai margini delle strade, nei campi o  nei prati: vi si possono riconoscere il tarassaco, la piantaggine o la gramigna dei prati. 
Il tipo di piante che calpestiamo quasi senza accorgercene e che, con una punta di fastidio, siamo abituati a definire le "erbacce".  

È un'immagine così accurata che potrebbe sembrare il  foglio di un trattato di botanica Sette o Ottocentesco.
E, invece, è opera di uno dei più grandi pittori del Rinascimento, Albrecht Dürer (1471-1528) ed è datata al 1503. Più di cinque secoli fa.

Dürer, all'epoca, è un artista affermato. A Norimberga, la sua città natale, ha aperto una bottega come incisore e pittore e ha avuto, da subito, un grande successo. Frequenta la migliore società: umanisti, banchieri, nobili e mercanti. È bello, elegante e orgoglioso di sé.
Qualche anno prima, ha fatto un viaggio in Italia ed è arrivato fino a Venezia. 
Oltrepassando le Alpi, pieno di meraviglia per la luce calda  del sud e per la bellezza del paesaggio, ha eseguito la serie di acquerelli, di cui ho parlato qui.

È un pittore colto e aggiornato: i suoi dipinti manifestano, nell'uso della prospettiva e nei richiami all'antichità classica, tutta l’influenza dell'arte italiana.
Ma, come molti artisti del Nord, è affascinato, soprattutto, dall'infinita varietà della natura. 
Nei suoi disegni o negli acquerelli si sente completamente libero: per lui rappresentano la maniera migliore di conoscere il mondo che lo circonda e di riprodurlo in ogni sua manifestazione. 
Può raffigurare, dunque, con la stessa cura che metterebbe in un quadro di storia, un leprotto, un granchio o l'ala variopinta di un uccello. 
Oppure dare dignità d'arte anche a un piccolo mucchio di terra.

Come qui, dove, scegliendo un punto di vista ribassato, conferisce alla zolla erbosa la monumentalità di un soggetto sacro. 
Il chiaroscuro, le ombre e la profondità fanno sì che i sottili  fili d'erba assumano la dimensione di una foresta.

Forse intende servirsene come studio preparatorio per  qualche particolare di paesaggio da inserire, magari, nello sfondo di un quadro. Oppure, come parrebbe dalla raffinatezza dell'esecuzione e dal grande formato, la considera come un’opera compiuta.
Comunque sia, nella raffigurazione di questo minuscolo pezzo di natura mette tutta la sua abilità d'artista

La tecnica dell'acquerello  gli permette di sfumare e mescolare meglio i colori, in modo da rendere con precisione  ogni particolare: lo stelo rosa pallido del tarassaco, come le nervature delle foglie oblunghe e lanceolate della piantaggine, la sottigliezza dei fili d'erba o i diversi toni del verde, da quello scuro a quello smeraldo. 
E gli consente di fare intravedere, in basso, sullo sfondo marrone scuro, le linee sottili e quasi trasparenti delle radici.

Sembra che ogni pur piccolo dettaglio sia per lui oggetto di meraviglia  e che nulla sia così umile e modesto da non poter essere osservato con un rispetto quasi religioso. 
Quest’insieme straordinario di monumentalità e minuzia dà la sensazione che l'infinita armonia della natura possa rispecchiarsi anche nel verde microcosmo di una zolla di terra. 
E che perfino in  un filo d'erba si  possa ritrovare un frammento di universo.






giovedì 14 marzo 2013

Il "Ritratto" di Tiziano: il miglior affare di Jacopo Strada




Siamo nel 1566, a Venezia-  allora una delle città  più grandi d'Europa- si vive di commerci. Si compra e si vende qualsiasi cosa, dalle spezie, ai tessuti, ai gioielli, alle opere d’arte. La vita è dolce e il denaro scorre a fiumi. 
Tutti parlano di soldi e di affari: gli artisti non fanno eccezione.

Tiziano, all'epoca, è un uomo ricco. Ha superato ampiamente la settantina, è a capo di una florida bottega ed è riconosciuto come il ritrattista più celebre d'Europa. Lui stesso ha creato la propria fama, facendo abilmente circolare la voce che il grande imperatore Carlo V, la "gloria del mondo", lo abbia nominato conte palatino per ringraziarlo di un suo ritratto e che non abbia esitato a inginocchiarsi ai suoi piedi per raccogliere un pennello caduto a terra. Un omaggio straordinario: per trovarne uno simile bisogna risalire all'antichità e all'onore reso da Alessandro Magno ad Apelle. 
Non c'è da stupirsi se, da allora, i ritratti di Tiziano siano diventati uno status symbol. Per sovrani, papi, cardinali e aristocratici sono un segno di potere; per chi cerca un riconoscimento sociale rappresentano la possibilità di una conferma.

Jacopo Strada è uno di questi. Patrizio, mantovano di nascita, orefice abilissimo, appassionato d'architettura e studioso di numismatica, ha costruito tutta la sua fortuna come mercante d'arte.
Spregiudicato e astuto ha un fiuto formidabile per scovare oggetti preziosi e distinguere gli originali dai falsi: qualità indispensabili per procurarsi clienti tra le famiglie più illustri d'Europa. Ha fatto una carriera talmente brillante da  arrivare a diventare niente di meno che "antiquarius cesareus, antiquario imperiale", il consigliere ufficiale per gli acquisti d'arte degli Asburgo.

Un ritratto di Tiziano rappresenterebbe per lui la consacrazione del suo successo. Lo sa bene ed  è venuto a Venezia apposta per chiederglielo. 
Non sarà  affare da poco.
Tra i due si apre una trattativa lunghissima:  durerà più di un anno

Tiziano fa il prezioso, rialza il prezzo e pretende in regalo perfino una pelliccia di zibellino. In realtà quello che gli interessa veramente è che Jacopo Strada gli assicuri di vendere agli Asburgo sei o sette tele di soggetto mitologico- le "favole" le chiama-  rimaste invendute nel suo studio. 
Dice che è stanco di aspettare che il re di Spagna lo paghi per i suoi dipinti e che ha bisogno di committenti ricchi e affidabili: condividere il prestigioso "portafoglio clienti" dell'antiquario imperiale non può che fargli gola. 
Guadagna ancora bene come pittore ufficiale della Repubblica, ma proprio  nel 1566, gli è stata revocato, dopo cinquant'anni, il privilegio dell'esenzione dal pagamento delle imposte ed è stato costretto alla sua prima dichiarazione dei redditi. Ne ha fatta una che è un capolavoro di reticenza e di omissioni, ma le tasse le ha dovute pagare lo stesso. E ora si lamenta e piange miseria: il denaro non gli basta mai, dicono i più malevoli.

I rapporti con Jacopo Strada si complicano: l'antiquario perde la pazienza e minaccia di mandare tutto a monte. 
Tiziano, quanto a lui, lo definisce in privato "uno dei più pomposi imbecilli che  abbia  mai incontrato".
Alla fine si arriva a un accordo: Jacopo Strada accetta le sue richieste. Si rifiuta di regalargli una pelliccia, ma è disposto a garantire la vendita dei dipinti agli Asburgo.

Tiziano può cominciare a lavorare. 
Qualunque sia la sua opinione sull'antiquario, è un professionista e un grande pittore: usa tutto il suo talento per fare del  ritratto un autentico capolavoro.


Sceglie di rappresentare Jacopo Strada nell'immediatezza di un gesto, quasi stesse parlando con un invisibile interlocutore. 
Con uno sguardo, che- com'è stato detto- lascia trasparire "un misto di nobiltà e furfanteria", sta mostrando i  pezzi più importanti della sua collezione. Tiene tra le mani  una statuetta di Afrodite e sembra che abbia appena appoggiato sul tavolo un'altra scultura.

I simboli della sua nobiltà sono disseminati dappertutto: la pesante catena d'oro con un prezioso pendente, girata più volte intorno al collo, o l'impugnatura della spada che sbuca, come per caso, da un angolo del tavolo. 
I libri nello scaffale sono il segno della sua cultura, mentre le monete, sparse sul tavolo, alludono alla sua passione per la numismatica (ma, forse, anche al suo amore per i soldi). 
In un cartiglio sulla colonna, un'iscrizione ricorda la sua età, cinquantun'anni e le sue cariche. Nella lettera che ha tra le mani è nascosta, ma non troppo, la firma del pittore.

L'abile pennello di Tiziano riesce a far spiccare, su uno sfondo bruno e ocra, tutti i segni esteriori della ricchezza: i bagliori dell'oro della catena, come dell'anello al mignolo o i colori delle vesti elegantissime, il farsetto nero con le maniche di seta cremisi  e il colletto bianco e arricciato della camicia. 
E sa rendere, come meglio non si potrebbe, la preziosità di ogni materiale, dalla lucentezza della seta alla morbidezza della pelliccia posata negligentemente sulle spalle.

Tiziano ha tenuto fede all'accordo: ha consegnato il suo ultimo splendido ritratto e ha  guadagnato bene il suo compenso.
Ma è Jacopo Strada che ha fatto l'affare migliore. Grazie alla capacità dell'artista di trasfigurare la realtà e di avvolgerla nella magia del suo colore, è sicuro di aver conquistato l'eternità della pittura.
L'ha pagata a caro prezzo. Ma ora ogni questione di soldi può essere dimenticata
Ormai, nell'olimpo dell'arte, ha raggiunto l'immortalità.





Una mostra su Tiziano è attualmente in corso a Roma alle Scuderie del Quirinale: qui è il link.



mercoledì 6 marzo 2013

Van Cliburn: un americano a Mosca



Ci sono delle storie talmente belle che non  sembrano vere. 
Questa, per esempio: una storia di intrecci tra politica, musica e libertà, che mi ha ricordato un delizioso film di qualche anno fa, "Il Concerto" di Radu Mihaileanu. L’ho sentita citare spesso, in questi giorni, per commemorare la morte di  un grande pianista americano, Van Cliburn, avvenuta il 27 febbraio scorso.

Siamo nel giugno 1958, nel pieno della Guerra Fredda, quando si apre a Mosca la prima edizione del concorso internazionale di piano intitolato a Ciaikovskij. Russia e Stati Uniti sono allora impegnati in una competizione senza esclusione di colpi in ogni campo, compreso quello della cultura. 
Il concorso Ciaikovskij doveva rappresentare una vetrina per mostrare la superiorità del talento dei giovani musicisti sovietici, che, stando alla propaganda, non aveva rivali. Nella giuria sedevano pianisti del calibro di Sviatoslav Richter e Emil Gilels. 

Tutto pareva filare come da programma: nessuno si aspettava sorprese. 
Ma ecco che si arriva alla serata della finale.
Tra i concorrenti  c'è un giovane americano, un texano di appena ventitré anni, Harvey Labarn Cliburn jr. 
Van Cliburn, come preferisce farsi chiamare. 


È altissimo, una specie di gigante con una gran chioma di capelli ondulati e delle mani enormi, che parrebbero più adatte a indossare i guantoni da baseball che a toccare i tasti di un pianoforte. 
Lo sguardo intenso e l'andatura dinoccolata sono quelli di un attore di film western. In realtà suona  il piano fin da bambino e si  dice che abbia un talento prodigioso, già riconosciuto in una delle scuole più prestigiose degli Stati Uniti, la Juillard di New York. 

Quella  sera è molto emozionato.
La sala è gremita, gli sguardi sono tutti su di lui. 
Forse  tra il pubblico c'è chi lo osserva con sospetto: vediamo un po' come se la cava questo odioso capitalista - avranno pensato.
Finalmente tocca a lui a suonare i pezzi che ha scelto: il concerto n.1 di Ciaikovskij e il n.3 Rachmaninov.

Lesibizione termina.
Nella sala, fino ad allora silenziosa e ostile, è come se fosse caduto un fulmine: la sua interpretazione è stata assolutamente  folgorante  per tecnica e  temperamento.
L'eco dell'ultima nota è appena finito; c'è solo un attimo di esitazione. 
Ed ecco che parte un applauso, prima timido e poi sempre più intenso e caloroso. Qualcuno si alza, altri lo imitano e, poco dopo, tutti gli spettatori sono in piedi in una "standing ovation" che dura otto minuti. 
Otto lunghissimi  minuti di un entusiasmo coinvolgente e liberatorio che scioglie ogni ostilità e ogni preconcetto. 
È come una grande onda di emozione che travolge anche gli orchestrali e perfino il pubblico che lo guarda da lontano nei rari televisori in bianco e nero.

La giuria del concorso è commossa.  
"Van Cliburn è stato geniale"- affermerà Richter.
"Suonava e assomigliava a un angelo-  ha spiegato in questi giorni il pianista Andrei Gavrilov- nulla a che vedere con l'immagine del capitalista cattivo descritta dal governo sovietico".
Sarà pure un "nemico", saranno pur bravi i pianisti sovietici,  ma c'è poco da fare: il premio lo merita lui.
I giurati un po' di paura - è innegabile- ce l'hanno tutti. 
Premiare un americano al primo concorso Ciaikovskij proprio facile non è.  

Nell'incertezza qualcuno prende il coraggio a quattro mani e decide addirittura di telefonare al segretario del partito, Nikita Khruscev. 
Sarà un colpo di scena. 
"È il migliore?" chiede Khruscev "E allora dategli il premio".
La vittoria, a questo punto, è sua: per Van Cliburn è un trionfo

Tornerà negli Stati Uniti celebrato come un eroe da una parata per le strade di New York e da una copertina su Time. La sua incisione del Concerto di Ciajkovskij entrerà nel libro dei primati per numero di copie vendute. Continuerà a intessere rapporti di pace tra America e Russia;  la sua carriera si svolgerà tra concerti entusiasmanti, ma anche depressioni, apparizioni sempre più sporadiche e ritiri dalla scena. 
In suo onore verrà creato a Fort Worth in Texas uno dei  concorsi pianistici più importanti, intitolato al suo nome, di cui sarà  per anni responsabile artistico.

Ci sono momenti che da soli valgono una vita:  a Van Cliburn quello vissuto a Mosca in una serata di giugno del 1958  ha segnato l'intera esistenza.

Chissà quante volte sarà ritornato col pensiero a quell'attimo di silenzio commosso appena prima dell'applauso e a quei lunghi  minuti di condivisione e di gioia pura  in cui non c'erano più né blocchi contrapposti, né nemici.
Quello che contava era solo la musica.



Ecco qui un video con un piccolo brano del concerto di Ciaikovskij e quello emozionante con le reazioni al concerto di Rachmaninov:



QUI invece è un link a un documentario sul concorso.




sabato 2 marzo 2013

Il ciclo dei mesi: la "Primavera" di René Magritte




Siamo ai primi del mese e, di solito, doveva essere questo il momento di "staccare il foglio" dal calendario che ho scelto per quest’anno: il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento. 
Di marzo, però, non bisogna fidarsi: è un mese dispettoso, pazzerello e non disdegna nemmeno un pizzico di magia. 
Nel calendario dell’anno scorso, le Très riches heures du Duc de Berry, ospitava nell'azzurro del suo cielo la fata Melusina trasformata in un drago dorato (qui). 
Nel calendario di quest'anno, invece, ha fatto sparire addirittura l'intera scena del mese. 
Ma no! Non è stato un colpo di bacchetta magica, ma un incendio a distruggere, due secoli fa, tutto l'affresco.

Lasciare Marzo senza nessuna immagine, però, non mi piaceva. Ho pensato, allora, che per illustrare questo mese variabile e capriccioso il dipinto più adatto fosse questo di René Magritte:



Qui la"Primavera" prende l'aspetto di una colomba che vola in un cielo chiarissimo, appena solcato di nubi rosa. Il corpo non è ricoperto di piume, ma delle stesse foglie degli alberi che si intravedono nella foresta sottostante. 
Sul parapetto c’è un nido che racchiude tre uova bianchissime.
Pochi elementi che, però, sanno rendere l’atmosfera della bella stagione che si avvicina: un nido, le nuvole rosa del cielo e il verde tenero degli alberi che invade tutto. E poco importa se la colomba non somiglia a nessuna di quelle che vediamo volare nel cielo. 
Marzo, con le sue giornate che diventano improvvisamente più dolci, i suoi cieli chiari e rosati e gli alberi ricoperti di nuove fronde, è rappresentato come meglio non si potrebbe. 

Magritte, come al solito, sa giocare, come nessun altro, con gli elementi più comuni  della realtà, utilizzandoli in maniera incongrua e conferendo loro significati inattesi.
Come  un "saboteur tranquille", un sabotatore tranquillo e sornione, è capace, con la sua pittura, di incrinare ogni certezza. 
La sua vita, che apparentemente obbedisce a tutte le regole, fin dall'abbigliamento con il doppio petto, la bombetta o  l'appartamento ammobiliato "comme il faut" (ne ho parlato qui e qui), nasconde, in realtà, il più straordinario degli anticonformisti. 
Usando le chiavi del surrealismo e dell'ironia è in grado di scardinare dall'interno tutte le convenzioni. 
Al punto che può capitare, nella sua pittura, di non sapere più quali siano i confini del reale. P succedere, per esempio, di scoprire che nei suoi dipinti una banale scala di casa salga verso il nulla, un paesaggio visto dalla finestra non sia altro che un quadro su un cavalletto (ne ho parlato qui) e perfino che una mela non sia più una mela. 
Oppure che una colomba ritagliata come in un collage abbia gli stessi colori di un bosco primaverile.

Insomma, Magritte ci spinge a guardare il mondo con uno sguardo diverso e a cogliere la bizzarria che si nasconde dappertutto.
Basta osservare quello che ci circonda con i suoi occhi per andare oltre i confini dell'apparenza e riscoprire la meraviglia e lo stupore.
Così, se ci lasciamo guidare dal suo sguardo, chissà che non ci capiti, in certi giorni di marzo, di intravedere la sagoma della sua verde colomba che vola tra le chiome degli alberi, sullo sfondo chiaro del cielo. 




Non so se sia per il colore tenero delle foglie o per l'aria  primaverile, ma il dipinto di Magritte mi ha fatto ricordare i versi di questa poesia:

"Ed ecco sul tronco 
si rompono gemme,
un verde più nuovo dell'erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo
e sono quell'acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo;
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c'era"

(S.Quasimodo, Specchio)