mercoledì 28 maggio 2014

"Il sogno di san Giuseppe": la luce di Georges de la Tour


"La completa oscurità della notte è la sola alba che l'uomo possa conoscere"(Giovanni della Croce)


Un dipinto di Georges de La Tour (1593-1652), una tela di meno di un metro per ottanta, ora al Musée des Beaux Arts di Nantes. 


Una scena ridotta all'essenziale con due soli personaggi, un giovane e un vecchio, che occupano tutto lo spazio. I colori sono sobri e tutti giocati nella gamma dei neri, dei marroni e degli ocra, con qualche tocco di rosso e di giallo. 
Pochissimi gli elementi che suggeriscono l'ambientazione: sullo sfondo un tavolo, su cui è appoggiato un candeliere di rame con una candela accesa e le forbici per tagliare lo stoppino. 
A sinistra, l'angelo, un giovane, vestito con una lunga tunica, chiusa da una bella cintura ricamata, ha la mano sinistra levata verso il cielo, mentre  il braccio destro teso nasconde la candela. San Giuseppe, con il gomito sul tavolo e la testa appoggiata sulla mano, sembra si sia addormentato mentre stava sfogliando il libro che ora giace aperto sulle sue ginocchia. 
Le rughe evidenti del volto contrastano col profilo puro e liscio dell'angelo.

Ma la vera protagonista del dipinto è la luce che  scolpisce differentemente le forme, rivela alcuni dettagli e ne lascia altri nell'ombra, mette in evidenza il raffinato disegno della cintura ricamata e fa trasparire, in controluce, la scrittura del libro. È la luce che suggerisce il movimento, mettendo l'accento sul viso e sul braccio dell'angelo e lasciando la figura del vecchio nella penombra.
Il dipinto racconta l'episodio evangelico del "Sogno di san Giuseppe" con l'apparizione  dell'angelo e la rivelazione della gravidanza divina di Maria. Per rappresentarlo La Tour non ha avuto bisogno di aureole, né di ali multicolori  e nemmeno di quelle nuvole che sembrano accompagnare  tutte le visioni barocche. 
San Giuseppe non è che un vecchio addormentato, stanco di cercare nei testi sacri una risposta ai suoi dubbi. 
Il viso illuminato del ragazzo, da cui sembra emanare luce, è sufficiente a rivelarcelo come un messaggero divino. 
Nessuna concessione al lusso o agli orpelli: la tela sembra avere la severità  e l'austerità di una meditazione spirituale.

Se è sempre un esercizio rischioso cercare di vedere nelle opere un riflesso del carattere degli artisti, tanto più lo è in questo caso.
Georges de La Tour è un pittore misterioso, sfuggente. 
Della sua vita abbiamo solo qualche traccia documentaria che non riguarda, però, il suo percorso di pittore.
Alla sua morte, la sua opera è caduta nell'oblio ed è stata riscoperto solo ai primi del Novecento. Pochi suoi dipinti sicuri, molte le repliche e, forse, i falsi (qui è un link). 
Nessuna notizia di un viaggio in Italia e neppure una prova di come sia arrivata a conoscere le opere di Caravaggio, da cui è rimasto certamente influenzato.

Nato in Lorena nel 1539 entra, grazie al matrimonio, nei ranghi della nobiltà locale e si trasferisce a Lunéville dove vive  e lavora per il duca lorenese, per poi diventare pittore del re di Francia Luigi XIII, sullo sfondo tormentato della Guerra dei Trent'Anni.
Sappiamo che  la pittura non è la sua sola occupazione, che si è arricchito grazie a un'oculata gestione dei suoi terreni e dei suoi poderi. 
La sua riuscita sembra provocare l'invidia di chi lo ha visto nascere da una modesta famiglia di fornai. I documenti parlano del carattere arrogante di uno che si è fatto da sé e che non rinuncia ai vantaggi del suo ruolo di "signore del luogo" con una brutalità di cui i concittadini si lamentano. 
Insomma, apparentemente, niente di più lontano dall'atmosfera dei suoi dipinti.

Dell'uomo e dell'artista però ignoriamo i pensieri, né sappiamo fino a che punto possa essere stato influenzato dall'atmosfera turbinosa di quegli anni con il paese sconvolto dalla violenza e dalla miseria. 
E nemmeno conosciamo i modi della sua religiosità o le sue riflessioni sulle idee dei mistici spagnoli di un Dio come unica luce nelle tenebre, che- sappiamo dai documenti- venivano diffuse proprio in quegli anni in Lorena dai predicatori domenicani.

Certo è che un eco  di quei pensieri rimane nella straordinaria sintesi dei suoi dipinti, nella sua luce, fisica e metafisica insieme, che basta da sola a restituire la sacralità di una scena (qui è un link).
Come qui, dove San Giuseppe e l'angelo sono fermati, come catturati, in un istante che diventa eterno. 
Quella strana immobilità, insieme a quel chiarore trascendente che li illumina, sospende la scena nello spazio e nel tempo. 
In quell'epoca turbata dalla guerra, dalla paura, piena di frenesie e di rumori è come se La Tour fosse riuscito a dipingere il silenzio. 
E in quel silenzio, forse, a trovare pace.





giovedì 22 maggio 2014

Petrus Christus, "Ritratto di un certosino": il pittore e la mosca




Quante sorprese ci riservano i dipinti! Anche quelli dove meno te le aspetti: per esempio, questo austero "Ritratto di un Certosino" di Petrus Christus, datato 1446 e ora al Metropolitan museum di New York:  


Sullo sfondo di un rosso vivo, in primo piano, è ritratto un frate certosino dalla veste di un bianco immacolato e con i tratti del volto indagati uno a uno, dagli occhi espressivi che sembrano guardarci con complicità, alle labbra strette, al naso lungo, alle sottili rughe sulla fronte, fino alla vena che pulsa sulla tempia.  
Un ritratto magnetico, coinvolgente.
Basta, però, osservarlo meglio, per accorgersi che proprio sul parapetto che chiude, in basso, la finta cornice, giusto sopra la firma del pittore, si è posata una mosca. 
Sì, una mosca! Ma non una di quelle che in questi giorni di primavera svolazzano, ronzando, dappertutto. 
Una mosca dipinta. 
Realizzata con la minuzia di un entomologo, più grande di quello che le corrette proporzioni richiederebbero, spicca sulla bianca veste del frate con una tale evidenza che è impossibile non notarla. 
Un'apparizione stupefacente, tanto più che la mosca fa qui la sua prima comparsa in pittura.


È vero che l'arte fiamminga dell'epoca, da Robert Campin a van Eyck, ci ha abituato un'infinità di dettagli, ma tutti perfettamente inseriti nella rappresentazione. 
La mosca no. Anzi, in questo sintetico e potente ritratto sembra un elemento incongruo, fuori posto. 
Anche se, di certo, il piccolo insetto non è lì a caso.

Dell'autore del dipinto, Petrus Christus (1410ca-1476), non si sa molto: nemmeno il nome è sicuro, visto che quello con cui si firma nei suoi quadri, "Petrus XPI/ Petrus Christi", ha l'aria di essere, piuttosto, uno pseudonimo derivato dalla sua specializzazione in dipinti religiosi. 

Quando dipinge questo ritratto è a una svolta della sua carriera, ha passato da un pezzo la trentina ed è appena legalmente diventato cittadino di Bruges, dove si è trasferito assieme alla famiglia. La città allora è molto ricca; da anni è il centro finanziario e commerciale del ducato di Borgogna. Da lì passano tutte le merci  che circolano tra il sud e il nord dell'Europa. 
Aristocratici, mercanti, banchieri: committenti non ne mancano, ma le botteghe di artisti sono altrettanto numerose. 
La concorrenza è spietata: Petrus Christus ci tiene a fare bella figura e, soprattutto, vuole accreditarsi come erede e continuatore di Jan Van Eyck, di cui, probabilmente, è stato allievo.

C'è da pensare che consideri questo dipinto come una prova di bravura e che si impegni con tutto se stesso. Basta vedere come usa il colore di fondo, in contrasto col candore abbagliante della veste, per far risaltare la fisionomia del personaggio e con quale accuratezza dipinga il corpo e le ali della mosca.

Ecco, appunto, la mosca! 

La presenza dell'insetto- c'era da immaginarselo- ha scatenato gli studiosi più agguerriti che ne hanno proposto vari significati. 
Alcuni hanno pensato a un simbolo religioso: nella cultura  del tempo, l'insetto, legato com'è alla corruzione della carne, potrebbe essere  letto come un "memento mori", o, con una connotazione ben più sulfurea, connesso addirittura a Satana e alla sua definizione di "Signore delle mosche".
Altri ipotizzano, invece, pur senza prove certe, che  il frate del ritratto sia da identificare col più celebre certosino del tempo, Dionigi di Rijkel, coetaneo di Petrus Christus, autore di innumerevoli scritti di morale e di teologia.  
La mosca diventerebbe, allora, un'allusione al "De venustate mundi", il testo in cui il filosofo certosino classifica la bellezza dell'universo in una gerarchia che comprende, sia pure al grado più basso, anche la bellezza degli insetti come testimonianza dell'armonia del creato.

Simbolo infernale o emblema dell'infinita bellezza del cosmo: qualunque ne sia l'interpretazione, non fa che aggiungere un ulteriore significato a quella presenza. 
Perché la prima impressione è che la mosca, per Petrus Christus, sia anzitutto una sfida. 
Probabilmente anche allora  si conoscevano i brani della letteratura classica, a partire dalle "Immagini" di Filostrato (I, 23), che parlavano dell'insetto ingannatore come essenza stessa dell'illusione della pittura. 
Ed è possibile che l'artista abbia deciso di rivaleggiare con i pittori dell'antichità sul loro stesso terreno. 
Inserire nel suo ritratto quell'unico stupefacente dettaglio  ha l'aria di una provocazione. 
Bloccata, per un istante che diventa eterno, nello stretto confine che separa la realtà dall'immagine, proprio sopra la firma del pittore, la mosca diventa la conferma del livello raggiunto, una sorta di biglietto da visita figurato. 
Sospeso tra verità e finzione, quel piccolo insetto è servito a Petrus Christus per dare la prova più convincente della sua abilità. 
E per dimostrare che la sua arte è capace, come nessun'altra, di giocare con i sensi dello spettatore e di ricreare l'illusione della vita. 





Dopo Petrus Christus, la mosca dipinta diventerà un motivo ricorrente per misurare le capacità di un artista e avrà un grande successo nella pittura tra Quattro e Cinquecento, come elemento di virtuosistico "trompe-l'-oeil". 
Il grande storico dell'arte André Chastel ne ha raccolto, in un volume del 1984 intitolato, appunto "Musca depicta" un intero repertorio (qui è il link) 


venerdì 16 maggio 2014

"Marte e Venere" di Paolo Veronese. il cavallo indiscreto




Nella luce dorata di una giornata di sole, in un'alcova protetta da tende di seta rossa, una sensuale Venere seminuda, adorna solo di una collana di perle e di preziosi bracciali d'oro, sta per cedere all'abbraccio di Marte, quando su un scala, che si apre verso l'esterno, si affaccia lo sconcertante muso di un cavallo grigio, condotto per le briglie da uno scherzoso amorino.


Cosa ci farà mai questo rappresentate della razza equina, arrivato così inopinatamente, in questa piccola tela  di Paolo Veronese (1528-1588) ora alla Galleria Sabauda di Torino? 

La risposta non è facile: del dipinto sappiamo poco o nulla. 
Ignoriamo, per esempio, chi ne fosse il committente, anche se il piccolo formato (cm 48x48) fa pensare che potesse essere destinato a un amatore desideroso di ammirarlo molto privatamente. 
Una destinazione che certo non è contraddetta dalla prima citazione documentaria, nel 1624, nell'inventario della raccolta del cardinale ferrarese Carlo Emanuele Pio di Savoia. I cardinali dell'epoca- si sa bene- non disdegnavano di ospitare, nel segreto dei loro appartamenti, qualche dipinto di sottile erotismo.
Quanto al soggetto, però, la descrizione  non ci aiuta, limitandosi a registrarlo come: "Venere e Marte del Veronese, con Cupido che tiene un cavallo per la briglia". 

Siamo intorno alla metà degli anni '70 del Cinquecento e Paolo Veronese non è mai stato tanto occupato: dalla sua bottega veneziana escono innumerevoli dipinti, commissionati per le chiese, per le dimore degli aristocratici e anche per la sede del governo della città. 
Affreschi, ritratti, quadri sacri o profani, a cui si accompagna una produzione, più rara, di dipinti di piccolo formato, come questo, dove la mitologia si può prestare ad allusioni erotiche più esplicite. Ma dove lo stile sereno di Veronese, con i suoi colori caldi e vivaci, la sua luce dorata  e le sue ariose ambientazioni, toglie ogni sia pur minima traccia di volgarità.

I soggetti con gli amori degli Dei sono tratti, per lo più, da testi del tempo o dalla poesia di Ovidio. Storie note, che è possibile consultare, ma che non servono a svelare il  mistero della presenza del cavallo. In effetti, nei racconti più conosciuti degli amori di Marte e Venere non si trova alcuna traccia  del nobile destriero
Semmai, nella mitologia, a sorprendere i due fedifraghi e a interrompere i loro giochi d'amore, è il marito legittimo, Vulcano. 
Consorte della dea dai costumi non proprio specchiati, approfitterà della sua abilità di fabbro per vendicarsi, avvolgendo i due amanti in una rete di catene tanto solide quanto invisibili.
Ma qui Vulcano è lontano e- si suppone- ancora ignaro del tradimento. 
Invece, a trascinare il cavallo nella stanza, interrompendo il colloquio amoroso, è niente di meno che Cupido. 
E chissà cosa abbia in testa quel piccolo provocatore: forse vuole richiamare Marte alle sue bellicose occupazioni e ricordargli le sue qualità militari sviate dall'amore. A meno che non voglia alludere, con la presenza dello stallone, ad altre più nascoste doti del dio della guerra.
Certo è che nel dipinto si respira un'aria di grande allegria, tutta giocata sui toni lievi dell'ironia. E accentuata dalla tavolozza raffinata dei colori, dall'azzurro chiaro del cielo, al candore della pelle eburnea di Venere, al tono più ambrato di Marte, al blu marezzato del drappo che copre la dea.

Paolo Veronese aveva rivendicato, l'8 luglio del 1573- accusato di fronte al Tribunale dell'Inquisizione di aver aggiunto elementi incongrui in un quadro sacro- citando una frase del poeta latino Orazio, la sua libertà di prendersi "la stessa licenza dei poeti e dei matti" (del dialogo tra Veronese e l'inquisitore ho parlato qui).

Figuriamoci, allora se non  usa quella stessa licenza in un quadro profano! Forse vuol giocare con allusioni piccanti, forse vuole solo riempire un vuoto della composizione. Poco importa.
Veronese sa, da grande artista qual è, che si può permettere di lasciare spazio al divertimento e di concedere alla sua fantasia sbrigliata i soli limiti che la capacità del suo pennello gli può dare. 
E, allora, chissà che quella testa irreale di cavallo, che si affaccia così prepotentemente sulla scena e che solo la sua pittura ha saputo ricreare, non sia semplicemente il simbolo della sua voglia di libertà.




Evidentemente "Marte e Venere" è un soggetto che si presta ai giochi e alle allusioni: dello scherzo nascosto nel dipinto di Botticelli, abilmente svelato da un'amica nei commenti al post, ho parlato qui.

sabato 10 maggio 2014

Medici e Magi: la cappella di Benozzo Gozzoli in palazzo Medici a Firenze




La Cappella di famiglia dei Medici, affrescata da Benozzo Gozzoli (1420-1497) nel loro palazzo di Firenze (qui è il link). Un luogo magico, di quelli che raccontano una storia, una bella storia:


Siamo a Firenze intorno al 1460 e, anche se rimangono intatte tutte le istituzioni repubblicane, i Medici, di fatto, governano la città. 
Orgogliosi del loro potere, vogliono dimenticare un passato di mercanti e- come sostengono i più malevoli- anche di usurai, per entrare nel novero degli aristocratici delle più raffinate corti europee.
La Cappella, al piano nobile del nuovo palazzo di famiglia sulla via Larga, è destinata a essere un ambiente di rappresentanza degno delle loro aspirazioni.
Un pavimento  con tarsie di marmi e di porfidi antichi, un soffitto intagliato e dorato, stalli del coro sontuosamente scolpiti: nella penombra, alla luce tremula delle candele, la cappella sembra un piccolo scrigno prezioso, pronto per essere esposto all'ammirazione degli ospiti illustri.

Il committente è il figlio di Cosimo il Vecchio: Piero, detto il Gottoso dalla malattia che lo affligge e che gli amareggia la vita.
Piero, che ha vissuto a lungo a Ferrara  come ospite alla corte sofisticata degli Este, ha ambizioni di nobiltà, si occupa poco della banca di famiglia e ancora meno  di affari o di commerci. 
Timido, riservato e condannato dalla malattia all'immobilità, preferisce dedicarsi a leggere i testi della sua ricca biblioteca e a  collezionare oggetti preziosi da contemplare nel chiuso delle sue stanze. 
È un uomo di grande gusto e aggiornato sulle ultime tendenze artistiche, ma per la decorazione della cappella non si è rivolto a uno dei pittori più innovativi della città. Ha scelto, invece, un onesto e tradizionale artigiano. 
Benozzo Gozzoli, allievo di Beato Angelico, è alieno da ogni sperimentazione, ma ha tutte le doti che Piero apprezza: sa eseguire alla lettera le istruzioni del committente, ha una grande capacità tecnica, è un ritrattista senza pari e, soprattutto,  sa raccontare.

Benozzo lavorerà nella cappella più o meno cinque anni, ricoprendo di affreschi  tutte le pareti e utilizzando i colori e materiali più costosi che i committenti possano pagare, dall'oro, alle lacche, ai lapislazzuli.
Il soggetto che Piero ha scelto è quello del Corteo dei Magi
Non è un caso: la cavalcata dei Magi affrescata nella cappella ricorderà a tutti quella che avviene ogni anno lungo le vie della città durante la festa dell’Epifania, organizzata dalla esclusiva Compagnia dei Magi, una confraternita di cui fanno parte anche i Medici. Anzi di cui  sono i personaggi principali. 
Il percorso della spettacolare cavalcata  parte dal convento di san Marco, sotto il loro patronato e passa  lungo la via Larga, dov'è il loro palazzo, per proseguire, solo dopo,  verso il centro della città. 
La cavalcata è divisa in tre brigate come il numero dei Magi: i partecipanti sfoggiano i gioielli  e le vesti più lussuose e sono seguiti da carri carichi di oggetti  preziosi e di animali esotici.
I Medici vedono nella festa l’occasione di ostentare la loro importanza, sicuri che nessuno stia loro alla pari per fasto, ricchezza e, soprattutto, potere.

Anche nella cappella  il corteo è diviso in tre brigate, ognuna delle quali  occupa una parete ed è caratterizzata da un colore dominante nelle vesti e nei finimenti dei cavalli: il bianco per Gaspare, il rosso per Baldassare, il verde per Melchiorre.
Il punto di partenza è Gerusalemme, raffigurata come una bianca città sulla collina. Da lì il corteo di eleganti cavalieri, servitori in livrea e cavalli bardati, si dispiega lungo tutte le pareti in un paesaggio di rocce candide, di ville, di castelli e di alberi come cedri, olivi o cipressi, in cui si svolgono scene di caccia. 
Gaspare, il giovane Mago biondo e imberbe, che guida la cavalcata, ha le sembianze di Lorenzo, il figlio di Piero, lo stesso che conduce  la festa per le vie di Firenze.
Ben visibile, all'altezza della testa, un arbusto di alloro (lauro)  allude al suo nome.
Dietro di lui, i ritratti di altri membri della famiglia, di dignitari e di nobili, di letterati e di filosofi. 


Simboli araldici dei Medici sparsi ovunque, personaggi illustri, sfarzo, lusso. Non c'è che dire: Benozzo ha svolto bene il suo compito. 
Ha saputo dare alla storia il sapore di una favola. E ancora non basta.
Alla cavalcata dell’Epifania, si accompagna e si sovrappone il ricordo di un altro grande evento:  il corteo d’apertura, a Firenze, del Concilio del 1439,  istituito con l’intento di riunificare le Chiese d'oriente e d'occidente e di salvare Costantinopoli dalla minaccia turca. 
Sulle pareti, Benozzo fa rivivere anche i protagonisti di quello straordinario avvenimento: nel vecchio Mago Melchiorre, che guida un corteo imponente con tanto di leopardi maculati,  di cammelli e di animali da soma carichi di merci, raffigura Giuseppe il patriarca di Costantinopoli.


Il Concilio di Firenze riveste per i Medici  una grande  importanza: grazie a loro, in quel momento, Firenze era diventata il centro d'Europa.
Era stato Cosimo il Vecchio a far trasferire il Concilio da Ferrara a Firenze, approfittando delle voci di un'epidemia di peste nella città estense e sborsando colossali somme di denaro per regali e prestiti
Indipendentemente dagli scarsi risultati diplomatici raggiunti (Costantinopoli cadrà nel 1453 nella mani di Maometto II), l'arrivo dell'imperatore, dei dignitari della corte di Bisanzio e dei loro letterati ha avuto un impatto dirompente in ogni campo. Anche nel più banale. Tanto che perfino la cucina ne ha  registrato le tracce: il vino dolce da, allora, è chiamato alla greca vino di Xanto, "vin santo", mentre la carne di maiale, cucinata secondo la tradizione, ha avuto il nome, che tuttora conserva, di "arista"(buonissima). 

E, poi, quante immagini, quante sensazioni! 
Mai si è vista una simile concentrazione di volti e di abbigliamenti così eccentrici. Tutto è oggetto di meraviglia: dalle lunghe barbe, in una città di uomini abituati a rasarsi, alle vesti, ai copricapi.  
Una miniera di spunti dalla letteratura, alla filosofia, ma anche dall'arte e alla moda. 
Ed ecco, su uno sfondo verde di campagna, il terzo  Mago, Baldassarre, dall'età virile e dalla pelle scura, con i tratti dell'imperatore bizantino Giovanni Paleologo e con quel tipico cappello a ogiva (lo skiadion), capace di colpire la fantasia degli artisti  da Pisanello a Piero della Francesca.


Tutto un  mondo da scoprire e da assaporare.
La facile pittura di Benozzo, con il suo gusto per i particolari,  è lo strumento ideale per rievocare, a distanza di anni, quel momento esaltante e per ricordare, a chi non lo sapesse, il ruolo di Cosimo e della sua famiglia. 
E non certo per vano esibizionismo. 
Solo ora che sono stati  narrati come protagonisti di un'epoca d'oro, i Medici si sentono pronti a governare la città come dei veri Signori, a imporre il loro modello di eleganza e a rivaleggiare, per sfarzo e magnificenza, col mondo dell'aristocrazia. 






 Della cappella e della sua storia ho parlato più diffusamente qui


lunedì 5 maggio 2014

L'ombra di Masaccio: la "Cacciata dall'Eden" della Cappella Brancacci





La "Cacciata dall'Eden", una delle scene degli affreschi dipinti da Masaccio (1401-1428) per la cappella Brancacci nella chiesa del Carmine di Firenze.




Su uno sfondo azzurro di cielo, un angelo dalla veste rossa, brandendo la spada, caccia Adamo ed Eva dal paradiso terrestre: hanno trasgredito, mangiando il frutto dell'albero della conoscenza e ora sono puniti. 
A rappresentare l'Eden c'è solo una grande porta. 
Non vediamo la bellezza di quello che hanno perduto, vediamo, invece, che ora stanno avanzando in un paesaggio deserto e ostile.

Adamo si copre il volto con le mani, scosso dai singhiozzi. Eva lascia vedere il viso deformato dalle lacrime, gli occhi stretti, la bocca aperta. Quasi una maschera della tragedia. Sono nudi e se ne vergognano: hanno perso la loro comunione con Dio e sanno che, d'ora in poi, dovranno lavorare con fatica, partorire con dolore e morire.
Sono solo un uomo e una donna impauriti che non sanno più dove rifugiarsi. 
Si allontanano dal loro paradiso perduto, posando pesantemente i piedi per terra.

Ed ecco un dettaglio straordinario: i loro corpi fanno ombra.
Un piccolo particolare, ma dietro, c'è un mondo intero.

Masaccio ha passato da poco la ventina, quando lavora agli affreschi della cappella Brancacci con il collega e amico Masolino.
I due non potrebbero essere più diversi. Masolino, più maturo di anni e di esperienza, è un pittore ancora legato ai modi dello stile tardo gotico. Masaccio, più giovane e irruente, è pronto a sperimentare tutte le novità che sente nell'aria.
Siamo  negli anni tra il 1424 e il 1426, Firenze, allora, è  una Repubblica orgogliosa di affermare la sua indipendenza, dopo aver vinto la guerra con i Visconti e imposto la sua supremazia su gran parte della Toscana.
La ricchezza della città è assicurato dalle banche (il banco dei Medici è il più importante d'Europa) e dal commercio della lana e dei tessuti.

Masaccio è arrivato a Firenze dalla campagna. 
È nato nel 1401, il 21 dicembre, san Tommaso e con il nome di Tommaso è stato battezzato. Sarà noto, però, a tutti col soprannome di Masaccio, non tanto perché "fusse vizioso", ma- perché come afferma Vasari- "come quello che, avendo fisso l'animo alle cose dell'arte, si curava poco di sé e manco d’altrui".
La sua famiglia è benestante: il padre esercitava la prestigiosa professione di notaio, ma la madre, rimasta vedova, si è risposata subito dopo. L'apprendistato in città, in una bottega di pittore, riprendendo il mestiere del nonno decoratore di cassoni, può essergli parso il modo per sentirsi più indipendente. Nel 1422 è già pronto a iscriversi all'Arte dei medici e speziali, la corporazione dei pittori. Ed è lì che forse incontra Masolino (1383 ca-1440) e comincia  lavorare con lui.

A Firenze, in quel periodo, c'è un grande fermento. 
Sono gli anni, in cui si costruisce la cupola del Duomo, simbolo dell'orgoglio cittadino, e in cui si aprono continuamente nuovi cantieri. Ovunque si parla d'arte come mai prima era successo. La città è piccola e gli artisti si conoscono tutti: camminano per le stesse strade, frequentano gli stessi ambienti, discutono insieme.
Per Masaccio quello è un periodo di idee e di incontri: è diventato amico di Brunelleschi, l'architetto della cupola e di uno scultore famoso come Donatello. I due hanno una ventina d'anni più di lui, ma lo trattano da pari a pari. 
Masaccio, probabilmente, sente tutta l'emozione di essere accolto e ascoltato da quegli artisti già affermati. Con loro può parlare delle sue ambizioni e del suo mestiere di pittore. Al centro dei loro discorsi- si può ben immaginare- c'è la riscoperta dell'antichità classica, la volontà di tornare a porre l'uomo al centro dell'universo, l'invenzione della prospettiva lineare e di un modo nuovo di rappresentare lo spazio. 
Insieme condividono l'euforia di chi si sente partecipe di un grande rinnovamento.
In genere, è difficile avvertire il cambiamento mentre lo si vive
A Firenze, in quegli anni, non è così: la storia cambia qui e ora (hic et nunc) affermano gli umanisti e i letterati. 
È dai tempi dell'Atene di Pericle- si dice - che non c'era un simile fervore d'arte e di pensiero. 

Sono grandi momenti. Masaccio lo sa e vive, con l'entusiasmo di un ventenne, la sensazione di essere là, dove si fa la storia.
Gli affreschi della Cappella Brancacci sono per lui l'occasione di mettere in pratica tutto quel ribollire di idee: ripartire dalla pittura sintetica e solida di Giotto, concepire le figure come corpi vivi, collocarle in uno spazio misurabile e- con il nuovo strumento della prospettiva- "sfondare" la parete e rappresentare, in pittura, la terza dimensione.
Questi sono probabilmente i suoi pensieri quando comincia a dipingere.

Ed ecco allora che quello che pareva solo un dettaglio- quell'ombra proiettata dai corpi di Adamo e di Eva- diventa pieno di significato.
Per la prima volta nella pittura dell’Occidente, Masaccio  dipinge un'ombra vera e reale, un'“ombra portata”, quella che ogni solido proietta sulle superfici circostanti.
E riesce a rappresentare la massa e il volume dei corpi di Adamo ed Eva. E anche la loro umanità: cacciati dal Paradiso, hanno perso la levità che li rendeva simili agli angeli, sono diventati pesanti. Di una pesantezza che sembra tenerli ancorati alla terra. 

Prima di Masaccio- dice Vasari- le figure "stavano in punta di piedi", mentre con lui stanno "coi piedi in sul piano" , sono salde sul suolo.
E su quel suolo, appunto, fanno ombra.
Quei pochi tratti scuri, che spiccano sul fondo ocra del terreno, sono il segno che Masaccio ha raggiunto quello che voleva. 
Con la sua pittura, le sue luci e le sue ombre,  sta conquistando un nuovo modo di rappresentare il mondo.





Qui avevo già parlato più estesamente di Masaccio e dell'ombra

venerdì 2 maggio 2014

Il calendario di pietra: maggio




"Dixe Mazo: io so lo più bello/ roxe e fiuri, ch'io fazo fioriri de novello/ chantare gli oxelini ad uno drapello/ de tutti li mexi io son lo più bello"(Ballata dei mesi, sec.XIV)

Nella ballata dei mesi, Maggio si presenta, con un pizzico di vanità,  come il più bello di tutti. È il mese, in cui la primavera è al suo culmine e le giornate diventano sempre più lunghe e luminose. 
Non stupisce che, fin dall'antichità, Maggio sia stato legato alla luce e alla fioritura, tanto che i  Romani lo avevano associato ad Apollo e lo festeggiavano con le feste dei Floralia e con i riti della fertilità. Lo stesso nome latino, Maius, deriverebbe da Maia, la dea primigenia protettrice della terra e del rigoglio della natura. 
Nel Medioevo, durante il calendimaggio, la celebrazione tradizionale della primavera, i giovani usavano danzare sotto gli alberi, raccogliere rami fioriti da deporre davanti alle case delle ragazze da marito, o, ornati da ghirlande di fiori, cantare, radunandosi in cortei gioiosi. In Francia gli uomini decoravano i copricapi di foglie e le dame più aristocratiche si abbigliavano con vesti di un particolare tono di verde (ne ho parlato qui). Insomma, Maggio è da sempre il mese delle feste e dell'amore.

Nei calendari scolpiti degli inizi del XIII secolo, che ho cominciato a "sfogliare" fin dall'inizio di quest'anno, a Maggio, le fatiche dei contadini lasciano il posto agli svaghi degli aristocratici.
Nelle formelle dei Mesi di Ferrara, attualmente al Museo della Cattedrale, Maggio è un giovane cavaliere pieno di dignità, con un mantello sulle spalle e un grande scudo a mandorla con, al centro, una borchia sporgente. 
Il cavallo è bardato- all'uso del tempo- con sella, staffe, briglie e pettorale e avanza, con gli zoccoli ferrati, tra l'erba alta e rigogliosa di un prato.


Anche nel Calendario dei Mesi di Santa Maria della Pieve di Arezzo, dove compaiono ancora i colori originari, Maggio è rappresentato come un giovane elegante. 
Con in testa una corona di fiori e i piedi ben piantati sulle staffe, cavalca un cavallo dal manto nero. 
Sembra che abbia scelto di indossare la sua veste più raffinata, una corta tunica bordata d'oro, mentre regge, con fierezza, il grande scudo da parata decorato da una specie di sole con i raggi rossi e oro.


Immagini che rappresentano per tutti un simbolo di cortesia e di eleganza e che sembrano uscire da uno di quei racconti cavallereschi che, all'epoca, passano di bocca in bocca.  
In un periodo, in cui domina la violenza e la guerra, il cavaliere di Maggio  non ha nulla di minaccioso, anzi, sembra incarnare le doti legate all'ideale stesso della cavalleria. 
Avanza con un atteggiamento di nobile eleganza, guardando dritto davanti a sé, senza lancia e senza armatura. 
Nessun combattimento in vista, solo la voglia di festeggiare la bella stagione, come  uno dei componenti di quelle allegre brigate che saranno descritte, meno di un secolo dopo, nei versi di Folgore di San Gimignano. 
Quei cortei di giovani che, ai primi di maggio, cavalcano per le strade delle campagne e le vie delle città con i loro scudi da torneo, portando mazzi di rose e di viole, mentre dai balconi e dalle finestre piovono su di loro ghirlande di fiori (il link al sonetto di Maggio è qui)

I due cavalieri dei calendari di pietra di Ferrara e di Arezzo sembrano simboleggiare la bellezza, la gioventù e la gioia stessa della primavera. Nel tepore del mese di Maggio, mentre l'aria è odorosa di fiori, fanno sognare un momento di riposo dalla durezza del quotidiano e immaginare che, almeno per un attimo, sia possibile fuggire la realtà e rifugiarsi in un mondo che abbia la dolcezza di una favola.