lunedì 27 ottobre 2014

Il "ritratto della signora moglie": " La famiglia di Zanobi Troni" di Giuseppe Maria Crespi




Ci sono dipinti che si impongono all'attenzione quasi con prepotenza, con la forza dei capolavori riconosciuti e altri, invece, che, a un primo sguardo, rischiano di passare inosservati e il cui incanto si lascia scoprire solo dopo, poco a poco.
È questo il caso del "Ritratto della famiglia di Zanobi Troni" di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), attualmente conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna.


Su un fondo scuro, dominato da sfumature di tinte basate sui toni bruni delle terre e dell'ocra, è raffigurato un gruppo di famiglia. 
Basta poco per accorgersi che è un ritratto molto diverso da quelli a cui ci ha abituato la pittura del Settecento: nessuna posa, nessuna ambientazione, nessuna allusione alla ricchezza o al ceto sociale dei personaggi. 
Non ci sono nemmeno eleganti dettagli d'abbigliamento, né sete, né trine e neppure quelle parrucche incipriate che, all'epoca, vanno tanto di moda.
A Giuseppe Maria Crespi, del resto, le parrucche e i parrucconi non sono mai piaciuti, tanto meno in pittura: ha sempre voluto sentirsi libero dalle convenzioni accademiche e interpretare i generi pittorici e le iconografie tradizionali in completa autonomia (dei suoi affreschi nel Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna ho parlato qui).
E in questo dipinto usa la sua libertà fino in fondo.

Siamo negli anni '30 del Settecento, Crespi, ormai, non si sposta più da Bologna, la città in cui è nato e dove è sempre rimasto, tranne qualche viaggio- nel suo periodo di formazione- tra Urbino, Parma e Venezia e un lungo soggiorno a Firenze, dove ha lavorato per Ferdinando de' Medici. 
Il suo stile si è formato, mescolando varie influenze, dall'attenzione alla realtà dei grandi bolognesi del passato- Carracci in testa- al colore dei maestri veneti, alla dolcezza di Federico Barocci e, soprattutto, alla pittura fluida e senza contorni di Rembrandt, di cui è stato uno dei più appassionati ammiratori. 
Col passare degli anni, vive sempre più appartato, lavorando dalle prime luci dell'alba fino al tramonto, nel modesto studio, annesso alla casa dove abita in un quartiere popolare della città. 
Alle cerimonie o alle occasioni mondane preferisce, da tempo, la solitudine, anche se i suoi visitatori raccontano che la sua conversazione non è mai stata così piena d'arguzia e d'umorismo. 
Invece di sottoporsi alle frequentazioni, a cui lo obbligherebbe la sua professione, Crespi si limita a coltivare una ristretta cerchia di amici. 
Tra questi c'è un artigiano, un argentiere, più giovane di lui di una ventina d'anni, con cui sembra condividere lo stesso modo ironico di guardare il mondo: è Zanobi Troni, un livornese, che si è trasferito a Bologna giovanissimo e con cui Crespi ha subito legato. 
Nel suo lavoro Troni è molto bravo e si è saputo creare una buona reputazione: grazie alla sua abilità è entrato in contatto con ricchi aristocratici e grandi cardinali e le commissioni, di certo, non gli mancano.
Guadagna molto denaro ma altrettanto è capace di sprecarne, tanto che le fonti del tempo raccontano che "alle volte si è trovato in angustie tali che lo avrebbero avvilito, se non fosse sollevato dal suo spirito allegro e vivace".
Ed è, forse, per quello stesso spirito che Crespi gli si è affezionato e che ha deciso di offrirgli in omaggio un ritratto di famiglia.

Nella tela, a presentare i suoi familiari è lo stesso Zanobi Troni, raffigurato, un po' defilato, sulla sinistra, col suo inconfondibile profilo dal naso aquilino che compare anche in altri dipinti di Crespi.
Con un gesto eloquente del braccio, che sembra preso in prestito dalla ritrattistica ufficiale, ci mostra i quattro figli, tre ragazze adolescenti e l'ultimo nato di un anno o due, e, soprattutto, indica la moglie, Valeria Crapoli, che ha sposato nel 1718. 
Al centro della composizione, messa in rilievo dal blu luminoso della veste, la donna domina la scena. 
Tutta la famiglia si dispone intorno a lei: con un atteggiamento tra pudico e orgoglioso, Valeria non si sottrae, anzi si lascia circondare e quasi avvolgere dai suoi, mentre tiene in mano delle ciliegie.
Le figlie sono tutte rivolte verso di lei; una di loro trattiene con la mano quella della mamma che si è appena posata sul suo volto per una carezza. Ogni gesto, ogni sguardo sottolinea il loro attaccamento reciproco. 
Tutti si sorridono con tenerezza, in un'intimità che sembra escludere ogni spettatore: tra di loro passa una corrente di dolcezza e di complicità. 
Quei sorrisi veri, senza nessun obbligo di posa, ci fanno sentire partecipi del loro calore e del loro affetto. 

Sembra che ognuno di loro (marito compreso) riconosca il ruolo della donna, come il centro, come il vero sostegno della famiglia, in una maniera talmente evidente da giustificare la definizione settecentesca di Marcello Oretti che descrive il quadro come come il "ritratto della signora moglie".
Il fatto, poi, che il dipinto, rimasto a lungo in casa Troni, non sia finito, che ci siano dei pentimenti e che la materia pittorica sia stesa con tanta immediatezza da lasciare intravedere la preparazione rosso scuro del fondo, conferma la destinazione privata e rende ancora più spontanea questa "potente e commovente visione d'amore", come l'ha definita il grande storico dell'arte Francis Haskell.
Un encomio senza retorica, un omaggio sincero e sentito che Crespi- rimasto vedovo qualche anno prima, raffigura con grande emozione e con un po' di rimpianto.

Nessun racconto, dunque, nessun enigma dietro questo dipinto.
Solo una famiglia come tante altre, una famiglia di gente comune, di cui non sarebbe rimasta memoria, salvo qualche rara citazione in polverosi documenti d'archivio, se l'arte di Giuseppe Maria Crespi, non fosse riuscita a trasmettere il ricordo di quel legame d'amore fino a noi.





domenica 19 ottobre 2014

Eugène Boudin: il "re dei cieli"



A chi passeggia, nel 1869, sul molo di Deauville può capitare di imbattersi in un uomo tarchiato, con un berretto da marinaio, che passa ore intere a dipingere al cavalletto sotto un  grande parasole bianco. 
Molti lo guardano con curiosità: la pittura en plein air, all’epoca, non è, certo, una pratica diffusa. 
Se qualcuno gli chiede il nome, quel pittore risponde di chiamarsi Eugène Boudin.
Chi, poi, vincendo l’imbarazzo, si china a osservare la tela, può veder nascere sotto il suo pennello, un dipinto come questo, attualmente alla Fondazione Thyssen di Madrid: un gruppo di persone che, su una spiaggia, conversano o contemplano il cielo infuocato di un tramonto estivo


È un periodo quello, in cui i  bagni di mare sono diventati alla moda: piccoli paesi, fino ad allora abitati solo da pescatori, si trasformano in raffinati luoghi di villeggiatura con tanto di grandi hotel, casinò e sale da concerto, frequentati da  gentiluomini in  doppiopetto e da dame in crinolina. 
Boudin, approfittando della moda, è riuscito a farsi un nome come pittore di scene balneari.
La gente ama molto le mie piccole dame sulla spiaggia - scrive nel 1863- alcuni pensano che questi soggetti siano un vero filone d’oro". 
A Boudin, però, di guadagnare con i suoi quadri importa fino a un certo punto, la sua passione è un'altra.
In realtà, ciò che vuole è rappresentare- anche in quelle piccole tele mondane- quello che chiama "il fulgore della luce" e raffigurare il cielo in ogni suo aspetto. 
Come in questa "Scena di spiaggia", ora alla National Gallery di Londra:


Nato a Honfleur in Normandia nel 1824, Boudin ha scoperto tardi la sua vocazione di pittore. Dopo aver lavorato come marinaio, ha aperto un negozio di cornici che gli ha consentito di conoscere molti degli artisti che frequentano quei luoghi da Courbet a Corot. 
Poi, per amore della pittura, ha abbandonato tutto per andare a Parigi, dove, anziché frequentare l’Accademia, preferisce copiare, al Louvre, i grandi maestri veneti e olandesi. 
Ma la vita frenetica della città non piace a quest’uomo dalla pelle olivastra e i grandi occhi celesti, che parla lentamente e a bassa voce e  che ai caffè  e alle infinite discussioni sull'arte, tra fumo di sigari e bicchieri di assenzio, preferisce l’intimità della vita familiare. 
Quando può, torna in Normandia a spostare il suo cavalletto da una spiaggia all'altra. 
Per lui dipingere all'aperto è l'unico modo di lavorare: è convinto che "due colpi di pennello a contatto con la natura valgano più di due giorni di lavoro in uno studio". 
A volte, nei suoi giri si porta dietro un ragazzo molto più giovane di lui, un diciassettenne di cui ha intuito le grandi qualità: Claude Monet. 
Tutt'e due vagano con il loro cavalletto, cercando di fissare sulle loro tele quei cieli costantemente cangianti che si riflettono, differenti ad ogni istante, sulla superficie del mare.
In un periodo, in cui il pubblico ama una pittura nitida  e precisa, Boudin, dipinge senza definire le forme e con una tavolozza sempre più chiara ed evanescente, tanto che i suoi quadri hanno spesso l'aria di essere appena abbozzati. 
Piano piano, nei suoi dipinti, abbassa la linea d'orizzonte e diminuisce la dimensione delle figure che  diventano piccoli tocchi di colore in un mare di luce.


Il pubblico è perplesso, gli artisti e i critici d'arte, invece, colgono la profonda novità dei suoi  cieli immensi.  
Camille Corot lo soprannomina "il re dei cieli" e Gustave Courbet, in genere poco tenero con i colleghi, gli scrive scherzosamente: "Dite la verità: voi siete un serafino. Non ci siete che voi a conoscere il cielo
Intanto Boudin per vivere continua a  dipingere paesaggi, marine o vedute di città e a viaggiare per l'Europa, ma, ogni volta che può, ritorna a ritrarre in innumerevoli piccoli schizzi a olio, a pastello o ad acquerello le diverse condizioni del cielo e la  natura instabile e transitoria delle nuvole.


Sono queste le "bellezze meteorologiche" che incantano Charles Baudelaire, fin da quando scopre, durante un soggiorno in Normandia, la pittura di Boudin.  
Il pittore, taciturno e modesto, non potrebbe essere più diverso dal sulfureo e inquieto poeta; tutt'e due, però, condividono lo stesso amore per le nuvole e per la loro capacità di  invitare al sogno o al viaggio.



In una recensione, Baudelaire descrive, come solo lui sa fare, gli studi eseguiti dall'artista: quelli dove ha annotato con la precisione di un marinaio, l'ora, la stagione e le condizioni del tempo, o quelli che sembrano dipinti sotto un impulso improvviso e che riescono a fermare in pittura "queste nuvole dalle forme fantastiche e luminose,...queste immensità verdi e rosa sospese o sovrapposte, queste fornaci spalancate, questi firmamenti di sete nere e violette arrotolati o lacerati...tutte queste profondità, tutti questi splendori, che– continua Baudelaire- danno alla testa come una bevanda inebriante o come l’oppio”.



Boudin si inoltra nell'esplorazione di "queste magie liquide e aeree", con la tenacia e la caparbietà di chi vuole arrivare, come afferma in una delle sue lettere: "a nuotare in pieno cielo, fino alla tenerezza delle nuvole". 
E, in questa  ricerca, giunge  agli estremi limiti della pittura, fino alla soglia dell'astrazione.



Quello che conta per lui è afferrare l’attimo, l’istante  preciso, in cui un riflesso cambia o la luce varia di colore. 
E lo farà per tutta la vita.




Quando, a Parigi, nel 1894, sente che  è arrivato alla fine, chiede di essere portato a Deauville per vedere un'ultima volta il riflesso del cielo e del mare.
Dopo la sua morte, gli impressionisti lo saluteranno come un precursore, Monet come il maestro a cui deve tutto. 
Ma Boudin non intendeva essere un innovatore e nemmeno cercava riconoscimenti.
Quello che, in fondo, aveva sempre desiderato era solo di "poter navigare libero sul mare e inseguire le nuvole con il pennello in mano".







Gli schizzi di Eugène Boudin, di cui ho pubblicato le immagini, sono attualmente conservati al MuMA di Le Havre  (qui è il link).
Una bella documentazione sulla mostra di Boudin, che si è tenuta da marzo a luglio 2013 al Musée Jacqueamart-André è qui.



mercoledì 15 ottobre 2014

Il girasole di van Dyck.




Mi piacciono i dipinti che raccontano  delle storie.
Mi piace, quando un'opera diventa, come nei racconti di Sherazade nelle "Mille e una notte" una storia, da cui nascono e si dipanano altre storie, altri racconti.
Può succedere.
Per esempio in questa tela, attualmente nella collezione privata del Duca di Westminster.



È l'autoritratto di un grande pittore, Anton van Dyck, datato intorno al 1632.
L'artista ci guarda e ci indica un girasole.
Il fiore, una presenza straordinaria e inconsueta, domina tutta la scena.
Cosa vuol dire? Perché?
Per capire ci vuole un racconto, anzi, un'inchiesta, per cui sarà meglio fornirci di tutto l'armamentario tradizionale: foto, lente d'ingrandimento, testi di supporto. E iniziare l'indagine, partendo proprio dal protagonista.


Il pittore indossa un abito di seta rosso cremisi, è elegante, signorile, con barba e baffi ben curati.
Non c'è niente che alluda alla sua professione, non un pennello o un cavalletto: apparentemente quello che ci guarda dalla tela non è un artista.
È un gentiluomo.

Ma come mai si ritrae così?

Anton van Dyck (1599-1641), al tempo del dipinto, non è e non si sente un pittore qualsiasi.
La sua carriera è stata folgorante come una meteora.
Nato ad Anversa, è concittadino, allievo e, soprattutto, amico di Rubens. Ed è a Rubens, che ne ha apprezzato precocemente il talento, che deve la sua rete di contatti con i committenti più facoltosi d'Europa. 
In un viaggio in Italia, tra Genova, Mantova e Roma, ha avuto modo di vedere i ritratti, di Tiziano e di Raffaello e ha maturato la decisione di specializzarsi come ritrattista.

L'aristocrazia italiana ed europea dell'epoca vuole trasmettere un'immagine, una memoria di sé, che ne rappresenti  il fasto, ma anche il carattere e le doti morali. 
A questa esigenza Van Dyck ha saputo fornire una risposta con i suoi maestosi ed eleganti ritratti a figura intera, di grandi dimensioni, con un'attenzione accurata per la raffinatezza dell'abbigliamento, ma anche con un'analisi psicologica e fisionomica dei personaggi.

Ha avuto da subito un enorme successo, tanto che ben presto ottenere un suo ritratto è diventato la conferma di uno status sociale raggiunto.
Ed è richiesto dappertutto, da sovrani, aristocratici, eredi di grandi patrimoni, militari, cardinali o dame di corte. 
In poco tempi è riuscito a entrare nella cerchia più ristretta dell'aristocrazia e ad assimilarne modi di vita e di comportamento. 
Perché, di certo, occorrono buona educazione, conoscenza dell'etichetta e buone maniere per poter trattare con i re e con i nobili. E anche per occupare con conversazioni adeguate i tempi lunghi delle pose e per convincerli ad assumere i gesti e i contegni più opportuni.
Ecco che così si spiega l'eleganza dell'abbigliamento.

Un elemento, dunque, l'abbiamo chiarito. Ma l'indagine non è finita e la lente, può servire ancora per esaminare da vicino un dettaglio importante, forse la chiave stessa della rappresentazione.
È pesante collana d'oro che Van Dyck mostra con una certa ostentazione.


E qui sarà meglio ritornare alla biografia.
Nel 1632, l'anno del ritratto, l'artista è a Londra, ha trentatré anni  ed è al culmine della fama.
È stato invitato in Inghilterra dal re Carlo I, raffinato amatore d'arte e di pittura, lo stesso che, qualche anno prima, ha acquistato tutta la collezione dei Gonzaga di Mantova. 


Carlo I ammira la pittura di  van Dyck, ma ne apprezza anche le qualità umane. Sa che i committenti se lo contendono ed è disposto a concedergli ogni favore purché resti a Londra: per lui averlo al suo servizio è una questione di prestigio.
Gli offre subito un alloggio principesco e comincia, addirittura, a frequentarne la casa, trattandolo da pari a pari.
Van Dyck si sente a suo agio: possiede carrozze, cavalli di razza, ha al suo servizio uno stuolo di domestici, sa offrire banchetti prelibati per gli esponenti della corte, intrattenendoli con musici, buffoni e spettacoli fastosi.
Non ha problemi economici. Aspira solo a un titolo nobiliare.
Carlo I lo sa e, fin dal suo arrivo, oltre a garantirgli la carica di primo pittore di corte con un lauto stipendio annuo, gli conferisce il titolo di baronetto e lo nomina membro dell'esclusivo Ordine del Bagno.
Gli dona anche una collana d'oro, un simbolo del nuovo status e del favore del sovrano.
Ed è proprio questa la collana che van Dyck mostra, con tanta soddisfazione.
Ormai si sente arrivato: non è solo un pittore, è diventato un gentiluomo.
Ha ricevuto il titolo nobiliare, a cui aspirava e sa di avere più di un motivo per essere grato alla generosità del re.

E ora arriviamo all'altro protagonista del dipinto: il girasole.

Sì, perché il girasole è trattato come fosse un protagonista a pieno diritto.
Non è in sottofondo, né tanto meno è appena accennato: anzi, è grande, tanto da occupare tutta la parte destra della tela.
Van Dyck si volta a guardare lo spettatore e lo indica.

È la prima volta che questo bellissimo fiore, di un giallo intenso, viene rappresentato in pittura.
È un simbolo nuovo, tutto da scoprire.
La mitologia greca, in questo caso, non aiuta: sul girasole non c'è, all'epoca, alcuna leggenda a cui fare riferimento. 
Per forza!  I semi sono arrivati in Europa dall'America solo nel XVI secolo per essere donati al re di Spagna. 
Un regalo particolarmente adatto a un sovrano: per gli Inca il grande fiore è il simbolo del sole e della regalità.

Ma il girasole ha anche una caratteristica ancor più evidente, l'eliotropismo, cioè segue sempre il corso del sole, dal suo sorgere, fino alla fine della giornata.
Ed è proprio questo che ispirerà van Dyck.
La soluzione a questo punto è evidente: elementare, direbbe Sherlock Holmes.
Il grande fiore altro non è che la rappresentazione di van Dyck stesso.
È il simbolo della sua sudditanza e della sua devozione al re.
L'artista, indicandolo, ci fa capire che anche lui- con la stessa costanza e la stessa fedeltà del girasole- seguirà il corso del suo sole: il re Carlo I,  che lo ha colmato di benefici.
Ed esprime la sua riconoscenza con grande dignità, elaborando un simbolo che sia evidente, ma non apertamente comprensibile a tutti. E' un segno della sua intelligenza, della sua sensibilità.
Non si raffigura prostrato di fronte al sovrano- ormai anche lui  è un nobile- ma, con la sola forza dell'immagine, fa comprendere il rapporto di gratitudine che lo lega al re.

Senza piaggeria e con un grande senso di fierezza e di orgoglio, Van Dyck rende omaggio a Carlo I, offrendogli il suo maggiore talento: quello di pittore.
Un omaggio senza adulazione, anzi pieno di dignità.
A questo punto cos'altro c'è da dire? Chapeau !





lunedì 6 ottobre 2014

Gli Apostoli mancanti: l'"Assunzione della Vergine" di Mantegna nella cappella Ovetari




La matematica non è (o non dovrebbe essere) un'opinione, nemmeno per gli artisti. 
In effetti, proprio un numero sbagliato è alla base di una storia che riguarda l'"Assunzione della Vergine", eseguita da Andrea Mantegna tra il 1453 e il 1457 per la cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani di Padova.


L'affresco è una delle poche parti superstiti della decorazione della cappella, quasi tutta distrutta da un bombardamento nel 1944 (qui è un link) 
La scena è delimitata da un arco dipinto decorato con motivi di candelabre e cornucopie derivati dall'antichità classica: in alto è raffigurata la Madonna Assunta, circondata da angeli festanti, mentre in basso è collocato un gruppo compatto di otto Apostoli che guardano verso il cielo.
Otto? Ma non dovrebbero essere dodici? 
Contiamo meglio! No,no... sono proprio otto. 
Di sicuro, i numeri non tornano. 

E non tornano nemmeno quando la committente, Imperatrice Ovetari, nel 1457, riesce, finalmente, vedere l'affresco terminato.
Ci mancava solo questa- avrà pensato- come se non bastassero tutti i grattacapi che ha avuto fin da quando, una decina d'anni prima, nel 1448, rimasta vedova, ha dovuto adempiere alle volontà  del marito, che, nel testamento, le ha lasciato una cospicua cifra con il compito di provvedere alla decorazione della cappella di famiglia
Il soggetto è già stato stabilito: le storie di san Giacomo e di san Cristoforo alle pareti e l'Assunzione di Maria nel fondo dell'abside.
Forse Imperatrice Ovetari, all'inizio ha creduto di cavarsela velocemente, assegnando l'esecuzione a due squadre di pittori: da una parte due maestri veneziani già affermati, Antonio Vivarini e il cognato Giovannni d'Alemagna, dall'altra due giovani e agguerriti padovani: Nicolò Pizzolo e Andrea Mantegna, all'epoca appena diciassettenne. 
La doppia commissione, però, invece di agevolarla, le ha complicato la vita. E non di poco.
Intanto, ci si è messo di mezzo il destino con la morte prematura di Giovanni d'Alemagna, la conseguente rinuncia di Vivarini e l'obbligo di sostituirli con altri due pittori, Bono da Ferrara e Ansuino da Forlì
Ma anche con i due padovani le cose non sono andate lisce: avrebbero dovuto andare d'accordo visto che entrambi erano stati a bottega da Francesco Squarcione, dove avevano condiviso l'amore per l'antichità classica e per le complesse ambientazioni prospettiche, ma invece erano nati subito dei contrasti. C'è da dire che tutt'e due hanno un caratterino che definire difficile è un eufemismo. 
Nicolò Pizzolo era già noto, in città, come un insolente attaccabrighe, ma anche Andrea Mantegna, più giovane di lui di dieci anni, si è rivelato un tipetto da prendere con le molle. Non appena ricevuta la commissione per la cappella è andato a vivere da solo e si è impelagato in una causa brigosissima col suo maestro e tutore, Squarcione, reclamando compensi mai ricevuti e- come se non bastasse- ha preso a litigare continuamente con Pizzolo. 
Mantegna è ambizioso e ha voglia di affermarsi. Sicuro di sé e dei suoi mezzi, ha cominciato a metter bocca su tutti i lavori della cappella. Pizzolo, che, di certo, non è abituato ad avere pazienza, non ci ha pensato due volte ad andare per vie legali e a richiedere un arbitrato che stabilisse non solo la suddivisione dei compiti, ma addirittura quella dei materiali. Insomma, sono andati avanti per un po' con una tensione che si tagliava con il coltello come due- per così dire- "separati sui ponteggi", finché Pizzolo è morto assassinato e Mantegna ha continuato praticamente da solo. 
Se Imperatrice Ovetari non ha protestato per la durata dei lavori che, secondo il contratto, dovevano finire in due anni è perché, in fondo, è stata contenta di vedere fiorire, come d'incanto, sulle pareti della sua cappella quello che già tutti considerano un capolavoro. Gli episodi delle vite dei Santi, ambientati con una rigorosa prospettiva matematica e arricchiti da tutta una serie di citazioni dall'antico, provocano l'effetto, insieme solenne e monumentale, di grandi sculture dipinte.
Di certo, ha provato la soddisfazione di avere puntato su un giovane che si è rivelato un vero portento. La fama di Mantegna, intanto, si è diffusa in tutto il nord Italia. Grazie al matrimonio con la giovane Nicolosa Bellini, figlia di Jacopo e sorella di Giovanni, si è legato con la bottega più prestigiosa di Venezia; le commissioni fioccano e ora sta per essere nominato niente di meno che pittore di corte dei Gonzaga a Mantova, dove è riuscito a strappare uno stipendio di tutto rispetto e condizioni di lavoro invidiabili.
Forse- pensa Imperatrice- ormai non ne può più della cappella Ovetari e con gli Apostoli ha un po' tirato via.

Anche lei, con tutta probabilità, è stanca, ma non vuole essere nemmeno presa in giro. È vero che con l'Assunzione si dovrebbe chiudere un decennio di lavori, in cui ha sopportato di tutto, complicazioni, tensioni, liti, strascichi giudiziari, perfino la morte e l'assassinio di due dei "suoi" pittori, ma ora basta: ha pagato per dodici Apostoli e dodici devono essere.
Non gli resta che andare in tribunale.
Il giudice, tanto per andare sul sicuro, si affida al parere tecnico di due artisti, Pietro Maggi da Milano e Giovanni Storiato. 
I due constatano che quattro Apostoli mancano effettivamente  all'appello, ma, tuttavia danno ragione a Mantegna: lo spazio della parete di fondo della cappella, occupata anche dalla finestra, è decisamente troppo stretto e il pittore ha fatto quello che poteva. 
Ci è voluta tutta la sua maestria e la sua abilità prospettica, per stiparvi dentro otto apostoli, mantenendo l'equilibrio e l'armonia della scena
Gli altri proprio non ci stavano: fare di meglio era impossibile.
Imperatrice Ovetari si deve rassegnare. 
I numeri sono numeri- è vero-  ma anche la matematica, alle volte, deve cedere il passo alle ragioni dell'arte. 






mercoledì 1 ottobre 2014

Il calendario di pietra: ottobre




"Dixe ottobre, e' spillo lo vino/vago cercando qual è il più fino/vendo quello a rio sauore (di cattivo sapore/ e per mi bevo lo migliore" (Ballata dei Mesi, XIV secolo)



Eccoci ormai al decimo mese dell'anno, l'ottavo, secondo il calendario romano da cui ha preso il nome: ottobre. 

Negli anni successivi alla Rivoluzione francese, ottobre era diviso tra due mesi: Vendemmiaio fino al 22 e, poi, Brumaio. 
Sono nomi questi che descrivono bene il carattere di questo periodo dell'anno, in cui un autunno ancora pieno di sole può sfumare, d'improvviso, nelle nebbie che preannunciano l'inverno, mentre nel paesaggio, predominano i colori caldi e dorati del rosso e del giallo delle foglie. 

Nei Cicli dei Mesi degli inizi del XIII secolo, di cui pubblico, quest'anno, le immagini, manca, per questo mese, la formella della cattedrale di Ferrara ed è rimasta solo la raffigurazione di Santa Maria della Pieve ad Arezzo. 
Nei campi, ormai, la vendemmia quasi ovunque è terminata, i frutti sono stati raccolti  e  i contadini cominciano a prepararsi per le stagioni a venire. 
Ottobre è il momento della semina.



Il giovane contadino sbarbato delle rappresentazioni precedenti lascia spazio ora a un uomo maturo con una lunga barba, che, per difendersi dai primi freddi, indossa robusti stivaletti, una tunica pesante e un mantello. 

È raffigurato proprio nell'atto di gettare i semi, che tiene stretti nel pugno chiuso: il gesto è quello tradizionale della semina a spaglio, che consiste nello spargere le sementi con la mano nel terreno già preparato.
Nessun altro elemento è presente nella scena, dove solo la posizione delle gambe dell'uomo, completamente assorto in se stesso, suggerisce un lento avanzare. 
Si avverte quasi il rispetto dell'ignoto artista per uno dei momenti più importanti dell' attività della campagna, a cui veniva affidata tutta la speranza di una buona annata futura.
Tutto si concentra in quel gesto misurato e composto, un gesto che, nella dignità e nella essenzialità della raffigurazione, assume una valenza quasi sacra. 
E che nella tradizione più antica era accompagnato dalla benedizione dei solchi e dalle preghiere.

Come un rito austero e solenne che si è ripetuto immutabile nel corso del tempo. Tanto da poter essere descritto- sempre uguale a distanza di secoli- in una delle più belle poesie che, almeno nella mia generazione, si usava imparare a memoria a scuola: quella dedicata da Gabriele D'Annunzio ai "Seminatori". 


Van per il campo i validi garzoni,
guidando i buoi dalla pacata faccia,
e, dietro quelli, fumiga la traccia
del ferro aperta alle seminagioni.

Poi, con un  largo gesto delle braccia, 
spargon gli adulti la semenza; e i buoni
vecchi, levando al cielo le orazioni,
pensan frutti opulenti, se a Dio piaccia.

Quasi una pia riconoscenza umana
oggi onora la terra. Nel modesto
lume del sole, al vespero, il nivale

tempio dei monti innalzasi: una piana
canzon levano gli uomini e nel gesto
hanno una maestà sacerdotale.