domenica 28 dicembre 2014

Tra miti e stelle: la volta celeste della Sala del Mappamondo di Palazzo Farnese





Oroscopi, almanacchi, calendari, lunari: non si parla mai tanto di stelle come in questi giorni. 
E, allora, perché non rivestire il blog dei colori del cielo stellato, con l'immagine del soffitto della Sala del Mappamondo in Palazzo Farnese a Caprarola, in cui sono raffigurati lo zodiaco e le costellazioni dell'emisfero boreale durante il solstizio d'inverno.


Siamo all'interno del Palazzo nell'ultima sala del cosiddetto Appartamento d’inverno, al piano nobile.
Voluto come residenza estiva dal Cardinale Alessandro Farnese, il palazzo fu progettato dall'architetto Jacopo Barozzi da Vignola che dispiegò tutta la sua abilità per farne una delle dimore più belle del tempo. 
Una grande scala elicoidale, cortili interni, terrazzi, un appartamento estivo e uno invernale, un magnifico giardino: tutto è pensato per soddisfare il gusto raffinato del "grande cardinale" (qui è un link sulla storia del palazzo).
Sala dopo sala, i più illustri esponenti della pittura dell'epoca (da Taddeo a Federico Zuccari, al Bertoja o a Raffaellino da Reggio), sotto la guida di colti letterati riempiono le pareti di affreschi, in cui storia, mitologia e perfino sacre scritture sono utilizzate per esaltare la gloria della famiglia.
Fino ad arrivare alla sala del Mappamondo, dove, alle pareti, sono raffigurati, il planisfero e i quattro continenti allora conosciuti. 
Qui, il giglio, emblema araldico dei Farnese, campeggia al centro dell'ovale di stucco che racchiude il dipinto.

Lo sfondo di un blu lapislazzuli che ricorda i cieli degli affreschi medioevali  è punteggiato di stelle dorate e popolato dalle figure mitologiche associate allo zodiaco e alle cinquanta costellazioni già note all'epoca. 
Ma qui non si tratta soltanto di una rappresentazione allegorica. 
Anzi, si è fatto ricorso a tutte le più aggiornate conoscenze astronomiche per raffigurare una mappa celeste più precisa possibile, dove le stelle sono accuratamente posizionate in relazione alle linee che compaiono in bella vista e che rappresentano la proiezione in piano delle coordinate celesti, come l'Equatore, l'Eclittica, i Tropici o i Coluri, fondamentali per orientarsi nel cielo e stabilire la collocazione degli astri.
L’artista che, tra il 1573 e il 1575, esegue questa complessa rappresentazione non è stato ancora identificato con certezza: gli studiosi hanno proposto i nomi di Giovanni de’ Vecchi, oppure di Giovanni Antonio da Varese detto il Venosino, autore dell’analoga Volta celeste  collocata nella Sala Bologna in Vaticano e commissionata da Gregorio XIII. 
In ogni caso, per realizzare una simile raffigurazione, non bastano certamente le sole conoscenze di un pittore. A fornire tutto il progetto iconografico sono il coltissimo astronomo Orazio Trigini de'Mari e Fulvio Orsini, l’erudito bibliotecario e antiquario al servizio del cardinal Farnese. 
Sono loro che trovano negli antichi testi di astronomia le citazioni più opportune per ricostruire nel soffitto l'intera volta celeste.

Alla fantasia dell’artista non resta che sbizzarrirsi nei particolari, come la grande nave di Argo che solca il mare ai confini dell'affresco, il candido Cigno, lo scattante Centauro o i corpi goffi e robusti delle due orse che personificano le costellazioni.


Gli illustri visitatori del Cardinale possono divertirsi a far sfoggio di cultura, controllando l’esatta posizione degli astri, oppure riconoscendo, tra le figure celesti, personaggi come Antinoo, il bellissimo giovane amato dall'imperatore Adriano e trasformato, dopo la morte, in un dio, oppure l'arrogante Fetonte che precipita nell'Eridano con i cavalli imbizzarriti del carro del Sole. 
E possono sfidarsi a scoprire dove sia l'ara su cui Zeus compie il più antico dei sacrifici per assicurarsi la vittoria nello scontro con Crono e dal cui rogo fumante nasce la Via Lattea, che percorre tutto l’affresco come una bianca spirale di fumo.
Lungo la sua candida scia si dispongono tutte le figure grandi e piccole che popolano quel cielo eternamente azzurro, raccontando ciascuna la propria storia e rievocando antichi miti. 
Mentre le costellazioni più lontane della galassia si trasformano nei punti dorati che splendono luminosi sullo sfondo.
Astronomia e astrologia si mescolano, remote leggende prendono vita. 
Quale immagine potrebbe essere più adatta per augurare un felice anno nuovo sotto la protezione degli astri? 
E allora buon anno e giorni sereni a tutti!  






Chi vuole approfondire troverà qui il link a un bell'articolo che  ripercorre le vicende della storia e dell'iconografia del dipinto. Qui invece è un video per scoprirne tutti i dettagli 
Per chi volesse visitare il bellissimo Palazzo Farnese a Caprarola, le date e gli orari d’apertura sono qui)



sabato 20 dicembre 2014

L'"Adorazione del Bambino" di Paolo Uccello nella chiesa di san Martino a Bologna




La scena notturna di un presepe, racchiusa da una cornice dipinta a punte di diamante, in un affresco staccato, di più di due metri per tre, attualmente collocato nella prima cappella a sinistra della chiesa di San Martino a Bologna:



Un dipinto, particolarmente adatto a questi giorni pre-natalizi non solo per il soggetto, ma anche perché la sua scoperta ha l'aria di un piccolo prodigio. 
Sì, perché questo affresco, di cui nessun testo riportava l'esistenza e che non figurava in nessun documento, è ricomparso all'improvviso, come un'apparizione. 
C'è da immaginarsi la sorpresa degli operai che lavorano nella sagrestia di san Martino, quando, nel 1977, una caduta dell’intonaco lascia intravedere la figura di un Gesù Bambino. 
Si capisce subito che intorno a quella figura c'è dell'altro e si decide immediatamente di rimuovere l’intonaco che copre il resto dell'affresco: il lavoro di restauro è lungo, ma, alla fine, si riesce a riportare alla luce l'intero dipinto. 
Anche se i danni sono irreparabili e una parte dell'affresco è perduta, quello che rimane lascia tutti stupefatti e si rivela di una qualità talmente alta che un grande studioso come Carlo Volpe può attribuirlo, con sicurezza, a uno dei protagonisti della pittura del Quattrocento, Paolo Uccello (1397-1475).


In basso, al centro, un Gesù Bambino, robusto come un piccolo Ercole, tiene nella mano destra una sfera con l’alfa e l’omega, la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco, i simboli tradizionali dell’eternità di Dio.
Lo vegliano un bue dal massiccio corpo geometrico e un asinello legato al palo da una corda.
A destra, si intravede, a mala pena, San Giuseppe, mentre la Madonna inginocchiata prega con le mani giunte. 
Dietro di loro, un muro semidistrutto allude al crollo del paganesimo e al superamento della cultura antica.
A sinistra, sono raffigurati i committenti, probabilmente dei notabili, forse dei magistrati, come farebbe pensare il fatto che indossano la guarnacca, il lungo abito rosso foderato di pelliccia, tradizionalmente riservato ai giudici e ai notai.

Il tetto della capanna, in cui è ambientata la scena, è sorretto da un tronco d’albero non lavorato che sembra quasi nascere dal corpo del Bambino, e che si incrocia con una delle due travi a formare una croce, un simbolo che prefigura la futura Passione di Cristo. 



In alto, sullo sfondo di un cielo nero, illuminato a mala pena da una sottile falce di luna, tre personaggi, in abito quattrocentesco, i tre Magi, sono così assorti nella loro discussione da non accorgersi di quello che succede. 
Solo uno indica verso l’alto, ma la cometa, che forse era raffigurata nella parte mancante dell'affresco, non è così splendente da rischiarare il cielo.

Tutta la scena è di una tale essenzialità che all'epoca- sull'intonaco è incisa una data che è stata letta come 1431 o 1437- probabilmente rappresenta un vero choc per gli spettatori bolognesi, abituati agli scintillii dei fondi oro, ai dettagli lussuosi e alla ricchezza dei polittici collocati sugli altari delle chiese.
I più aggiornati vi avranno visto l'influenza delle novità elaborate a Firenze, anche se solo pochi avranno riconosciuto il nome del pittore. 
Tanto più che, anche nel panorama fiorentino, Paolo Uccello è un artista a parte (ne ho parlato qui)
Quando dipinge l'affresco bolognese, ha una quarantina d’anni ed è abituato a cercare lavoro fuori Firenze, dove è nato e dove ha avuto la sua prima formazione accanto a Lorenzo Ghiberti: è stato a Padova, a Venezia e ha finito da poco gli affreschi del Duomo di Prato. 
Insomma, ha lasciato la città negli anni cruciali, proprio quando trascorreva la folgorante meteora di Masaccio e cominciavano a fermentare le nuove idee che avrebbero cambiato il modo di fare pittura e di vedere il mondo. 
Pur rimanendo amico degli artisti della sua generazione, soprattutto di Donatello, è rimasto, una voce fuori dal coro, anche per colpa di quello che Vasari definisce il suo "ingegno sofistico e sottile" che lo porta ad appartarsi in solitarie elucubrazioni. 
Vasari, del resto, lo descrive come un originale, un uomo timido, introverso, amante degli animali, soprattutto gli uccelli (e da questo gli deriva il soprannome), ma con una passione ossessiva per quella prospettiva con più punti di fuga già teorizzata negli scritti medioevali e che diventerà il centro di tutte le sue ricerche artistiche

Così anche in questo affresco moltiplica i punti di vista e trasforma la scena in un'astratte costruzione di pure linee geometriche.
Il suo Presepe, di un estremo rigore intellettuale, senza alcuna concessione all'emozione o alla distrazione, invita piuttosto a una meditazione sul significato della nascita di quel Bambino che stringe tra le mani il segno dell’infinito.
Mentre i tre Magi che discutono tra di loro, persi nell'oscurità della notte e ancora ignari della cometa che farà loro da guida, sembrano riflettere, nella loro incertezza, la sua e le nostre inquietudini.







Una poesia di Edmond Rostand mi ricorda molto i Magi sperduti di Paolo Uccello:
LA STELLA
Perdettero la stella una sera; come è possibile perdere
La stella? Per averla troppo a lungo fissata.
I due re bianchi, ch’eran due sapienti di Caldea,
tracciarono al suolo dei cerchi, col bastone.
Si misero a calcolare, si grattarono il mento.
Ma la stella era svanita come svanisce un’idea,
e quegli uomini, la cui anima aveva sete d’essere guidata,
piansero innalzando le tende di cotone.
Ma il povero re nero, disprezzato dagli altri,
si disse: ” Pensiamo alla sete che non è la nostra.
Bisogna dar da bere, lo stesso, agli animali”.

E mentre sosteneva il suo secchio per l’ansa,
nello specchio di cielo in cui bevevano i cammelli
egli vide la stella d’oro che danzava in silenzio.

sabato 13 dicembre 2014

Tra nebbia e sogno: la "Resurrezione" di Bastianino per la chiesa di san Paolo di Ferrara





"Egli non sa vedere che la notte, i crepuscoli e le apparizioni” (Francesco Arcangeli)

La “Resurrezione di Cristo", una delle tre grandi pale d'altare eseguite da Sebastiano Filippi detto il Bastianino (1532 ca-1602) per la chiesa di San Paolo a Ferrara:


Il Cristo risorto, circondato da un alone di luce dorata e da una gloria di angeli, si leva dal sepolcro, mentre i soldati, impauriti e attoniti, giacciono a terra, nell'ombra fitta che si addensa in basso.
Tutto sembra opaco e avvolto da una nebbia sottile che rende indistinti i contorni delle figure. 
Un dipinto di fronte a cui- per citare le parole di uno scrittore come Giuseppe Raimondi- si rimane colpiti da "tutto lo sconquasso che si osserva nella scena, un poco teatrale, un poco medianica e spiritistica... come un sogno visto da sveglio".

Siamo nella Ferrara degli anni '80 del Cinquecento. 
Sotto il Duca Alfonso II d'Este, la vita di corte continua nella magnificenza di sempre, tra spossanti battute di caccia, feste, musica, danze e gli spettacoli stupefacenti delle "Cavallerie". 
In Castello, è stata appena rinnovata la decorazione dell'Appartamento detto dello specchio. 
Agli affreschi sfrenati e scherzosi, ha collaborato lo stesso Bastianino, con quei "belli ignudi e pargoletti amori”, celebrati nei versi del poeta di corte, Torquato Tasso.
Alfonso II sembra interessarsi solo a questioni di etichetta e di protocollo, impegnato com'è nella disputa sulle "precedenze", una stremante quanto inutile contesa sui titoli di nobiltà che lo oppone alla famiglia dei Medici
Ma, dietro questa apparenza brillante e un po' fatua, cova dappertutto l'inquietudine
Nel 1570 un gravissimo terremoto ha colpito la città, le casse del Duca sono vuote e la popolazione, già fiaccata da epidemie ricorrenti, è gravata da tasse sempre più esose. 
Ormai, nemmeno lo splendore della corte può nascondere la consapevolezza di essere alla fine di un'epoca. 
Il Duca, malgrado tre matrimoni, non riesce ad avere quel figlio maschio che salverebbe la signoria estense su Ferrara: come stabilito da un antico patto, in assenza di un erede legittimo, la città è destinata a ritornare sotto lo Stato della Chiesa.

È in quegli anni difficili che Bastianino, già maturo e affermato, lavora ai dipinti di san Paolo.  
Spettatori e committenti, abituati al pittore brioso degli affreschi, non capiscono fino in fondo lo stile nebbioso e appannato che adotta, ormai, in tutte le sue tele religiose e che, dopo la morte, lo condannerà a un lungo oblio. 
Ci vorrà un grande critico d'arte, Francesco Arcangeli, per riscoprirlo e per fornire, nella sua monografia del 1963, quell'interpretazione suggestiva e poetica che resterà fondamentale per tutti gli studi successivi. 
Per Arcangeli, la nebbia, il velo che copre e offusca i colori dei dipinti di Bastianino e che priva i corpi di ogni consistenza, non è affatto un espediente, o addirittura un difetto di esecuzione, frutto di quella "negligenza" che gli veniva spesso rimproverata. 
È, invece, l’espressione in pittura dell'incertezza e del disagio che suscita la sensazione della fine di un'epoca e della malinconia che accompagna il dorato tramonto della corte ferrarese.

Bastianino, con una sensibilità che lo avvicina alla poetica tormentata di Torquato Tasso non fa che rappresentare, nei suoi dipinti, la crisi della "Ferrara affascinante e triste ma dimentica di Alfonso II".
E il dissolversi delle sue immagini non è che il riflesso del dissolversi di quel mondo.

Nella "Resurrezione" non c'è alcun senso di trionfo, alcuna esaltazione. 
I colori fumosi e i contorni sfocati aboliscono ogni nitidezza di disegno.
Le influenze di artisti come Tiziano o come Michelangelo, conosciuto a Roma e considerato un modello di riferimento, sono rielaborate in uno stile, dove manca ogni drammatizzazione e dove ogni gesto è dilatato in un'atmosfera ovattata e pesante. 
Tanto che sembra che Cristo si liberi a fatica dai lacci della morte e "anziché balzare verso l’alto… si apra il passo fra gli inceppi molli dei dormienti come risucchiato da un lento maelstrom" (Arcangeli).
I corpi dei soldati caduti a terra, con i volti deformati o appena accennati, si smaterializzano e si confondono in una massa indistinta



Gli angeli che circondano Cristo, dipinti a piccoli veloci colpi di pennello sfumati con le dita, sono presenze evanescenti che si distinguono appena nel passaggio tra l'ombra e la luce


Tutto si trasforma in una visione. 
E le immagini svaniscono nell'indeterminatezza di un sogno.




Bastianino è il protagonista della mostra "Lampi sublimi a Ferrara. Tra Michelangelo e Tiziano. Bastianino e il cantiere di san Paolo", a cura di Anna Stanzani, che si terrà da oggi e fino al 15 marzo 2015 nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara






lunedì 8 dicembre 2014

I sogni nel cassetto: l"Hotel Eden" di Joseph Cornell




Sono giornate grigie queste, di umore e di pioggia: mi prende, ogni tanto, la voglia di evadere da un'atmosfera natalizia che sembra fatta solo di luminarie, di canzoni che parlano di neve e di renne e di una miriade di panettoni che affollano gli scaffali dei supermercati. 
Tra tutte le immagini che avevo in mente, ne scelgo perciò, una che suggerisce, in maniera del tutto particolare, sogni di viaggi e di fughe immaginarie: è l'"Hotel Eden", ora a Ottawa, alla National Gallery of Canada, opera di un grande artista, uno dei miei preferiti, Joseph Cornell.




Su uno sfondo di un bianco luminoso, un pappagallo variopinto, appollaiato su un ramo, regge col becco un sottile laccio nero, con cui sembra azionare una sorta di ventilatore. 
Accanto, in un vecchio e sciupato manifesto pubblicitario, si legge, a mala pena, il nome dell'hotel Eden. 
Tutto qui.
Una serie di oggetti raccolti e sistemati, intorno al 1945, in una delle sue piccole "scatole"- appena 38x12 centimetri- da Joseph Cornell (1903-1972). 
Ho già parlato qui di questo straordinario artista, solitario ed eccentrico, che passa la maggior parte dell'esistenza, chiuso, con la madre e il fratello invalido, nella sua casa in un quartiere periferico di New York.
Malgrado la sua vita appartata, non è affatto un isolato, anzi è al corrente delle ultime tendenze dell'arte contemporanea e in corrispondenza con gli esponenti più illustri delle avanguardie americane ed europee. 
Ma è, da sempre, anche un uomo indipendente, un "battitore libero", che, pur aderendo al movimento surrealista, ha scelto, fin dall'inizio, una strada che è solo sua. 
Le sue giornate, a partire dagli anni Quaranta, sono scandite da uno stesso ritmo: la mattina presto parte da casa con la metropolitana e scende al centro di Manhattan.
Là passa il tempo, vagando per le strade, rovistando nelle botteghe dei rigattieri, perlustrando depositi, magazzini o librerie di seconda mano. 
Acquista di tutto: libri, foto di quelle dive del cinema che adora da lontano, mappe, stampe, e, soprattutto, oggetti, un tempo preziosi ma ormai privi  di valore.
Un guazzabuglio di elementi che gli piace conservare in cartelle di cartone, divise per tema e catalogate con titoli come "Ragni", "Lune", oppure "Uccelli".
Quei materiali disparati sono la base delle sue creazioni. 
La sera, quando torna a casa, si mette al lavoro e li dispone- accostandoli liberamente- in piccole scatole di legno con un coperchio di vetro. 
Né dipinti, né sculture, le sue sono opere complesse che devono essere osservate piano piano, con attenzione e con delicatezza. 
Se si guarda bene ci si accorge che Cornell in quelle scatoline ricrea interi universi in miniatura, in cui rivela i suoi ricordi e i suoi desideri più nascosti.
Gli basta, per esempio, qualche paillette e un pezzo di tulle per ricordare un balletto.
Oppure, qualche bussola spaiata e una mappa della barriera corallina gli è sufficiente per evocare paesi lontani (sulle opere di Cornell, compresi i suoi film fatti di spezzoni di pellicole di serie B, qui e qui sono link a siti che ne parlano approfonditamente).


Le sue sono opere aperte, suggestioni visive che lasciano spazio a ogni sensazione, in completa libertà.
Così, in questo "Hotel Eden", qualcuno ha visto addirittura allusioni al paradiso terrestre o il simbolo di una rinascita simboleggiata dall'uovo visibile in alto. 
Oppure i più sofisticati hanno riconosciuto citazioni precise da un artista come Marcel Duchamp.
Ma, in realtà, poco valgono le interpretazioni, quello che importa sono le emozioni che Cornell sa suscitare dentro di noi, fin nel profondo.
Per me, per esempio, chiuso dentro questa scatolina, c'è tutto il desiderio di essere altrove. 
C'è la voglia di un'evasione, l'idea di un viaggio sognato più che vissuto, magari in un indistinto paese tropicale di un esotismo da cartolina, fatto di pappagalli colorati e di hotel dai nomi evocatori, che mi ricordano l'improbabile Sud America di una canzone di Paolo Conte.
Ma, quel che più conta è che questa colorata scatolina, fatta di immagini ritagliate e di oggetti sciupati dall'uso, è capace di suscitare la stessa commozione impalpabile e misteriosa di una poesia.






lunedì 1 dicembre 2014

Il Calendario di pietra: dicembre




"Dixe Dexembre: sono lo tale. Fazo ghiazare omne chanale. Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d’ogni razone" (Ballata dei Mesi del XIV secolo)  


"Tempus fugit", il tempo fugge, dicevano i latini: il 2014 è passato come un soffio ed eccoci già arrivati a dicembre, il decimo mese secondo il calendario romano, da cui ha preso il nome, l'ultimo dell'anno secondo il nostro. 
Il mese delle feste natalizie, dei dolci, dei rubicondi Babbo Natale o delle neve.
Niente di tutto questo agli inizi del Duecento: nel Ciclo dei Mesi della Pieve di Santa Maria ad Arezzo dicembre è il mese in cui si ammazza il maiale. 
In un periodo in cui i porci vengono, per lo più, allevati nei boschi allo stato brado, la macellazione avviene al termine della stagione delle ghiande, quando il freddo dell'inverno assicura la migliore conservazione delle carni. 
"Uccido i porci e mettogli in sale, fazo sossicce d'ogni razone (faccio salsicce d'ogni tipo)": dice di sé il Dicembre della Ballata dei mesi.


Sullo sfondo di un porticato sorretto da tre esili colonnine, un giovane biondo sta uccidendo un maiale che tiene inchiodato al suolo, dopo averlo violentemente rovesciato. 
Il gesto è quello preciso di chi sa risparmiare inutili sofferenze, vibrando all'animale una stilettata dritta al cuore, dopo averne calcolato la posizione,  ripiegandogli sul petto una delle zampe anteriori. 
Si tratta, probabilmente, di uno di quei norcini, che all'epoca, soprattutto nella stagione invernale, girano nelle campagne e nelle città offrendo i loro servizi per la macellazione. 


I colori vivissimi che si sono conservati tuttora, accentuano il realismo della scena con particolari come la posa del giovane con il ginocchio piegato per darsi più forza, la sopraveste rialzata e le calzature pesanti, oppure la fascia bianca all'altezza dello costole del maiale, caratteristica della cosiddetta "cinta" senese, una razza diffusissima nella Toscana del tempo.
Una scena brutale, ma non di una violenza gratuita: l'uccisione del maiale rappresenta, allora, uno dei momenti essenziali dell'anno, una sorta di rito collettivo, quasi una festa, a cui partecipa, a volte, tutta una comunità. 
Il maiale è considerato un animale indispensabile per la sopravvivenza: la sua carne è di gran lunga la più consumata nelle case dei poveri come nei banchetti dei ricchi, tanto più che- come si usa dire ancora oggi- del porco non si butta via nulla. 
Tutto serve e tutti sono pronti a utilizzarlo, fino all'ultimo.


La scena di Dicembre può turbare gli spettatori di oggi, più delicati (o forse più ipocriti) o poco avvezzi alla rudezza della vita di campagna. 
Allora, chi la guardava non si scandalizzava, né si turbava, ma leggeva in quella uccisione solo la possibilità di sopravvivere fino ai raccolti della primavera. 
Magari, passando i giorni più freddi al calore del fuoco, mentre gli insaccati pendevano rassicuranti dal soffitto, come appare, nello stesso Ciclo, nella raffigurazione di Gennaio (qui).
Se tutto andrà come nel calendario di pietra- si poteva pensare- la brutta stagione potrà essere superata senza patire la fame. 
Poi, torneranno di nuovo i venti di marzo, i fiori di aprile, le feste e le cavalcate di maggio e arriveranno l'estate e l'autunno, la mietitura del grano e la vendemmia.

I secoli passano e di quei pensieri, quelle gioie, quelle paure e quelle speranze rimangono solo le immagini che ignoti scultori hanno consegnato all'eternità dell'arte.
Ancora una volta, un anno finisce e un altro sta per cominciare: il tempo e le stagioni continuano, ora come allora, il loro immutabile ciclo.