domenica 22 febbraio 2015

"Il palco di teatro" di Felix Vallotton




Il "Palco di teatro", una piccola tela (cm 44x38) di Felix Vallotton (1865-1925), attualmente in collezione privata: 


Una linea obliqua divide nettamente in due la composizione: in basso la grande superficie gialla della balconata del palco. 
Sopra, dal nero fitto dell'ombra, emergono due figure: un uomo e una donna. 
Di lui si intravede appena la parte superiore del volto, inquadrata dai capelli scuri e lo sguardo che lancia alla donna al suo fianco. 
Lei indossa un cappello, decorato di rosa e con una larga tesa nera che le lascia il viso in ombra e sembra osservare qualcosa più in basso. 
Nient'altro, nessun gesto esplicito, nessun contatto tra i due; eppure si avverte immediatamente il disagio di un'atmosfera pesante e opprimente. 
Forse la chiave di questa sensazione sta tutta nel rilievo che assume la mano contratta della donna, coperta da un guanto di un bianco abbagliante e  sottolineata dall'ombra sulla parete liscia della balconata. 
Due grandi superfici di colori netti e stridenti, giallo e nero, due volti appena schizzati, due sguardi che non si incrociano e un pugno serrato: bastano questi elementi a Felix Vallotton, per suggerire la tensione e l'inquietudine che regna nella coppia. 
Il palco di teatro non è che lo sfondo, i protagonisti sono loro, "Le monsieur et la dame", come del resto indica il sottotitolo, con cui il dipinto è noto. 

Siamo nel 1909, Vallotton ha quarantatré anni e si è già guadagnato una discreta reputazione.
Lo stile levigato e freddo e l'inquadratura audace che rivela anche in questo dipinto gli deriva dalla sua passione per le stampe giapponesi. 
Il  gusto per la semplificazione, i contorni netti, le grandi superfici piatte di colore e la mancanza di definizione spaziale è, invece, quello tipico degli artisti del movimento dei Nabis, a cui si è avvicinato fin dall'inizio della sua carriera (ne ho parlato qui e qui). 
Anche se i suoi compagni parlano di lui  come un "Nabi etranger/ un nabi straniero" perché ama, da sempre, fare la sua strada autonomamente, da solitario impenitente qual è.
Vallotton non si mescola ai dibattiti o ai discorsi teorici; preferisce continuare a copiare al Louvre i maestri del passato, quei grandi disegnatori che definisce "severi e di gran gusto", a partire da Ingres fino ad arrivare a Bronzino, a Holbein e a Dürer.
Del resto il suo carattere lo porta a prendere le distanze nell'arte, come nella vita, tanto che confessa nei suoi diari:" sono e sarò sempre quello che, dietro a un vetro, vede vivere e non vive".


Nato a Ginevra da una famiglia della borghesia calvinista, a diciassette anni  si è trasferito a Parigi e si è iscritto all'Academie Julian. 
Dal 1897 una serie di xilografie intitolate "Intimità" dedicate all'esplorazione dei rapporti uomo-donna e pubblicate dalla "Revue blanche" gli hanno valso la notorietà, ma anche la fama di uno che guarda il mondo senza indulgenza e con l'obbligo della verità che gli deriva dalla sua rigida educazione protestante. 
Per molti, comunque, Vallotton rimane un enigma: uno svizzero che non dipinge mucche o vette di montagne, un parigino che non ama la frivolezza, un solido borghese che non disdegna simpatie anarchiche. Insomma, un uomo difficile e contraddittorio. 
Né vale a conquistargli simpatie il matrimonio con Gabrielle Barnheim, vedova e madre di tre figli, erede di una nota famiglia di mercanti di quadri che- come ammette lucidamente- può aiutarlo nella carriera, ma che non cancella la sua sfiducia verso la vita di coppia, né la sua diffidenza verso la buona società di cui ormai fa parte.
Nascosto dietro un'eleganza impeccabile e "un'insignificante tristezza da tappezzeria", come afferma l'amico scrittore Jules Renard, sfoggia la sua ironia caustica solo nella cerchia degli intimi e, intanto, continua a osservare il mondo che lo circonda col suo sguardo implacabile e a trasferire nei suoi dipinti tutta l'inquietudine che coglie intorno a sé.


Come qui, dove sui due personaggi silenziosi aleggia un'ombra, come se qualcosa di grave fosse appena successo o stesse per succedere. 
Ma cosa? Un litigio, la scoperta di un adulterio o la manifestazione del sordo rancore di tutti i giorni... Non lo sappiamo, vediamo solo che nella tela i due sono come prigionieri in quello che è stato definito" una sorta di acquario di velluto"
Tutto si svolge in quello spazio ristretto, come in uno di quei "drammi da camera" di August Strindberg che allora si recitano al Teatro intimo di Stoccolma o in certi interni che saranno lo sfondo dei quadri di Edward Hopper.
Vallotton non racconta e non spiega, si limita ad alludere a lasciare intuire, senza mostrare nulla: la tensione si nasconde nei dettagli, nella contrapposizione dei colori o nella linea tagliente che spezza la scena. 
Il fascino della sua pittura è tutto nel non detto, nel percorso che ci obbliga a fare e in quello che ci costringe a scoprire nelle sue tele e dentro di noi. 








Il dipinto è stato il manifesto della bella mostra monografica su Felix Vallotton"Le feu sous la glace" che si è tenuta nei mesi scorsi a Parigi al Grand Palais ( qui è il link)


mercoledì 18 febbraio 2015

Il sorriso di Robert Doisneau


"L'umorismo non è che pudore davanti all'emozione" Robert Doisneau


Voglia di leggerezza? Niente di meglio che sfogliare insieme qualche immagine di un poeta della fotografia come Robert Doisneau (1912-1994) (di lui e delle sue foto più famose ho parlato qui e qui).

Più di quattrocentomila scatti conservati nel suo archivio e una carriera lunga sessantacinque anni, da quando comincia a lavorare come fotografo per le officine Renault, all'ingresso nell'agenzia Rapho, fino alle ultime foto a colori.
Sessantacinque anni passati, per lo più, nella sua città, Parigi "a catturare gesti ordinari di gente ordinaria in situazioni ordinarie" e, proprio attraverso quella gente comune, a ricreare nelle sue immagini, "un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere".
Per cogliere la poesia e l'emozione del quotidiano il suo segreto è quello di guardare al mondo come a un palcoscenico e di aspettare il momento giusto per scattare, oppure- se la buona occasione tarda troppo- di creare lui stesso delle messe in scena, dei "teatrini", in cui rappresentare i piccoli fatti della vita. 
Sempre con lo sguardo gentile di chi sa osservare quello che lo circonda con rispetto, con un pizzico di umorismo, ma anche con quella dolcezza che traspare in tutte le foto della sua lunga carriera

Ecco qui come sa captare la tenerezza del bambino che ripete lo stesso gesto dei due uomini che, seri e assorti, passeggiano davanti a lui:




O qui, invece, come sa fissare, col suo obbiettivo, lo stupore di vedere una dignitosa signora, che siede su una una panchina, leggendo tranquillamente il suo giornale, con una gallina al guinzaglio






oppure, in questa "Information scolaire" del 1956, come riesce a restituire la spontaneità, con cui un ragazzino cerca ispirazione, guardando il soffitto, mentre il suo compagno di banco ne approfitta per copiare






In questa immagine del 1956 i protagonisti sono due sposini tutti eleganti- lei in bianco e lui in doppio petto e con il suo bel fiore all'occhiello- che si concedono un brindisi improvvisato al banco un bistrot, mentre, accanto a loro, un operaio, con i vestiti  sporchi di grasso, paga, indifferente, il suo calice di vino





Immagini che sembrano prese nell'immediatezza del momento, anche quando, come nella serie "La glace" del 1948, sappiamo che si è nascosto apposta nella bottega di un antiquario per spiare le espressioni di interesse o di finta indifferenza, con cui, per esempio, moglie e marito guardano il quadro di una donna nuda




E che dire poi, di questa "Bolides" del 1952, tutta incentrata sullo sguardo perplesso, con cui il bambino, dall'alto della sua macchinina sportiva, contempla la carcassa di un'automobile abbandonata vicino al marciapiede





Dalla fine degli anni'50, lo stile di Doisneau è così ben definito che viene coniata per lui l'etichetta di "fotografo umanista", vale a dire, di fotografo attento agli uomini e alla vita di tutti i giorni. 
Un generoso ottimista, capace di rappresentare, negli anni del secondo dopoguerra,  le gioe semplici di una passeggiata, di un bicchiere di birra a un caffè o di un bacio scambiato per strada da una coppia di innamorati: 




La sua è la Parigi  del quartiere di periferia in cui è nato, quella degli operai e delle famiglie della piccola borghesia. 

Lontana le mille miglia dalle cartoline stereotipate della Tour Eiffel come dal degrado di oggi, è una cittá dove i ragazzini possono ancora pattinare per strada come in questa "Enfants aux patins" del 1953



o, in tutta innocenza, come in questa "Pipi pigeon" del 1952 fare pipi contro lo stesso muro, mentre un piccione avventuroso si posa sulla testa del più piccolo di loro:



È la stessa Parigi, in cui, la luce del sole di una tranquilla giornata primaverile, fa emergere, come in questa "Diagonales" del 1953, il gioco di linee formato dalle connessioni delle pietre dei gradini del Lungosenna 





o, in cui ci si può fermare a guardare- e siamo nel 1978- l'allegra confusione della doppia fila dei bambini che attraversano Rue de Rivoli, aggrappati l'uno all'altro   





Piccole storie, raccontate con un misto di naturalezza e di artificio, a cui il bianco e nero aggiunge la sensazione di nostalgia che si prova di fronte a un album di famiglia, in cui si riconoscano espressioni, gesti e movimenti.
A queste immagini Doinseau alterna i ritratti di celebrità, da Picasso, a Prévert a Dior e i reportage per Life o le riviste patinate come  Vogue.
Ma, quando può, libero da vincoli o da commissioni, torna a fotografare la sua città, cogliendone gli aspetti più inediti, come in questa "Elicopteres"del 1982



"In tutta la mia vita mi sono sempre divertito":- afferma Doisneau. 

E c'è da credergli, perché la sua, in fondo, non è solo una maniera di fotografare, ma una lezione di vita.
Quella di non guardare il mondo con indifferenza, ma con immutata meraviglia, non cessando mai di scoprire e di ascoltare "la piccola musica"  che è dentro e fuori di noi.
La forza delle sue foto sta tutta nell'opporre alla malinconia, ma anche alla pesantezza del vivere, un umorismo bonario e affettuoso e la condivisione silenziosa di un sorriso.




Un libro recentemente pubblicato da Taschen (qui) ripercorre in oltre quattrocento immagini la vita è la carriera di Doisneau
Il sito ufficiale invece è qui.


sabato 14 febbraio 2015

Tra mito e galanteria: "Diana e Endimione" di Jean-Honoré Fragonard



Diana, algida dea della luna, durante il suo percorso nel cielo, scorge il bellissimo pastore Endimione addormentato in una grotta isolata della montagna e subito se ne innamora, ovviamente ricambiata.
Per far sì che l'amore tra un mortale e una dea possa durare, Giove concede al pastore di mantenere per sempre giovinezza e bellezza, in cambio di un sonno eterno.
Endimione accetta il patto e rinuncia alla pienezza della vita, pur di godere, ogni notte, della carezza innamorata della luna.
Questo è quello che racconta il mito, almeno nella versione più diffusa e riprodotta da centinaia di artisti nel corso dei secoli (qui)
Jean-Honoré Fragonard (1732-1806) raffigura così, in questa tela, oggi alla National Gallery di Washington, il primo incontro tra i due innamorati: 



Sullo fondo, l'oscurità della notte è interrotta dall'apparizione della luce argentata di una falce di luna: Diana, avvolta in una lieve veste bianca e in un mantello di un blu intenso, è colta nel momento, in cui scorge, per la prima volta, Endimione addormentato tra le pecore del suo gregge.
Un piccolo Eros nasconde tra i fiori la freccia che sta per scoccare.

Il dipinto è datato tra il 1753 e il '56: siamo a Parigi, Fragonard ha poco più di vent'anni, una grande passione per la pittura e una voglia altrettanto grande di affermarsi.
Dopo un primo apprendistato nella bottega di Jean-Siméon Chardin (ne ho parlato qui), ha deciso di passare nello studio di François Boucher, che sente più affine come gusto e che, soprattutto, ritiene più introdotto- grazie all'amicizia con la favorita del re, Madame de Pompadour- tra gli aristocratici della corte di Luigi XV. 
Fragonard è un pittore nato, il suo stile fluido e arioso gli ha già conquistato una buona reputazione e gli ha fatto vincere, nel 1752, il prestigioso Prix de Rome che gli assicura la possibilità di studiare, in Italia, la grande pittura di storia sacra e mitologica.
Prima di partite, esegue questo dipinto, destinato originariamente a essere usato come soprapporta, traendo ispirazione dal cartone per un arazzo, creato dal suo maestro, Boucher, per la manifattura di Beauvais.
Con la sua rapidità di tocco, la leggerezza dei suoi colori, giocati per lo più, nella parte del cielo notturno, sui toni del grigio e del blu e, nella parte del terreno, sulle sfumature dell'ocra illuminate dal rosso del manto di Endimione, Fragonard trasforma il mito in una scena intima e galante.

In un ambiente che assomiglia più a un parco che all'aspra montagna greca dell'antica leggenda, la sua Diana ha la silhouette snella e slanciata delle più raffinate dame di corte,  e, come quelle, sembra esaltare il candore opalescente della carnagione con un tocco di fard rosse sulle guance.
Endimione, col corpo abbandonato nel sonno, appena ricoperto da un drappo vermiglio, sfoggia un accenno di basette e una chioma bionda a arricciata degna di un gentiluomo alla moda.



Il cane da pastore si trasforma in un tranquillo cagnone domestico che dorme pacificamente tra i fiori, mentre, in primo pano, non sfigurano nemmeno le pecore, con il loro vello morbido e dorato.
Quello rappresentato da Fragonard è un Olimpo di pastelli e di cipria che, certo, non stonerebbe tra le lievi volute dorate, le tenui tappezzerie e i ninnoli di un boudoir, il salottino privato, di una dama di buona nascita e di buone maniere.
E, soprattutto, è adatto a quella committenza di aristocratici, di ricchi banchieri o di signore eleganti che allora può garantire la fortuna di un artista e che preferisce una pittura garbata e senza pensieri, magari con l'aggiunta piccante di un pizzico di erotismo.

Un soggetto alla moda, uno stile disinvolto e veloce.
Tutto qui? No, perché Fragonard è un vero artista.

Al di là delle accuse di una frivolezza da Ancien Régime che gli vengono lanciate e che- dopo la Rivoluzione francese e fino alla morte, nel 1806- ne fanno un sopravvissuto e un isolato, quello che colpisce in questa tela, come in molti dei suoi dipinti, è la felicità di dipingere allo stato puro.
Quello che ancora affascina è la sua capacità di creare, con la sua "pittura ombreggiata d'azzurro e la sua tavolozza di nuvole" (Goncourt, 1865), un capolavoro di grazia e di leggerezza, delicato come una trina e lieve come un sorriso.







sabato 7 febbraio 2015

"Il cardellino" di Carel Fabritius




Una tavoletta di appena 33x18 cm, datata 1654, firmata Carel Fabritius e ora conservata al Mauritshius de L'Aia.


Sullo sfondo di una parete intonacata di un bianco luminoso, un cardellino è legato, con una catenella, a un trespolo formato da due semicerchi di legno e da una cassetta di un un colore grigio-azzurro.
Tutto qui.
Eppure anche questa immagine racconta una storia, anzi più di una. 
A partire da quella, lunga e intricata, di un recente libro di successo di Donna Tartt, che da questo dipinto ha tratto l'ispirazione, il titolo e l'immagine di copertina che ora campeggia negli scaffali di tutte le librerie (qui).
Un'altra storia, ovviamente, è quella dell'autore, anche se, in realtà, di Carel Fabritius (1622-1654) conosciamo ben poco. 
I documenti che ne parlano sono scarsi, mentre le opere arrivate fino a noi sono a mala pena una dozzina.
Quando dipinge il" Cardellino" ha lasciato, già da qualche anno, Amsterdam e lo studio di Rembrandt, di cui è stato uno degli allievi più promettenti. 
La voglia di far carriera e le vicende dolorose della vita (ha perso la prima moglie e due dei figli) lo hanno portato a Delft, una città ricca di canali e di commerci quanto di collezioni d'arte. 
Là, si è iscritto alla corporazione dei pittori e, da artista ambizioso qual è, si è saputo conquistare, da subito, una buona reputazione. 
Da Rembrandt ha appreso l'uso di un colore fluido e di una pennellate veloce, ma anche l'insegnamento, più volte ripetuto, di "seguire sempre la natura" e il desiderio di mettersi in gioco, cercando di rinnovare tutti i generi della pittura in cui si cimenta, dalla storia sacra, al ritratto, alla veduta di città, pur continuando ad analizzare la realtà in ogni suo aspetto.

Come in questo piccolo dipinto, dove la novità sta tutta nel soggetto. 
Qui non si tratta di provarsi in uno di quei temi che fanno la fortuna dei pittori dell'epoca, come le scene di interni o le nature morte, ma di creare, per la prima volta nella pittura olandese, una sorta di ritratto di un piccolo uccellino, a cui solo una catenella impedisce di volare: un cardellino di quelli costretti, nelle case del tempo, a far da giocattolo per i bambini o addestrati, per divertimento, ad attingere l'acqua da una tazzina con un minuscolo secchio tenuto nel becco. 
Un ritratto, dunque, da non confondere con l'illustrazione di un testo naturalistico, né  tanto meno con lo studio di un particolare da inserire in un dipinto più grande. 
Fabritius, qui, non lascia spazio ai dettagli, né adotta la minuziosità di certi acquerelli di Dürer, che pure sembra prendere a modello.
Invece, grazie a una pittura, insieme sintetica e attenta alla realtà, restituisce, con rapide pennellate, l'immagine dell'uccellino domestico, puntando sugli effetti della luce e di piccoli brillanti tocchi di colore per mettere in evidenza la mascherina rossa del capo o la striscia gialla dell'ala.
E, soprattutto, con un sapiente uso della prospettiva, conferisce alla composizione, vista da sotto in su, l'effetto di un quadro finito, anche nel caso in cui- come pensano alcuni studiosi- dovesse originariamente costituire lo sportello di un armadietto o un pannello inserito in una boisierie. 

Quello che sembra contare per lui è far assumere a un soggetto apparentemente banale la dignità di una grande opera,  che, per di più, possa essere firmata, utilizzando le stesse le lettere capitali di un'iscrizione classica. 
Al di là di ogni virtuosismo e di ogni effetto illusionistico, l'attenzione di Fabritius si posa, quasi con rispetto, su quel cardellino che, grande quanto il reale, occupa la scena da protagonista e non è più confinato nelle parti secondarie di un episodio sacro o profano (come qui). 
La sua è una pittura essenziale, affettuosa e partecipe, resa più veritiera da quell'ombra sfumata proiettata sulla parete e dai riflessi luminosi del legno del trespolo. 
Mentre il cardellino spicca su quel candido muro un po' sbrecciato che non sfigurerebbe, come sfondo, in un quadro di Vermeer, di cui, del resto, Fabritius sarebbe stato- stando alla letteratura critica- se non maestro, almeno precursore.
L'atmosfera intima e commossa della composizione fa sì che quel piccolo uccellino impaurito e prigioniero sembri diventare il simbolo stesso della fragilità, ma anche della crudeltà della vita. 

Nello stesso anno del dipinto, il 1654, in una calda mattina d'ottobre, l'esplosione di una polveriera scuote tutta Delft. 
Il gigantesco incendio che ne segue distrugge completamente il quartiere nord-est della città, con le sue case modeste, le sue dimore signorili e le sue chiese. 
Tra le macerie fumanti si contano più di cinquecento morti: tra questi c'è Carel Fabritius. 
Nella sua bottega, divorata dalla fiamme, sono andati perduti, insieme ai suoi sogni e alle sue speranze,  tutti i dipinti che stava realizzando.
Aveva, allora, trentadue anni.





domenica 1 febbraio 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio: febbraio



Siamo al primo di febbraio ed è l’ora di pubblicare la seconda immagine del calendario che ho scelto per quest’anno: gli arazzi con il ciclo dei mesi, commissionati, agli inizi del Cinquecento, dall'allora governatore di Milano, Gian Giacomo Trivulzio, e ora conservati al Castello Sforzesco di Milano.


Febbraio ha qui le sembianze di un uomo barbuto che, con una mano, indica il sole e con l’altra versa acqua da una brocca, in un gesto che ricorda il segno zodiacale dell'Acquario.
Lo sfondo è quello di un paesaggio, dove il freddo rigido dell’inverno, rende le montagne simili a blocchi di ghiaccio e spoglia  i rami degli alberi.
La scena è inquadrata da una cornice, in cui si ripetono gli stemmi dei Trivulzio e delle nobili famiglie ad essi imparentate.
Un altro grande stemma  dei Trivulzio, in alto al centro, domina tutta la rappresentazione, mentre, ai lati, sono raffigurati  il Sole e  il segno astrologico dei Pesci.
A sinistra, un uomo sta intagliando una grande fiaccola di legno. 
Sta praticando- con una mazzetta e uno scalpello- dei solchi lungo un tronco d’albero, per poi inserirvi i cunei già preparati a terra, che serviranno a mantenere aperte le incisioni e a far bruciare meglio il legno.
Intorno a lui, altri uomini reggono fiaccole già pronte e sembrano preparasi a un corteo

A destra, in basso, due fiaccole bruciano scoppiettando, mentre tre uomini seminudi si avvicinano al piedistallo di Febbraio.
Dietro, entro gruppo di figure variamente abbigliate, spicca una misteriosa donna con il volto coperto da una maschera traforata che assomiglia a un burka
Sul pilastro, a destra, compare la firma del tessitore: "Ego Beneditius de Mediolani/ Hoc opus feci co sociis suis in Vigli” vale a dire: "Sono io, Benedetto da Milano /quello che / ha fatto quest’opera con i suoi collaboratori a Vigevano";
Nella scritta traspare tutto l’orgoglio di chi sa di avere portato a termine una grande impresa. Febbraio è, infatti, l'ultimo mese del ciclo: l'anno a Milano- come in molte altre parti d’Italia-  comincia il 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione. 
Si concludono, dunque, così cinque anni (1504-1509) di duro lavoro, dalla tintura iniziale dei filati di lana e di seta, alle lunghe ore passate ai telai, senza pause e senza distrazioni.
Benedetto da Milano e i suoi collaboratori devono dimostrare che la manifattura di Vigevano, la prima a essere istituita in Italia, può competere con le  più famose arazzerie fiamminghe e che è in grado d tradurre più fedelmente possibile, i dodici cartoni, di ben cinque metri di lato, che Bartolomeo Suardi (1465 ca-1530) detto il Bramantino, ha consegnato loro nel 1501. 
Certo non deve esser stato facile per artigiani, poco avvezzi alla cultura classica, comprendere le dotte allusioni elaborate dal pittore e farle rinascere nei fili variopinti dell'arazzo.
Come nell'enigmatica scena di Febbraio, dove  l'artista ha sconvolto completamente l'iconografia, dei cicli dei mesi tradizionalmente legata alle attività agricole.
L'unica traccia che rimane delle fatiche dei campi è  nell'iscrizione del piedistallo”Per prata pingue distrhit/ pecus igni pabuum dat/ Hortosque stercorator et/ choreas ducit februarius” Febbraio disperde il  pingue bestiame attraverso i prati/dà alimento al fuoco (con la bruciatura delle  stoppie/ concima gli orti/ e apre le danze (di primavera)".

Al posto dei contadini al lavoro nelle fertili campagne di Lombardia, uomini e donne seminudi o vestiti all'antica, celebrano, con l’acqua e col fuoco, in una sala decorata di marmi, arcane cerimonie.
Lontano dalla bruciatura delle stoppie o della concimazione degli orti, descritte nell'iscrizione, Febbraio appare, piuttosto, come la personificazione del misterioso dio Februo, da cui, secondo la tradizione, avrebbe preso il nome. Protettore dei riti di purificazione era legato, nell'antica Roma, alla festa dei Lupercali celebrata alla metà del mese e in cui schiere di giovani, coperti solo di pelli di capra, correvano lungo il Palatino, colpendo gli astanti con le loro fruste al lume di grandi fiaccole.
Nel gelido mese di Febbraio, evocato dalla fervida immaginazione di Bramantino, questi riferimenti al mondo antico si intrecciano con rimandi all'Oriente, giovani seminudi si affidano alla protezione di un dio pagano, mentre una  donna sembra spiarli dal tessuto traforato di un burka. 
Utilizzando fonti letterarie poco note, mescolando astrazione e attenzione alla realtà più minuta, atteggiando le figure in gesti bloccati, conferisce a tutta la scena l'atmosfera sospesa di una rappresentazione sospesa nello spazio e nel tempo.
E così il suo mese di Febbraio arriva, mantenendo il suo fascino enigmatico e oscuro, fino a noi.





Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina Libraria 2012