sabato 12 febbraio 2011

L'endocosmo di Fosco Maraini.





Quante parole ha inventato Fosco Maraini !

Uno per cui le parole erano “un tesoro e una bomba ", ma, soprattutto, “una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e di delizie".

Ecco uno come lui, scrittore, viaggiatore, esperto di lingue e culture orientali, uno che ha scritto poesie come quelle della "Gnosi delle fànfole" (i miei amici ne parlano qui e qui) non poteva che inventare parole, anche quando si trattava di raccontare di sé nella sua autobiografia.

Perché - diceva lui e me lo immagino mentre lo spiegava con il suo bell'accento toscano - esiste un mondo di fuori, l' “esocosmo” - e tutti capiscono cos'è e poi esiste l'”endocosmo”, la proiezione del mondo di fuori dentro di noi. Che è quello che ci forma, quello che bisogna raccontare.

Occorreva davvero inventare una parola per questo? Sì, perché per definire la stessa cosa c'era solo un "termine difficile, una specie di ingombrante mobilone tedesco : Weltanschauung

E chi mai potrebbe usare una parolona simile al posto di “endocosmo”? Ecco com'era Maraini: se una parola non c'è la si inventa, che problema c'è?




E il mio mondo, il mio “endocosmo”, Maraini l'ha influenzato, eccome.

Ho già parlato, commentando un suo libro, del mio incontro con lui, una ventina di anni fa, quando decisi di fare un viaggio da sola in Giappone.
Nello zaino avevo portato due libri: la Guida della Lonely Planet e il libro di Maraini, Ore giapponesi, un testo di cinquecento pagine che pesava come un macigno.
Non l'ho mai rimpianto.

Era gennaio e non era facile affrontare la solitudine nelle camere glaciali dei ryokan di Kioto o di Nara.

Allora mi sedevo sul pavimento (nell'arredo tradizionale giapponese sedie non ce ne sono) e mi dicevo "Leggiamo cosa mi racconta Fosco ".
E Fosco mi trasportava nel suo Giappone infinitamente più bello e intatto del mio, mi raccontava di un paese difficile da comprendere, della mentalità, della storia giapponese, ma  mi diceva anche molto di sé, del suo “endocosmo”, della sua curiosità, del suo spirito toscano beffardo e dissacratorio. 

Raccontava anche episodi gravi, della guerra, ma tutto con un una leggerezza e con un garbo che erano già, di per se stessi, una lezione di vita.
Forse non è riuscito a farmi amare il Giappone, di sicuro è stato un esempio di come accettare la vita: con levità, con distacco ironico, con disincanto, con curiosità, con attenzione verso gli altri e con la voglia e la prontezza di rimettersi in gioco, sempre.

Quando, nel 2004, sono andata a rendere l'ultimo omaggio al “grande Fosco” a Firenze in Palazzo Vecchio mi sono stupita- ma non più di tanto- nel vedere il Salone dei Cinquecento pieno di persone per cui era diventato un amico, un compagno di vita.

Ci aveva cambiato l'"endocosmo" a tutti e sono sicura che lo sapeva.






Fosco Maraini recita " Il giorno ad urlapicchio"
http://www.youtube.com/watch?v=aVdndkjsoyk&feature=player_embedded



martedì 8 febbraio 2011

Le caramelle alascane di Paolo Conte




Alla fine l'ha dovuto ammettere Paolo Conte che le "caramelle alascane" se l'era inventate.

Ma, prima, quante ipotesi, quante ricerche, quante richieste, senza risposta nelle drogherie vecchiotte, quelle d'una volta, quelle che quasi non esistono più.
Banditi ovviamente i supermercati dove- si supponeva- Paolo Conte non sarebbe mai entrato in cerca d'ispirazione.
E i filologi a riflettere, a ipotizzare sull'origine della parola (alascane da Alaska, caramelle ghiacciate, da grande freddo?) e i più poetici, invece, ad associarle con gli occhi da lupa della cassiera, a supporre una voce arrochita dal fumo delle troppe sigarette e a presumere un bisogno di pasticche lenitive, là nel buio claustrofobico della pista da ballo, dove le luci saettavano e il ventilatore da soffitto ronzava, immenso.

L'altra, la cassiera con il volto da pechinese, non masticava caramelle.
No, lei fumava al mentolo.
Le "caramelle alascane" evidentemente si consumavano più tardi, quando la stanchezza arrivava più greve e il rumore dei sax continuava implacabile sempre più forte, mentre i due rimasti là, soli, sulla pista, non avevano bisogno né d'attenzione, né di consigli.

Quante ipotesi, quante fantasie sulla cassiera, con i suoi occhi divoranti da lupa, la donna che resta nell'ombra, in silenzio, masticando lentamente caramelle: le caramelle alascane.
Una parola che evoca la menta, l'eucalipto, un gusto ghiacciato, che la trasporta lontano dal buio di una sala da ballo di periferia.

"Uso un lessico di mia invenzione.... mi è sempre piaciuta l'enigmistica": dice Paolo Conte in un'intervista.
Ogni parola di ogni sua canzone lascia immaginare un mondo. 
Poco importa se le parole esistano davvero o no.

E chi ha creduto, chi ha cercato le caramelle, chi ha scritto perfino all'Ambrosoli o alla Dufour per avere chiarimenti?  
È stato un equivoco.
Con i mondi dei poeti a volte succede.


Paolo, Conte, Boogie

Due note e il ritornello era già nella pelle di quei due

il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo...
i sax spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga
e la canzone andava avanti sempre più affondata nell’aria..
quei due continuavano, da lei saliva afrore di coloniali
che giungevano a lui come da una di quelle drogherie di una volta
che tenevano la porta aperta davanti alla primavera…
qualcuno nei paraggi cominciava a starnutire,
il ventilatore ronzava immenso dal soffitto esausto
i sax, ipnotizzati… dai movimenti di lei si spandevano
rumori di gomma e di vernice, da lui di cuoio…
le luci saettavano sul volto pechinese della cassiera
che fumava al mentolo, altri sternutivano senza malizia
e la canzone andava elegante, l’orchestra era partita, decollava...
i musicisti, un tutt’uno col soffitto e il pavimento,
solo il batterista nell’ombra guardava con sguardi cattivi....
quei due danzavano bravi, una nuova cassiera sostituiva la prima,
questa qui aveva gli occhi da lupa e masticava caramelle alascane
quella musica continuava, era una canzone che diceva e non diceva
l’orchestra si dondolava come un palmizio davanti a un mare venerato
quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare....
un quinto personaggio esitò
prima di sternutire,
poi si rifugiò nel nulla...
era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti


http://www.youtube.com/watch?v=FUxrJAM9px0&feature=kp


sabato 5 febbraio 2011

Fernand Khnopff, Ritratto di Marguerite







Una donna, giovane, vestita di bianco, sullo sfondo di una porta chiusa. 
È vista di fronte e non sembra poggiare per terra, perché l'immagine è volutamente tagliata in basso, in modo che non si vedano i piedi.
È completamente vestita: anche le mani sono coperte dai guanti.
Porta un corpetto stretto, chiuso al centro da una cucitura evidente, il colletto dell'abito è rialzato, i capelli sono raccolti.
Ci appare avvolta nel vestito come in una corazza, algida e inaccessibile. 
Niente di lei si intravede se non il volto, girato di tre quarti, che sembra voglia sfuggire al nostro sguardo.
Immobile e statica, in una posa che la irrigidisce, è completamente assorta nei suoi pensieri.

È il ritratto di Marguerite Khnopff. 
La data è il 1887. 
Il pittore è il fratello, Fernand, uno degli esponenti più noti del Simbolismo belga.
Quello che Khnopff e i pittori simbolisti vogliono esprimere nei ritratti non è l'apparenza, ma lo spirito della persona, tanto da definirli dei veri e propri paesaggi dell'anima. 
Per loro i simboli devono essere espliciti: la porta chiusa, il corpetto stretto, cucito, l'abito bianco evocano una purezza inviolabile e inviolata. 

È così che Khnopff vuole rappresentate la figura ideale di una donna disincarnata, “angelica”, asessuata: uno dei tipi femminili dell'immaginario degli artisti simbolisti, insieme e in contrasto, con quello della “femme fatale”, attraente e pericolosa.

Ma, come succede con tutti i capolavori, il dipinto rivela molto di più di quello che il pittore si era proposto.
Fin dalla prima volta che l'ho visto, al Museo di Bruxelles, mi è parso che la donna rappresentata, Marguerite, nascondesse una sofferenza inespressa, un dolore tacito.
Suggestione, forse, perché quando si legge la storia di Fernard Khnopff si apprende del legame ossessivo che lo lega alla sorella. 
È lei che ritrae sempre anche nella veste di personaggi storici o mitici.
È lei che raffigura nei disegni e che riprende nelle fotografie. 
È con lei che stabilisce una relazione morbosa, così stretta da escludere il resto del mondo.

La pesantezza di questo legame la si avverte nella malinconia e nella sensazione di un silenzio obbligato, di un riserbo imposto che avvolge la figura.
Certo il pittore cerca di depurare, quasi di censurare,  il groviglio di sentimenti in un'immagine raffinata, studiata.
Cita il precedente della “Dama in bianco” di Wishtler nella figura femminile che contrasta con lo sfondo geometrico delle porte sovrapposte o nel gioco sottile delle tonalità grigie e bianche, appena ravvivate da pochi tocchi di beige e dall'oro del medaglione a lato della porta.

Ma, al di là dei riferimenti, quello che si percepisce è la sensazione di un'ambiguità, di un disagio, per cui sentiamo nella donna del ritratto, qualcosa che tocca la nostra sensibilità, i nostri sentimenti, che supera la nostra indifferenza di spettatori e ci colpisce nel vivo, dritto al cuore.



….e quando il cuore viene colpito, si cerca il conforto di un'amica capace di leggere dentro il volto, dietro le parole, oltre quella porta chiusa. Inaspettato e sorprendente, ecco cosa mi ha raccontato:


Cara amica,
il silenzio obbligato, il riserbo imposto e l'ambiguità: questo vedo nella splendida raffigurazione che mi stai donando. Sono per me gli aspetti decisivi attorno a cui il pittore si muove, delineando un ritratto che fa emergere sensi solo apparentemente convergenti.

Il colore bianco simboleggia la purezza ma può essere anche il non-colore espressione di un vuoto da riempire di fantasie, emozioni o paure. La luce pervade il dipinto, ma lo sguardo della ragazza ci racconta di un pensiero cupo, di qualcosa che succede al di là del visibile.
È un racconto per assenza, più che un racconto per presenza. La porta è chiusa, ma che mondo nasconde quella porta? Il vestito bianco ed accollato copre quello che si intuisce un corpo snello, due seni adolescenziali. Quale il mondo sotto il vestito?

Il braccio infilato dietro la schiena, la posizione ingessata e statica, l'assenza anche di un'ipotesi di movimento mette la giovane in una sorta di 'esposizione' alla vista dell'altro. Un manichino esibito a cui è stata tolta l’anima. Ben diversa da quella “Dama in bianco” di Wishtler con i capelli sciolti, le braccia mollemente affiancate ad un corpo su cui poggia un vestito bianco e che esprime nello sguardo limpido un senso di pace.

Il vestito di Marguerite pare invece ‘ scolpito’ su un corpo sequestrato. Il senso del sequestro lo dà quello sguardo privo di speranza. Fosse triste, farebbe pensare al rimpianto di qualcosa che poteva essere e non è stato, pare invece uno sguardo vuoto di chi non può immaginare nient’altro che la prigionia.
E chi è il carceriere se non il fratello/pittore/padrone che si è impossessato dell’anima e dell’eros di Marguerite?

La scelta di infilarle lunghi guanti di pelle, così arbitraria e provocatoria in questo dipinto, pare essere stato il modo di sequestrare anche la più piccola parte di pelle della sorella. Pelle di animale al posto della pelle di un corpo vivo.
E sul viso, unica parte scoperta, un “burqa” psichico: l’immobilità e la disperanza.
Come se il pittore volesse dire: il corpo vero, quello vivo, lo conosco e lo possiedo solo io. Gli altri ne ammirino il simulacro!
Incesto? Probabilmente, no! L’agito del fantasma incestuoso fa scorrere distruttività ma anche energia, a cui ci si può sottrarre con un grido disperato proveniente dal profondo del corpo. Se d’incesto si trattasse con ogni probabilità il dipinto avrebbe tradito una forza erotica che qui è completamente assente.
Più probabilmente un clima incestuale, dove il fantasma rimane tale, non viene agito ma tutta la relazione è invasa e parassitata dall'ombra del dominio del fratello che in nome del possesso sequestra l’anima.
Roberta





mercoledì 2 febbraio 2011

I punti- premio.




Come il Gregor Samsa di Kafka, o il dottor Jekill di Stevenson, anch'io sento che  dentro di me è  in atto una metamorfosi.



Tutto è cominciato  appena rientrata in Belgio, quando mio marito mi ha detto: "Ancora cinquecento punti del supermercato e riusciremo ad avere una pentola a pressione”. 
È stato l'inizio. 
Ho  sentito subito che quella pentola doveva essere mia, a ogni costo. 
So che non la userò mai, so bene che per averla occorreranno spese per almeno tremila euro, ma il richiamo dei punti premio è irresistibile.

È un virus: mi ha contagiato, qualche anno fa, quando, mangiando innumerevoli pacchi di "Frollini" e di "Morbidi abbracci", arrivai ad aggiudicarmi un raffinato quanto inutile set da colazione- compreso di fornetto scalda brioches- del Mulino Bianco.

L'uomo nasce cacciatore e raccoglitore, lo dicono gli antropologi. 
E quello della raccolta deve essere davvero un istinto primordiale, se si dice che perfino l'austera Marguerite Yourcenar dedicasse le pause della scrittura a riempire album di bollini.

Pullulano i mercatini, virtuali, destinati a favorire gli scambi di punti, dove gli annunci- sintetici e abbreviati- acquistano per i non addetti ai lavori un sapore surreale. 
Agli ignari di Friskies e punti Total lo scambio "Cibo gatto per benzina" può provocare l'improvvisa visione di felini motorizzati, mentre quello di "Centrale latte con Mulino" arriva ad evocare piani di riconversioni nel settore agro-alimentare. 
Meglio non indagare, poi, da  quali insondabili pulsioni derivi il ”Cedesi Pampers per Pizza Hut

Devo ammettere che ho sempre cercato di oppormi con tenacia a ogni richiamo dei punti.
Conosco bene la frenesia e la smania che mi prende. 
Temo che per accumulare bollini sarei capace di qualsiasi bassezza.
Però so, per antica esperienza, che le parole "punti premio", una volta pronunciate, si insinuano subdolamente dentro di me e fanno riemergere alla superficie l'istinto primitivo e mai sopito della "caccia".

La metamorfosi è irreversibile
Ho già selezionato i prodotti che danno più punti: sono disposta a comprare salse tandoori preparate in Belgio, formaggi "feta" danesi e perfino corrosivi yogurt bulgari.
La preda è là. Lo so, mi aspetta. 

Sono pronta.