lunedì 28 maggio 2012

L'oro e il tridente: il furto della saliera di Cellini (1)






L’11 maggio del 2003, di prima mattina, il Kunsthistorisches museum,  il più grande museo di Vienna, è ancora chiuso.
Gli addetti alle pulizie stanno svolgendo il loro solito lavoro. Quando entrano in una sala del primo piano si rendono  subito conto che è successo qualcosa di grave: una finestra è stata forzata e, sul pavimento, ci sono vetri dappertutto. Una teca è stata infranta e l’oggetto d’oro che conteneva, il più prezioso della sala e, forse, del museo, non c’è più. È stato rubato.

Scatta immediatamente l'allarme: il furto è clamoroso.
È stato portato via  uno dei pezzi  più celebri, un’opera che compare in tutti i manuali di storia dell’arte, quella che il direttore del museo, nella conferenza stampa prontamente convocata, definisce  "la Gioconda dell’oreficeria".
È stata rubata  la "saliera di Francesco I".




Siamo intorno al 1540  e Benvenuto Cellini (1501-1571) si è rifugiato al servizio del re di Francia, a Fontainebleau;  a Roma, per lui, l’atmosfera si era fatta incandescente. 
Un’ennesima rissa finita male e- si dice- qualche sospetto di malversazione nella gestione dell’oro pontificio,  lo hanno convinto a cambiare aria. All’epoca è un artista famoso;  è noto per  essere capace di grandi prodezze tecniche, ma anche  per un caratteraccio indomabile e una fama indiscussa di attaccabrighe. 
Si è formato a Firenze, come orafo e scultore, e il suo talento è stato subito riconosciuto, ma, dopo una delle tante condanne per rissa,  si è dovuto trasferire nello Stato pontificio, sotto la protezione del papa Medici, Clemente VII. Anche a Roma nessuno nega le sue qualità: è un artista completo per tecnica e inventiva, è a capo di una bottega prestigiosa, è conteso da committenti illustri ma, soprattutto, ha una grande coscienza del proprio valore. Per le male lingue è un presuntuoso, pieno di sé.   

Basta leggere la sua autobiografia, la prima scritta da un artista, un romanzo di avventure vero e proprio, per essere catapultati di peso nella sua vita. 
E che vita! 
Una carriera straordinaria, relazioni con i personaggi più importanti del secolo, con cui tratta alla pari, lusso, feste, ma anche  fughe, delitti, gelosie e tradimenti. E sempre con  l’idea fissa di passare alla posterità come un genio universale, il solo capace di superare la fama di Michelangelo. 
Ogni sua opera, ogni sua creazione dovrà essere eccezionale, una vera e propria impresa.

È così per la saliera: anche l'esecuzione di un oggetto d’uso, sia pure di lusso, è diventata per lui una sfida. All'epoca le suppellettili di materiali preziosi, destinate ai banchetti oppure a ornare le credenze, veri trionfi d’oro e d’argento, erano, più che una moda, una mania. E su tutte spiccavano i contenitori del sale, elemento raro e costoso, e del pepe, la spezia importata dall'Oriente
Benvenuto Cellini di saliere ne aveva già eseguite, di porfido, d’argento, in forma di vasi o di bacini. Non gli bastava. Aveva già cominciato a progettarne una  che "arebbe dovuto uscir dall’ordinario", a Roma, per il Cardinale Ippolito d’Este. Ma il committente si era lasciato scoraggiare dalla spesa. Il costo era improponibile anche per un principe della Chiesa in vena di grandezze. Un’opera simile - si sarebbe giustificato- era degna solo di un re.

E, ora, in Francia, un committente regale, Cellini ce l’ha davvero, "unico e liberalissimo", come lo definirà. 
Francesco I lo ammira ed è disposto ad accordargli tutto quello che vuole, compreso uno stipendio più che generoso;  l’oro, per lui,  non è un problema e, per fornirglielo, ha fatto fondere ben mille monete della sua zecca.
Cellini ha deciso di fare della sua saliera un raffinato "monumento da tavolo", capace di sbalordirlo e di fargli capire che  è pronto anche per altri e più grandi progetti. 

Intanto dimostrerà la sua perizia e lo farà da par suo.  A usare la tecnica consueta della fusione non ci pensa nemmeno. Lavorerà, invece, la foglia d’oro a cesello. E non sarà cosa semplice. 
Sull’iconografia, poi,  non ha dubbi. Ha respinto, già ai tempi di Ippolito d’Este, i colti suggerimenti dei letterati, rivendicando all’artista la capacità non solo di  "fare", ma anche  di elaborare idee.  

Ed ecco che il suo progetto prende forma.
Una piccola scultura, alta appena 26 centimetri, su una base ovale, di una straordinaria ricercatezza di riferimenti artistici e culturali. E preziosa come un gioiello: d'oro, di smalto, ebano e avorio.

Il sale sarà dispensato dal mare, Nettuno, mentre  il pepe, dalla terra, Gea. Le due figure nude saranno sedute, l'una di fronte all'altra e- per usare le sue stesse parole-   "con le gambe che si intramettevano, sì come entrano certi rami di mare infra la terra e la terra infra del detto mare". 






Nettuno, trasportato da quattro cavalli impugna il tridente e stringe in una mano un ciuffo d’alghe. 
Emerge da onde di smalto azzurro, popolate di pesci e creature marine. 
Il sale è contenuto in un galeone finemente lavorato e ornato di grotteschi mascheroni.









La Terra, incoronata da una ghirlanda di fiori e frutti, siede su un elefante schiacciato fino a formare un bizzarro cuscino, ornato da un drappo blu con i gigli d’oro, emblema del re di Francia. Intorno è un prato fiorito di smalto verde, circondata "dai più belli animali terrestri", tra cui un cane e una salamandra avvolta dalle fiamme. 
Con una mano si spreme il seno ricco di latte, simbolo evidente di fertilità e, con l’altra, regge una zolla fiorita. 
Il contenitore del pepe è un tempietto ornato di sculture.





Nella base di ebano sono incassate quattro piccole figure. Sono un omaggio a quelle di Michelangelo nella Cappella Medicea: la notte, il giorno, il crepuscolo e l’aurora. Si alternano a medaglioni con i busti dei quattro venti dalla guance rigonfie e ai simboli del mare (una vela, un’ancora, la barra di un timone..) e della terra (una falce, due cornucopie, strumenti musicali...).
Quattro piccole ruote in avorio, successivamente scomparse, consentivano alla saliera di essere trasportata da un punto all’altro del tavolo.

Benvenuto Cellini ha avuto ragione: la saliera sarà un vero e proprio trionfo. 
Una meraviglia, dove si univano elementi simbolici, lusso, eleganza e bizzarria,  un’opera degna di Francesco I e dei suoi cortigiani "che non si potevano saziare di guardarla". 
Era, davvero, il capolavoro che gli avrebbe assicurato la fama. 
Successive vicende avrebbero portato il prezioso oggetto nelle collezioni degli Asburgo e, poi, al Museo di Vienna.

Per essere rubato nella notte dell'11 maggio 2003.  
Ma chi può averla presa ? Nei titoli dei giornali si parla già del "furto del secolo"
Si suppone che sia stato un ladro abilissimo, una specie di  Arsenio Lupin o, addirittura, una banda super organizzata. 
Qualcuno, come di consueto, ipotizza il furto su commissione del solito ricchissimo collezionista, avido di contemplarla in solitudine in un suo segreto nascondiglio. Qualcuno parla  di un ricatto internazionale o di una richiesta di riscatto. 
Il valore assicurato è di cinquanta milioni di euro: una cifra da capogiro.

Le ipotesi sono tante. Quello che è sicuro è che la saliera nel museo non c’è più.
La polizia austriaca comincia a indagare, l’Interpol è già stata avvertita. 
A questo punto non resta che aspettare.





(continua)


giovedì 10 maggio 2012

William Turner: l'ultimo viaggio del veliero





Ci sono dipinti che non stancano mai.
Oggi ho ritrovato, per caso, una cartolina di qualche anno fa e mi sono ricordata dell’emozione che ho provato, quando l'ho visto finalmente dal vivo, alla National Gallery di Londra:




"La valorosa Temeraire" è il titolo. William Turner (1775-1851) è l'autore.
La Temeraire, varata nel 1798, un veliero di un buon legno di quercia, con un equipaggio di settecentocinquanta marinai e armata con ben ottantotto cannoni, era stata una nave gloriosa.
Aveva combattuto, nel 1805 a Trafalgar, la battaglia, in cui era morto l'eroe nazionale, l'ammiraglio Nelson, e aveva contribuito ad assicurare all’Inghilterra la vittoria sulla flotta di Napoleone.

È il 1839, sono passati più di trent'anni da quell'evento e, benché la memoria sia ancora viva, la decisione, è stata presa: la nave deve essere demolita e farà il suo ultimo viaggio sul Tamigi.
Gli articoli e le poesie, pubblicate per accompagnarla all'ultima destinazione, sono venati di rispetto e di nostalgia.
William Turner  è probabilmente tra quelli che assistono al passaggio del veliero e che gli rendono omaggio.
Otto mesi dopo, presenterà alla Royal Accademy la tela dipinta per l’occasione

All'epoca ha più di sessantanni e ha già compiuto gran parte della sua carriera. Ha scelto, fin dall'inizio  di diventare un pittore di paesaggi e, dopo una prima formazione accademica, ha viaggiato in tutta Europa.
L’influenza della cultura romantica, insieme a quella dei grandi paesaggisti del passato- primo fra tutti Claude Lorrain- lo ha condotto a uno stile, dominato dallo studio della luce. La voglia di rendere in pittura  i riflessi luminosi del colore lo ha portato alla dissoluzione della forma in una nebulosità che lui stesso definisce  "una foschia o una bruma".

La precisione della rappresentazione lo interessa sempre meno e i contrasti netti, che usava all'inizio sembrano sfumare dietro un velo.
"I suoi dipinti non sono che acqua saponata e latte di calce": dirà un critico dell’epoca.
No. Quei dipinti, invece, sono ben più che una descrizione: sono l'evocazione di uno stato d’animo, di un sentimento.
Anche in questa occasione Turner non si preoccupa di raffigurare l’esattezza dell’evento, ma di renderlo emotivamente e trasforma quello che vede in una sorta di scenografia teatrale.

Le rive del fiume sono appena accennate.
Il veliero, che si lascia alle spalle il sole al tramonto, in realtà, era stato completamente disarmato, smantellato e privato degli alberi e delle vele. Turner, invece, lo raffigura ancora intatto, in tutta la sua potenza e ne fa una specie di "vascello fantasma" d'argento e d'oro, che solca lentamente e silenziosamente le acque del Tamigi.
La bandiera bianca, issata sul pennone, è il simbolo della sua resa all'inevitabile demolizione.

All'orizzonte, lieve come un’apparizione, si distingue un altra nave con le vele spiegate. Una falce di luna illumina i due velieri con la sua luce argentata e, riflettendosi nella schiuma della scia, accentua il chiarore dell’acqua.
Non ci potrebbe essere contrasto più forte col rimorchiatore a vapore che, come un’informe prosaica massa nera, trascina la romantica vecchia nave da guerra verso la sua fine.

La luce dell’acqua e del cielo è resa con raffinatissime sfumature e con sottili pennellate bianche, stese sopra le tinte più scure dei blu, degli arancio e dei rossi,  per rendere più trasparenti i riflessi della luce.
Su tutto domina un tramonto rosso sangue, che evoca le vittime della grande battaglia di Trafalgar, ma che, insieme, simboleggia il tramonto di un’epoca.
La fine della Temeraire segna anche quella della gloriosa tradizione della navigazione a vela, sotto l’incalzare della nuova tecnica del vapore. 
Di navi così non se ne faranno più.

La luminosità vibrante, lo straordinario equilibrio della composizione, il tono da  visione romantica fanno di questo dipinto la metafora della fine  di un periodo.
Il quadro, presentato da Turner, fece un enorme successo all'esposizione della Royal Academy.
La folla si accalcava commossa per vederlo.
Un grande scrittore William Tackeray, che sarebbe diventato celebre di lì a poco con il romanzo  "La fiera delle vanità", si domandava che cosa ci fosse di così commovente in un "una tela con un veliero trainato da un rimorchiatore, un fiume e un tramonto".
La sua risposta, in fondo, è semplice:  la vera arte ci mostra qualcosa che va ben  oltre  la rappresentazione.

In effetti, ciò che Turner raffigura è  molto di più della demolizione di un vecchio veliero. 
C'è qualcosa in questa tela che colpisce e che commuove. E che ha spinto gli spettatori della BBC, a decretarlo, nel 2005, "il miglior quadro della Gran Bretagna".
Basta lasciarsi guidare dall'emozione, per scoprire che quello che si svolge nel dipinto, sotto i nostri occhi, non è solo l’ultimo viaggio del Temeraire, ma il percorso stesso della vita.
Ed è il nostro tempo quello che passa e che svanisce nella luce soffusa di un tramonto.





Attualmente alla National Gallery di Londra c'è la mostra "Turner inspired: in the light of Claude" sui rapporti tra Turner e Claude Lorrain: il link è QUI.

domenica 6 maggio 2012

M.G.Benoist, "Ritratto di una donna nera": la storia di due donne




A Parigi, nella primavera del 1800, si avverte una grande eccitazione. L'edizione annuale del Salon, l'esposizione ufficiale di belle arti, è stata appena inaugurata: è la prima, da quando Napoleone Bonaparte ha iniziato, con la nomina a Console, la sua irresistibile ascesa politica.
Mai come questa volta, le sale sono affollate: raffinati gentiluomini e signore alla moda, si fermano perplessi davanti a un dipinto. Nell'aria c'è odore di scandalo.

Dopo la Rivoluzione, anche le donne sono state ammesse a esporre. Ed è proprio una pittrice, Marie-Guillemine Benoist (1768-1826), a presentare il quadro che ha fatto scalpore. Chi si attendeva da lei tipici ritratti femminili, dame eleganti o scene con mamme e bambini paffuti,  è rimasto sconcertato.
Perchè il dipinto, di cui si parla tanto, è questo:



Una giovane donna, vista di tre quarti, è seduta su una sedia "a medaglione", rivestita da un tessuto blu, riccamente drappeggiato, in una posa riservata ai ritratti delle dame dell'alta società.
Indossa una specie di tunica dalla foggia classica allora in voga, stretta in vita da una sottile cintura rossa. Lo sfondo è spoglio, il tono austero, la presenza di accessori ridotta al minimo, come nei ritratti alla moda di Jacques-Louis David.

Una rappresentazione influenzata dallo stile del pittore più celebre del tempo: fin qui niente di straordinario. 
Il fatto sconvolgente è che la donna è nera.

Fino ad allora, i neri erano stati rappresentati come paggi o servitori per dare un tocco di eleganza esotica ai ritratti dei loro proprietari, se non addirittura, come schiavi in catene. È vero che, nel Salon di  due anni prima,  il ritratto di un nero aveva riscosso gran successo, ma lì si trattava di  un noto deputato della Convenzione, il primo proveniente da Santo Domingo.

Qui è decisamente un'altra cosa. È una donna nera qualsiasi e, in più, raffigurata come fosse una signora. Non c'è da stupirsi che qualcuno la trovi inaccettabile. I più colti e tradizionalisti rimproverano alla pittrice di aver scelto un soggetto che contravviene alle più elementari regole accademiche.
"Le sujet noir et la couleur noire est un exercice rebelle a l'art de la peinture, Il soggetto nero e il colore nero è un esercizio contrario all'arte della pittura": citano a memoria. E lei, invece, ha messo in evidenza proprio il colore della pelle, giocando sul contrasto tra il nero e il bianco immacolato della veste. 

E, poi, ha scelto come titolo "Portait d'une negresse, ritratto di una negra" 
Anche se allora, lontano dai tempi del "politicamente corretto", il termine "negresse, negra " non aveva alcun senso peggiorativo, serviva, comunque, a ribadire l'anonimato della modella e a puntare tutto sul connotato razziale. 

Invece, per la pittrice, la giovane non era una sconosciuta e questo non era un ritratto di fantasia. Si diceva che la modella fosse una domestica al servizio della famiglia, portata in Francia dalla Guadalupe. 
Una domestica, però, non una schiava.
La schiavitù era stata abolita, appena sei anni prima, con una legge a lungo contestata dai proprietari delle piantagioni dei territori oltremare, convinti di non sopravvivere senza manodopera a costo zero. La tratta di schiavi dall'Africa era stata tacitamente mantenuta: i neri erano considerati, comunque, degli esseri inferiori.

Nel dipinto, no. L'ex schiava è raffigurata con dignità, sensibilità e attenzione  ai sentimenti: nel volto non è difficile leggere la malinconica rassegnazione e la vulnerabilità di chi è costretto a vivere in un mondo estraneo.
Non si pensava nemmeno che una pittrice potesse abbordare temi di critica sociale. Eppure ha inserito un' allusione alla legge contro la schiavitù nel copricapo, che ricorda, sia l'acconciatura tipica delle donne antillane che il berretto frigio dei rivoluzionari. E poi i colori, bianco, rosso e blu, sono quelli della bandiera della Francia, il paese che, almeno nominalmente, ha portato la libertà.


Non basta: i visitatori appassionati di pittura non possono non cogliere un altro elemento.

Il seno nudo non ha niente di malizioso, anzi. Insieme alla posizione delle mani e allo sguardo diretto verso lo spettatore, è un riferimento preciso a un dipinto celeberrimo: la "Fornarina" di Raffaello.

Una domestica, una ex schiava nera, nobilitata dal richiamo a una tradizione pittorica illustre.
Ce ne sono  di motivi di scandalo.

E la pittrice non può ignorarli.




Non è alle prime armi: ha più di trent'anni e una lunga carriera alle spalle. Figlia di una famiglia di piccola nobiltà, ha iniziato a dipingere nello studio di una ritrattista famosa, Elisabeth Vigé-Lebrun. 
Durante la Rivoluzione ha cessato ogni attività  ed è sopravvissuta a stento, nascosta per sfuggire alla ghigliottina, insieme al marito aristocratico e convinto realista. Ma ora la paura è finita. È ambiziosa e, dopo che ha avuto la possibilità di frequentare l'atelier di David e di esporre al Salon, vuole ottenere la sua affermazione pubblica.

Nella primavera del 1800 le vicende delle due donne si intrecciano: la modella non è più schiava e la pittrice  può esercitare il suo mestiere. 
C'è  empatia e comprensione: entrambe  si sentono, finalmente, libere.

Il dipinto, malgrado qualche aspro giudizio negativo, è un trionfo.
Il pubblico più illuminato vi vede un manifesto dell' emancipazione dei neri e delle donne. Molti lo condividono.
È un clima di entusiasmo, che non  durerà a lungo.
Due anni dopo, nel 1802, Napoleone cederà alle pressioni dei grandi proprietari di piantagioni e la schiavitù verrà ristabilita.
La represssione sarà feroce.

Tra le due donne, a questo punto, si aprirà un abisso. 
Non sappiamo quale sarà la sorte della giovane del ritratto; probabilmente continuerà a rimanere al servizio della famiglia, come schiava e per tutta la vita.
Marie-Guillemine Benoist sarà riassorbita nel conformismo dell'alta società e diventerà la ritrattista ufficiale della famiglia Bonaparte. Finirà per rinunciare alla pittura, un'attività giudicata poco consona alle cariche pubbliche sempre più importanti, assunte dal marito.
Entrambe  rientreranno nei loro ruoli: il breve momento, che le ha viste unite e uguali, è finito.



Il dipinto sarà acquistato dallo Stato francese nel 1848, quando la schiavitù verrà finalmente abolita e ora è esposto al Louvre. Tutta la storia del dipinto è trattata in dettaglio QUI.

martedì 1 maggio 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Maggio





Ben venga maggio
e il gonfalon selvaggio.
Ben venga primavera
che vuol l'uomo si innamori...
(A.Poliziano)



I versi di Folgore da san Gimignano o quelli di  Poliziano, il cantare maggio o il calendimaggio, che celebrava con poesie e canti la rinascita della primavera, cortei nelle campagne, fiori gettati dalle finestre per le vie delle città: maggio è un mese che,  tra Tre e Quattrocento, piaceva ai poeti e a chiunque avesse la poesia nel cuore.
Maggio era il mese delle feste.
Il quinto foglio del calendario delle “Très riches heures du duc de Berry" ne è la prova:



Nella lunetta, che sovrasta la scena, il carro del sole passa nel cielo con i segni astrologici del mese: Toro e Gemelli.
Siamo nel primo giorno di  maggio di sei secoli fa, in aperta  campagna, nel nord della Francia. Sullo sfondo di un bosco, con alberi dalle chiome frondose e dagli esili tronchi, si svolge il corteo di primavera.
Un gruppo di giovani, preceduti da araldi con le trombe, e accompagnati da impazienti cagnolini, partecipa all'abituale cavalcata, con ornamenti di rametti e di foglie verdi sulla testa e attorno al collo.

Il “gai vert”, il verde allegro, come era descritto nei documenti, è il colore tipico del mese.
Verdi sono le bardature dei cavalli, che mostrano, in evidenza, l’emblema della casata dei duchi di Borbone con un cerchio d’oro attorniato da sette piccoli dischi.

Verdi sono le vesti delle dame.

Il verde non era un colore facile: quello ottenuto con i coloranti più poveri era instabile e rischiava di svanire e schiarire velocemente. Gli abiti delle giovani, invece, dovevano richiamare il verde brillante  della primavera e di una natura nel suo pieno rigoglio.
Per questo, nelle corti, c'era l'usanza di donare alle dame, che volevano partecipare alla festa, costose vesti già colorate con un bella tinta verde, che si definiva “livrée de mai, livrea di maggio”.
E mi piacerebbe pensare che derivi proprio da questa, il nome di un verde, il “verde- maggio”, che ho trovato classificato nella scala dei colori.

Un verde prezioso che potremmo immaginare, senza difficoltà, nel guardaroba di una principessa.
E sono, appunto, principesse, quelle raffigurate nella miniatura dei fratelli de Limbourg.
La giovane con l’acconciatura bianca "a corna" e il sontuoso abito, foderato di blu e d’oro, è, probabilmente, Marie de Berry, figlia del duca di Berry e sposa di Jean di Borbone.
Jean è il cavaliere vestito di rosso, con un mantello metà bianco e metà nero, i colori della famiglia dei  reali di Francia, con cui è imparentato.
Anche l’insegna con lo scudo d’oro, portata dagli araldi, si riferisce alla famiglia Borbone.
Quello rappresentato è, dunque, un corteo, a cui partecipano gli esponenti della più alta aristocrazia.

La ricchezza e la posizione sociale dei cavalieri è confermata dai castelli raffigurati sullo sfondo. Sono, probabilmente, due edifici di Parigi, il palazzo della Cité e lo Chatelet, legati, sia ai possessi del duca di Berry, che al prestigioso matrimonio tra Marie e Jean, celebrato proprio a Parigi, nel 1410.

Fossimo in un film, i tetti d'ardesia, le torri merlate, le guglie, le banderuole sarebbero lo sfondo giusto per valorizzare i particolari  delle vesti attillate, delle lunghe maniche "ad ali", delle bardature dei cavalli, del verde delle fronde tra i capelli e delle eleganti divise degli araldi, che celebrano il trionfo della primavera.
Come colonna sonora, invece, potremmo immaginare di sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli, il suono delle trombe e le strofe della canzone tradizionale, intonata dalla lieta brigata di amici: “C'est le mai, c'est le mai, c'est le joli mois de mai. È maggio, è maggio è il bel mese di maggio!”.

L'ambientazione è perfetta  per un racconto di principi e di principesse. 
Tanto è vero che  sono proprio  il lusso e la raffinatezza della corte del duca di Berry ad aver fornito gli sfondi più adatti  alle illustrazioni dei libri di fiabe, con cui siamo cresciuti e che sono entrati nella nostra fantasia.

È l'ultimo luminoso momento di quella civiltà cortese del tardo- gotico, che un grande studioso, Johann Huzinga, ha definito “il tramonto del medioevo”, raccontando del mondo fastoso e variegato delle corti del Nord, ma rivelando come, anche nelle feste, la gioia fosse  venata  da un tocco di malinconia.
C'era la consapevolezza di vivere nella magnificenza di un lusso senza confronti. Ma c'erano anche le notizie di guerre, miserie e di pestilenze che arrivano da fuori.

Negli svaghi e nel quotidiano sembrava insinuarsi un senso di precarietà e di nostalgia per un modo vita che si avvertiva già alla fine.
Il sogno di un mondo perfetto appariva, allora, come un rifugio.