mercoledì 27 luglio 2011

I vestiti del Manneken pis



Parigi ha la Tour Eiffel, Roma il Colosseo, Copenhagen la sirenetta.
Bruxelles ha lui: il Manneken pis



Una scultura in bronzo di una sessantina di centimetri di un bambino che fa pipi (manneken pis, appunto, in dialetto bruxellese) su una piccola fontana in pieno centro, a poca distanza dalla Grand Place.

-C'est tout?  Evidement pas!
Come spesso succede nella città di Magritte, niente è come sembra e il Manneken non fa eccezione.
Intanto, la statuetta non è che una copia dall'originale eseguito, nel 1619, al posto di una vecchia scultura in pietra, da Jerome Duquesnoy, capostipite di una celebre dinastia di scultori.
-Et  où est le vrai? C'est un mystère!
Le guide dicono che sia conservato nel Museo della città, ma i più accorti sospettano che anche quello del museo sia una copia e che l’originale, in realtà, sia scomparso, vittima di un atto vandalico o di un ennesimo furto.

-En bref, le Manneken n'est pas le vrai!
E poi non si sa nemmeno chi raffiguri.
Le leggende che circolano parlano di un bambino che avrebbe spento, con la pipi, una miccia che rischiava di mandare a fuoco la città.
Oppure del figlio di un condottiero che, durante una battaglia, sospeso con la culla a una quercia, col suo gesto fisiologico, avrebbe esaltato le truppe, spingendole alla vittoria.
Ma la realtà è molto più prosaica: la statuetta serviva, in origine, a segnalare una fonte d'acqua della rete idrica bruxellese.
L’unica cosa certa è che, nascosta e protetta dai cittadini, scampò nel 1695 al bombardamento francese e all'incendio della Grand Place e, a guerra finita, fu trionfalmente ricollocata al suo posto.
Probabilmente è da allora che si stabilì quel saldo legame di affetto che dura tuttora.
Perché, anche se il Manneken è un coquin, un piccolo imbroglione, che si spaccia per l'originale, millanta un inverosimile passato glorioso e non è nemmeno il personaggio di un mito o di una favola, i bruxellesi lo amano.
E non solo perché rappresenta un richiamo per folle di turisti a caccia di immagini tipiche.



E neppure perché è il souvenir più richiesto, nelle sue più varie e sconcertanti incarnazioni: da statuetta da giardino a porta-candele, a apri-bottiglie, a imbarazzante cavatappi, a goloso dessert in cioccolato.



È che il Manneken è molto di più di una scultura: è un folletto scherzoso che partecipa alla vita della città, e ne rappresenta, a suo modo, lo spirito conviviale, caloroso e bizzarro e, soprattutto, il senso dell'umorismo, lo "zwanze".
E lo fa in costume.

-Oui, surtout parce qu'il aime se déguiser.
Travestirsi?
Ebbene, sì!
Caso unico tra le statuette da fontana, ha l'abitudine di abbigliarsi con tutta una serie di abitini, rispettosi delle sue necessità fisiologiche, per celebrare gli eventi grandi o piccoli che si succedono a Bruxelles, rendere omaggio a nazioni lontane, a personaggi illustri o, semplicemente, a mestieri e tradizioni popolari.


Tutto comincia alla fine del Seicento, quando il Principe Elettore di Baviera gli offre il suo primo costume "blu bavarese". Sappiamo, poi, che già nel secolo successivo veniva vestito almeno quattro volte all’anno.
E ora, come la più richiesta delle top model, può contare su un impiegato comunale, un "abbigliatore" ufficiale, al suo servizio e su un inderogabile calendario dei giorni e dei vestiti che indosserà (36 all’anno).
Una sala intera del museo della città è dedicata ai suoi ottocento (per ora) vestitini, rigorosamente cuciti, conservati e rammendati, al bisogno, da un efficiente équipe di sarti personali.






Cavaliere di san Luigi, sergente onorario di vari reggimenti nazionali e internazionali, il Manneken non nasconde una sua maschia vena militaresca, quando, nel giorno della festa nazionale belga, o in occasione di anniversari patriottici, sfoggia, con fierezza, una delle sue divise di ufficiale dell’esercito.








Ma, soprattutto, è bambinescamente giocoso, ironico e con quel pizzico di surrealismo, che non sarebbe dispiaciuto al "nonno" René Magritte, quando si lascia andare, con infantile malizia, alle più fantasiose trasformazioni.




Allora si può divertire a indossare una tuta nera da palombaro,  completa di scafandro, bombole d'ossigeno e pinne.

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Oppure, come Diablada della Bolivia, rivelare un insospettabile interesse per le tradizioni popolari dell'America Latina.









Nei momenti più meditativi - con indosso il suo costume da monaco tibetano-  pare immergersi completamente nella spiritualità buddista.









Il  6 dicembre, poi, non resiste e, come la tradizione impone, si veste da  Santa Claus, con tanto di  barba bianca e mitra vescovile.













E a Carnevale -in fondo non è che  è un bambino- scherza, irriconoscibile, sotto la maschera di Dracula.

Insomma, non è mai uguale a se stesso.

Da banale e onesta fontana si è trasformato, poco a poco, in una colorita icona popolare.
Dove altro poteva succedere, se non a Bruxelles ?
È naturale  che anche il Manneken abbia una vena di follia.
È nell'aria: c’est du belge !








venerdì 22 luglio 2011

Lucian Freud




"Cosa chiedo a un dipinto? Gli chiedo di stupire, disturbare, sedurre, convincere"
(Lucian Freud)



Il 21 luglio è morto Lucian Freud, un grande pittore, uno dei più grandi.
E quando muore un grande artista, tutti noi perdiamo qualcosa, tutti ne siamo diminuiti.


I giornali in questi giorni  ne hanno parlato molto.
Hanno raccontato che era nipote di Sigmund Freud, nato a Berlino nel 1922 ed emigrato, con la famiglia, a Londra negli anni '30, al primo rivelarsi del volto ferocemente antisemita del nazismo.
Hanno scritto della sua vita eccessiva, da grande seduttore, delle due mogli, della quindicina (o più) di figli, legittimi e illegittimi, che gli si attribuiscono, del  suo pessimo carattere (soprattutto in gioventù), della passione per le corse dei cavalli e dei cani, delle sue quotazioni astronomiche (un suo dipinto fu venduto in asta, nel 2008, a 33 milioni di euro).

Hanno parlato anche della sua arte: il più “grande pittore realista” è stato definito per la sua scelta  di rimanere- e sempre- nell'ambito della pittura figurativa, senza nessuna inclinazione per l'astrazione.
Non posso mettere nel quadro niente che non sia effettivamente davanti a me”: usava dire.
Si rifaceva ai grandi maestri, come l'olandese Franz Hals,  ma anche a Cézanne, a Giacometti o ai pittori tedeschi  della Nuova oggettività, a Otto Dix e a Oskar Kokoshka
Francis Bacon, che gli fu collega e  amico e con cui divise comuni ideali artistici,  lo spinse a dipingere in una maniera più autonoma, più franca, con una totale  libertà di tocco.

Fu sempre un pittore eccessivo, uno che voleva che la pittura “fosse carne”, che voleva disturbare, stravolgere.
Nudi, autoritratti, ritratti i suoi soggetti preferiti.


Le poche nature morte che ha dipinto manifestano una sorta di malinconica dignità. 
Come in questo “Lavello con due lottatori di sumo” (il titolo ironico allude a due schizzi di lottatori dimenticati sopra uno dei tubi) dove  è raffigurato un oggetto del suo atelier, un vecchio lavabo, sporco, con il rubinetto che perde, con le macchie di colore e di ruggine rimaste sul bianco della porcellana, come se, alla fine, di tutto il lavoro del pittore, la traccia che rimane fosse solo questa.

Nei suoi  ritratti i personaggi nudi sono osservati con la stesa impassibile precisione.  
Dipingeva a olio, con una lentezza esasperante e con sedute lunghissime, che sottoponevano i modelli a dura prova, fino a spossarli, fino a farli arrivare  al momento di non posare  più e di abbandonarsi completamente, senza sovrastrutture, al suo sguardo duro e impietoso che ne coglieva ogni piega del corpo, ogni imperfezione. 


E li ritraeva, apposta, in atteggiamenti scomposti, innaturali, in modo che perdessero ogni sensualità, ogni pudore, fino a rivelarsi quasi ammassi di carne, come nella serie dei ritratti del corpo gigantesco dell’eccentrico artista australiano Leigh Bowery.






Ma anche nei ritratti ufficiali c'è sempre una verità, una durezza di osservazione che non  viene mai meno, qualunque sia il modello.
Tutti i ritratti, in effetti, sono per Freud “ritratti nudi” o, meglio, “ritratti nudi con vestiti”, come li definisce e sempre senza fronzoli, senza mediazioni.


E allora  gli è possibile, raffigurando la Regina Elisabetta, andare ben al di là dell’immagine abituale  della vecchia sovrana con i suoi  tailleurs dagli improbabili colori pastello e rivelare, brutalmente, sotto la corona, le rughe dell’età, la fatica e la pesantezza del ruolo, le sue ansie e le sue incertezze. 








O mostrare  in quello dell'amico Andrew Parker- Bowles (l'ex marito di Camilla, direbbero le cronache mondane), abbigliato con una divisa che evoca le immagini degli ufficiali e degli eroi imperiali dell’Ottocento,  solo stanchezza, spossatezza e malinconia.   











Lo stesso sguardo impassibile, lo rivolgeva a se stesso, fino a registrare, nei suoi autoritratti, le ferite provocate da una rissa o i segni dell'invecchiamento, le macchie della pelle e,sempre, negli occhi, la fatica  del vivere.
Ritratti  di personaggi che nella loro fisicità eccessiva, debordante, nella loro sgradevolezza, così lontana dal culto dell'immagine della società contemporanea, rivelano i loro segreti intimi, la loro anima.

E quanto, nella loro vulnerabile umanità, siano simili a ognuno di noi.
Un grande artista: ci mancherà.






Qui metto un link a una bella rassegna di immagini  dei suoi dipinti  e a  un documentario (in inglese) sulla sua attività che si può trovare su You tube (diviso in tre parti).






lunedì 18 luglio 2011

"Cavalieri sulla spiaggia" di Paul Gauguin: la poesia delle isole Marchesi






Ci sono paesi che sono luoghi dell'anima, capaci di evocare fantasie, immagini, musica.
Alle isole Marchesi non ci sono mai stata, ma, in qualche modo, mi sembra di conoscerle, non solo per averle viste in qualche documentario geografico, ma perché sono legate a due artisti che amo:  Paul Gauguin e Jacques Brel.


Le Marchesi, le isole  più lontane  della Polinesia francese, a millequattrocento chilometri da Tahitisono terre poco abitate,  piovose, aspre e difficili da raggiungere. Scogliere ripide, erose, montagne scoscese, una vegetazione di un verde scuro, cupo che ricopre tutto. 
Rispetto a quello luminoso e solare dei mari del Sud, un altro mondo.
Paul Gauguin sceglie di trasferirsi  nel 1901.

Si sente vecchio; non ha più l’entusiasmo di dieci anni prima, quando ha deciso di lasciare la Francia per "luoghi nuovi e selvaggi" che rigenerassero la sua pittura ed è andato a vivere a Tahiti, scoprendo paesaggi esotici e lussureggianti,  abitudini di vita differenti,  donne bellissime e libere.
Ora, stanco e  malato, cerca la solitudine. 

Non ha perso la sua voglia di combattere. Questo no. Anche alle Marchesi si batte a favore dei diritti dei più deboli: gli indigeni. E contro ogni tabù.
In sfida alle  convenzioni religiose ha chiamato la sua casa a Hiva Oa “La maison du jouir, la casa del piacere” e ha riempito gli stipiti di legno delle porte e delle finestre di sculture e di scritte provocatorie nei confronti della morale cattolica.
La gendarmeria gli sta addosso, lo accusa di fomentare l’anarchia degli indigeni; lui scrive, scolpisce e, soprattutto, come sempre, dipinge.


Una pittura depurata, essenziale, come questa:



Cavalieri sulla spiaggia, Essen,  Folkwang Museum


Su una spiaggia rosa, del colore del corallo, tre cavalieri visti di spalle si dirigono verso il mare. Potrebbe essere una scena quotidiana, visto che i cavalli erano assai diffusi alle Marchesi.
Ma c’è qualcosa di più.
C’è il senso di un momento sospeso, di un’apparizione.

I tre cavalieri non sono soli. Due figure incappucciate su cavalli grigi gli si affiancano o, forse, li precedono, misteriose e inquietanti: sono i “tupapau”, un termine comune in Polinesia per designare i demoni, gli spettri che ritornano, gli spiriti dei morti.
Gauguin ne era affascinato e li aveva inseriti in altri suoi dipinti.
Ma qui la suggestione è più forte.

Si ha l’impressione che, in un tempo e in uno spazio sospeso, i due demoni stiano accompagnando i cavalieri verso una destinazione misteriosa e che li aiutino a compiere il passaggio tra due dimensioni, tra due mondi.
Ma non c’è paura. Neanche dolore. Solo serenità e calma.

Nei testi di storia dell’arte si dice che il dipinto  sia un omaggio di Gauguin a uno dei suoi maestri, a Degas, e alla sua passione per i cavalli (una citazione da Cavalli da corsa a Longchamp, Boston Museum of Fine Arts) e che i due misteriosi cavalieri abbiano l’andamento di quelli del fregio del Partenone.
Si è anche parlato di un’influenza di questa tela sul Picasso del “periodo rosa”.
Tutto vero: Gauguin è un artista, un grande artista. 
Ha dentro di sé un patrimonio di immagini da rievocare e da trasmettere.

Ma il saperlo non esaurisce la suggestione e l’incanto del dipinto.
Lo stile è quello consueto: la rinuncia a ogni definizione prospettica, l’eliminazione del chiaroscuro, l’uso di superfici piatte, di un colore puro e una ricerca continua sulla luce.
E c’è anche il recupero di tutto quello che gli è sempre interessato: dal fascino per le tradizioni locali, alla passione per la storia e le leggende, alle meditazioni costanti sulla spiritualità e sul trascendente.
Il modo di fare pittura, però, è diventato ancora più sintetico con l'eliminazione di ogni elemento superfluo.

Nell'ambiente sobrio e severo delle Marchesi Gauguin è arrivato a una ricapitolazione di tutto il  percorso compiuto,  con la voglia di dipingere -ancora e sempre - e di dipingere "prosciugando", fino all'essenziale. 
Non solo.

Qui pare che abbia  raggiunto l'accettazione finale. 
Perché sembra che quello che davvero conta, quello che rimane sia  solo la dolcezza e la  quiete dell'uscire di scena,  dell' allontanarsi su una spiaggia rosa verso il mare aperto all’orizzonte.
Qui la poesia si effonde da sola – scrive Gauguin delle isole Marchesi - basta lasciarsi andare al sogno, dipingendo per suggerirla”

Gauguin questo fa: si abbandona al sogno e alla fiducia nel mistero dell'ineluttabile.
E alle isole Marchesi morirà nel maggio del 1903, a cinquantacinque anni



* Un'amica che  ama giocare con le parole interpreta qui con poesia, ironia e allegria un altro dipinto di Gauguin.



La poesia deve essere, davvero, nell'aria alle Marchesi, se un altro artista vi si stabilirà, trovando là  il suo punto d’approdo.
Jacques Brel, dopo aver lasciato le scene con un concerto memorabile all’Olympia di Parigi, nel 1973, vi scoprirà  il luogo dove placare le sue inquietudini e dove soddisfare il suo desiderio di solitudine e la sua passione per navigare e per volare.
E a quelle isole, “dove l’estate non è mai estate e l’inverno non è mai inverno” e dove “vecchi cavalli bianchi canticchiano di Gauguin” dedicherà, nel 1977, le sue ultime canzoni.








lunedì 11 luglio 2011

Pomeriggio d'estate nel giardino di Claude Monet





La cosa più  bella in estate, in una giornata piena di sole, è stare all'aperto in un giardino fiorito.
E se, invece,  si è obbligati a rimanere al chiuso, magari in un appartamento soffocante? Allora non ci resta che far vagare  la fantasia con l’immagine di un dipinto.
Come questo, per esempio:



È un sereno pomeriggio estivo in un giardino assolato.
In primo piano, un tavolo, ombreggiato da un albero con una tovaglia bianca, dove è posata una rosa recisa, e gli avanzi di un pranzo alla buona: un tovagliolo spiegazzato, un bicchiere con un po’ di vino, una caffettiera con due tazze, un panino e una fruttiera piena di pesche.
Un bambino, assorto, gioca con le costruzioni.
Le due amiche che hanno condiviso il pranzo, si sono alzate, lasciando, sulla panca, una borsa di paglia e un ombrellino e ora si rifugiano nell'ombra a passeggiare e chiacchierare.

Le piante nelle aiuole, sulle siepi e nei vasi sono fiorite e, sullo sfondo, si intravede la facciata della casa.
Tutto è immerso nel chiarore abbagliante di un sole d'estate.
I fiori, resi con rapidi colpi di pennello, il terreno color ocra, la facciata della casa, la panca: tutto è bagnato di luce.
Una luminosità che dilaga e che accoglie tutta la meraviglia dei colori e della natura.

Gli unici tocchi di nero sono nella borsa di paglia, posata sulla panca e nel lungo nastro del cappello, ornato da una camelia, e negligentemente appeso a un ramo dell’albero in primo piano.
Anzi, sembra quasi che il nero del nastro, sia  lì per attirare l'occhio dello spettatore e per far risaltare, per contrasto, la luce abbacinante del resto del giardino.
Nessuna sfumatura, nessuna gradazione di colore, sfugge all'artista.

Siamo nel 1873, sulle rive della Senna, a pochi chilometri da Parigi, ad Argenteuil, all'epoca un paese in aperta campagna.
Il giardino è quello di Claude Monet.
L'artista ha trent'anni ed è orgoglioso della sua nuova casa, dove si è trasferito da poco con la moglie Camille, la sua modella, sposata, malgrado l’opposizione paterna, e con il figlio Jean.
Ed è la sua famiglia quella che ritrae nel giardino in un pomeriggio estivo qualsiasi: Jean è il bambino tranquillo che gioca da solo, Camille una delle due amiche che condividono un momento di confidenze.

Monet è sereno:  i suoi quadri cominciano a essere richiesti, è in contatto con mercanti d’arte e galleristi e le sue difficoltà iniziali sembrano superate.
L'anno successivo il titolo di una sua tela, "Impressioni al levar del sole", darà il nome al movimento pittorico dell'impressionismo.
Ha deciso, da un po', che quello che gli interessa dipingere è quello che vede intorno a sé, senza mediazioni .
Monet non è che un occhio, ma....che occhio !”: dirà di lui Paul Cézanne.
E quell'occhio, quello sguardo è capace di indagare, con assoluta precisione, tutte le pur minime note cromatiche e di definire lo spazio solo attraverso il colore.
Quello sguardo sa analizzare la luce, come mai era stato fatto prima.
E si accorge che  è la luce  a colorare le ombre.
Sì, perché, qui, le ombre sono colorate, di marrone, di verde, di blu, senza il nero, senza quel chiaroscuro, tradizionalmente insegnato nelle accademie e nelle scuole di pittura.

Quello sguardo è capace di scoprire che è la proprio la luce, con il suo continuo mutare, a cambiare incessantemente gli oggetti e la realtà stessa: i fiori, i vasi, il terreno, le ombre proiettate sul tavolo saranno diversi in ore differenti della giornata.

E questo lo può osservare e dipingere, non al chiuso di uno studio, ma all'aperto.
L'uso dei colori sintetici, in tubetti, gli ha permesso l’utilizzo di una gamma più estesa  di tinte, ma anche la possibilità di stenderli direttamente sulla tela, senza preparazione, con una velocità e un’immediatezza totale e di lavorare en plein air, con una semplice tavolozza.

Non ho mai avuto uno studio e non capisco perché uno dovrebbe chiudersi in una stanza. Per disegnare, d’accordo, ma per dipingere, proprio no” : dice Monet.
E il paesaggio, la natura, il giardino diventano il suo atelier.
Vuole restituire sulla tela l'impressione immediata e casuale della realtà, non solo  i giochi della luce, ma anche il movimento, l'effimero, la transitorietà: vuole arrivare a fissare un momento preciso, un attimo fuggente e irripetibile e a fermarlo, con i mezzi della pittura.


Lo fa anche qui nel suo giardino di Argenteuil.


Tra un po' il tavolo sarà sparecchiato e la natura morta, formata dagli oggetti in primo piano, sparirà, per lasciare il posto a un quieto angolo fiorito.
Le costruzioni, con cui gioca il bambino, verranno riposte, la rosa sul tavolo appassirà, come la camelia sul cappello di paglia.
La spensieratezza di un momento di serenità domestica è fuggevole. 
Monet lo sa.
La consapevolezza che tutto verrà ingoiato dal buio del tempo che avanza, rende, per contrasto, più luminoso l'istante passeggero della felicità.




lunedì 4 luglio 2011

Tiepolo a Würzburg, Apollo e i quattro continenti: tutto il mondo in un affresco.




Quando sono arrivata a Würzburg, in Baviera, sapevo che nel palazzo dei principi vescovi, c'erano gli affreschi di Tiepolo.
Avevo letto che il soffitto dello scalone era enorme, ma non ero pronta all'emozione che ho provato. Un'emozione da effetti speciali.
Non c'è foto, né ricostruzione che possa preparare alla meraviglia, alla vertigine -una sorta di sindrome di Stendhal- che coglie quando si entra e si scopre di essere letteralmente circondati dall'affresco.
Enorme. E non è un'esagerazione.

Il soffitto occupa 570 metri quadri: una superficie dipinta impressionante e meravigliosa.


Nell'inverno del 1750 Tiepolo ha cinquantaquattro anni, quando parte per Würzburg con un aiutante e i due figli, Giandomenico, ventitreenne e Lorenzo, appena quattordicenne.

Forse non sa nemmeno esattamente dove si trovi la città verso cui è diretto, ma ha ricevuto, a Venezia, da un banchiere tedesco, una di quelle proposte che non si possono rifiutare.
Gli è stato offerto un compenso da capogiro per decorare con storie di Federico Barbarossa la sala dei banchetti, la Kaisersaal, del principe vescovo della Franconia, Karl Philip von Greiffenclau, nel suo palazzo, la Residenza, progettato, venti anni prima, da Balthasar Neumann.

Tiepolo, forse, non conosce Würzburg; di sicuro, però, il principe conosce lui e la sua reputazione e per questo è disposto a spendere qualsiasi cifra.
Venezia, a metà Settecento, non è più una potenza economica e mercantile, ma c'è un prodotto che esporta in tutta Europa: l'arte, o, meglio, la grande decorazione con motivi mitologici, capaci di creare una storia, un passato prestigioso, anche là dove storia non c'è.

Tiepolo è l'artista più noto per la facilità e la velocità con cui dipinge: “è un fuoco inesauribile...fa un quadro in meno tempo che ad altri occorre per stemperare i colori” aveva detto l'ambasciatore di Svezia. E con risultati straordinari.
Il principe Greiffenclau lo sa; governa un piccolo paese, ma è ambizioso e si sente alla pari con la più alta aristocrazia europea. Non bada a spese e non ha remore.
Vuole il meglio e lo avrà.

Nell'estate del 1752 i lavori alla Kaisersaal sono finiti.
Tiepolo potrebbe tornare a casa e, forse, ne ha anche voglia.
Ma invece, no: il principe è rimasto contentissimo del pittore. E allora gli propone un lavoro quasi impossibile, una sfida: la decorazione del gigantesco soffitto dello scalone che dall'ingresso porta al piano principale.
L'impresa è davvero colossale, ma se c'è un artista, o meglio, una ditta capace di portarla a termine è quella dei Tiepolo.
Il compenso, anche stavolta, è irresistibile.
Tiepolo accetta e, subito, impianta un immenso ponteggio. Comincia a lavorare all'affresco, dal centro, stendendo l'azzurro chiaro del cielo, prima che venga l'inverno. Col freddo si sospendono i lavori: pittore e committente ne approfittano per discutere sui bozzetti, sempre più vicini all'esecuzione finale. Il soggetto principale e i dettagli sono definiti uno a uno.

Quando l’attività riprende, nella primavera del 1753, procede speditamente, tanto che ad agosto il soffitto è pronto e a ottobre il cantiere chiude.
I Tiepolo ripartono per Venezia, senza nostalgia, forse, per il clima freddo e umido di Würzburg, ma con qualche rimpianto nel lasciare quegli affreschi che li hanno trasportati nella dimensione incantata del racconto e della mitologia e sotto il cielo, perennemente azzurro, della pittura.



Il soffitto è concepito come un unica scena con i punti di vista che cambiano mano mano che si sale sullo scalone. L'integrazione con gli stucchi, tra le figure dipinte e quelle scolpite da Antonio Bossi, è perfetta.

Al centro l'esaltazione del principe che, come Apollo, il dio delle arti, circondato dagli Dei dell'Olimpo, porta la luce ai quattro angoli della terra.
Attorno al cornicione i quattro continenti sono rappresentati da figure femminili. Le raffigurazioni sono tratte dal repertorio di immagini e di motivi più comunemente usato, l'”Iconologia” di Cesare Ripa, ma non mancano dettagli desunti da qualche cronaca fantasiosa di viaggio





L'America, come un idolo coronato di piume, è seduta su un coccodrillo e circondata da una folla di indigeni che le portano doni.








Il continente è selvaggio: lo dimostrano le teste mozzate in primo piano, così come gli indigeni seminudi che trasportano il corpo di un coccodrillo e che arrostiscono su uno spiedo carni di dubbia provenienza,

In basso a sinistra un artista itinerante, in abiti europei, preso dalla curiosità, rischia quasi di cadere dal cornicione e si aggrappa alla tavoletta su cui stava disegnando





L'Asia, sul dorso di un elefante, è una principessa crudele- una Turandot ante litteram- che, circondata da dignitari, sta decidendo la sorte di un prigioniero seminudo e impaurito. Un pappagallo colorato becca la ghirlanda che circonda un ritratto sopra la balaustra del cornicione.







Accanto si accumulano  opere d'arte esotiche forse destinate all'Europa: sculture, un grande obelisco e una lapide dalla misteriosa iscrizione, appoggiata, su un panno per non scivolare dall'architrave in stucco su cui poggia.








L'Africa è una nera bellissima avvolta da una veste bianca con un morbido turbante: siede sul dorso di un cammello accucciato, e riceve, in omaggio, doni sontuosi e  un incensiere fumante.









Merci pregiate, controllate da funzionari ottomani, stanno per essere caricate su un elefante, mentre uno struzzo impaurito tenta di fuggire, trattenuto a stento, dalla cornice, sotto lo sguardo di una scimmia curiosa.








L'Europa è il continente “civile”, circondata dalle arti e dalla religione che vincono sulla potenza militare. Le armi sono inutili e a niente serve il cannone, se non come sedile per un gentiluomo che ha le fattezze dell'architetto Neumann, in compagnia del suo cane preferito, in precario equilibrio sul cornicione.
In alto il ritratto del principe Greiffenclau, avvolto in un mantello di ermellino, è sostenuto dalla Fama e dalla Gloria, e circondato da un grifone araldico, trasformato, per gioco, in un animale vero e proprio.

E poi altri particolari: figure, animali, colori, tessuti...: è davvero tutto un mondo da scoprire.

Qui Tiepolo si è voluto ritrarre con il figlio Giandomenico, incipriato e imparruccato come un damerino, mentre contempla la sua impresa.

E di impresa si trattò: 
duecentodiciotto giornate di lavoro per centinaia di metri quadri di affresco. 


Dentro- è stato detto- c'è l'enciclopedia della pittura del Settecento. C'è una fantasia sbrigliata, uno stile lieve, aereo, ironico, straordinario.
Trompe-l'-oeil, architettura fittizia che si mescola a quella vera, immagini che debordano, superano i confini della rappresentazione e invadono il mondo reale.

Sì, non è il cinema che ha inventato gli effetti speciali.





So bene che nessuna foto può restituire la meraviglia di una visita: allora - non si sa mai -ecco qui un link con qualche notizia utile su Würzburg. 
E d'estate la Baviera è, davvero, bellissima.