giovedì 30 maggio 2013

2. Tra bianco e scarlatto: il ritratto di Gabrielle d'Estrées (fine)





Si può sempre leggere un'opera d'arte in modi diversi. Soprattutto quando il soggetto è sfuggente, come in questo ritratto della favorita del re Enrico IV di Francia, Gabrielle d'Estrées, raffigurata in una posa a dir poco imbarazzante.
Nel post precedente ho parlato di un'interpretazione del soggetto legata alla gravidanza di Gabrielle e alla possibilità di diventare regina (QUI è il link).
Ma basta guardare di nuovo il quadro, un vero e proprio teatrino con tanto di quinte e palcoscenico, per accorgersi che siamo di fronte a una messa in scena, dove un regista-pittore ha mescolato più di una trama.



Il sipario si alza ed entra in scena la protagonista, Gabrielle. 
Non si può negare che sia una vera bellezza: un'esile bionda dalla pelle candida, con le sopracciglia depilate e ridisegnate e una bocca a cuore da fare invidia a una diva del cinema degli anni '20.
Dietro la sua espressione imperscrutabile, sta forse ripensando al percorso che l'ha portata alla soglia del trono, a partire dal primo incontro con Enrico, quando era solo una diciassettenne dalla reputazione dubbiosa. 
Era allora l'amante in carica di un ricco aristocratico, ma, spinta dalla famiglia e dall'ambizione, non ha esitato a lasciarlo per quell'uomo brutto, poco avvezzo all'eleganza e alla pulizia e- a quel che si dice- donnaiolo impenitente.
Lui ne ha fatto, da subito, la sua favorita.
Conservare quel ruolo non è stato, di certo, facile.
A corte le malelingue dicono peste e corna dei suoi parenti: nei pettegolezzi più correnti allo scandalo della madre, fuggita con un giovane amante, si aggiunge quello delle numerose gravidanze della sorella, badessa di un convento. 
Non bastasse, si mormora che un'altra sorella abbia attentato alla virtù di un frate mostrandosi a seno nudo. 
Insomma, molti ammettono, a mezza voce, che il soprannome di "sette peccati capitali", affibbiato alle donne della famiglia, non potrebbe essere più azzeccato.
Gabrielle sa bene che il popolo la detesta. 
Fin dalla sua prima apparizione pubblica in una caccia al seguito del re, l'hanno giudicata una sfrontata, perché non cavalca all'amazzone- come impone l'etichetta- ma come un uomo, lasciando intravedere le gambe inguainate in peccaminose calze di seta verde.
La sua passione per le pietre preziose e per le perle luccicanti, le sue feste sfrenate e il suo amore per il lusso sono talmente esibiti da essere insopportabili per chi vive nella miseria, tanto che l'hanno soprannominata "Duchesse d'ordure, duchessa del sudicio".
I soliti maldicenti si spingono a insinuare che abbia conquistato il re con qualche maleficio da strega. 
Non si capisce altrimenti la smania di Enrico per sposarla in un'unione che molti considerano "una macchia sull'onore della Francia".
Soprattutto mentre cortigiani e ambasciatori sono al lavoro per trovare al re una sposa più adeguata e già si parla di un'italiana piena di soldi.

Basta solo un sentore di stregoneria ed ecco che chi è dotato di fantasia più fervida può colorare il soggetto di tinte sulfuree e un po' osé e immaginare che nel dipinto si celebri qualche oscuro rituale di magia e seduzione. 
C'è chi ha detto che la vasca da bagno potrebbe essere colma di latte, che secondo la tradizione rendeva più candida la pelle, se non addirittura di sangue, come in certe favole crudeli e paurose. 
Il gesto di stringere il capezzolo sarebbe, allora, la manifestazione di un amore illecito, mentre la raffigurazione di un uomo seminudo in una posa oscena, nel quadro che si intravede sul cammino, alluderebbe al potere dei sensi, con cui  Gabrielle tiene incatenato il re.
Un'interpretazione possibile, ma non l'unica. 
Perché nel teatro del quadro è sufficiente cambiare il punto di vista per far mutare il soggetto.




Se un riflettore illuminasse nel buio dello sfondo, uno a uno, tutti i dettagli della scenografia, dallo specchio nero sulla parete, alle braci che si stanno spegnendo nel cammino, o al tavolo coperto da un panno scuro come un catafalco, la trama passerebbe subito dall'erotismo al dramma. E la dama di compagnia, intenta a cucire, si trasformerebbe in un'antica Parca, pronta a tagliare i fili del destino della bella favorita.
Il soggetto si tingerebbe, così, di giallo e la scena in primo piano diventerebbe il preannuncio della fine: la donna bruna, una vera e propria dark lady, forse la nuova bellezza su cui Enrico ha messo gli occhi, alluderebbe, col suo gesto beffardo, all'inutile gravidanza di Gabrielle, mentre l'anello donato dal re sta lentamente scivolando dalle dita.

Il regista-pittore, quando esegue il dipinto, sa già com'è andata  finire  e che  quel matrimonio non si farà.
Nella settimana di Pasqua del 1599, pronta alle nozze e in cerca solo dell'abito da sposa, Gabrielle arriva a Parigi e prende alloggio nel palazzo di un ricco banchiere fiorentino. 
D'improvviso si sente male. I dolori si fanno sempre più forti fino a culminare in un'agonia tremenda: le convulsioni non le danno tregua, i lineamenti del volto sono contratti e deformati, la pelle è diventata scura, quasi nera. 
Il suo aspetto è così orribile che qualche benintenzionato va a fermare il re che vorrebbe correre da lei, sicuro che non potrà reggere a quella vista. 
Dopo due giorni di cure inutili il medico conferma la morte. 
"Qui c'è la mano di Dio":- commenta. 
Qualcuno pensa, invece, che ci sia la mano del diavolo. 
Macché Dio o diavolo! I più sospettano che ci sia di mezzo solo un potente veleno: strega o no, Gabrielle era diventata scomoda per tutti.

Il re piange, urla che è disperato e che la sua vita è finita.
In un atto di omaggio, inaudito per una favorita, decide di indossare gli abiti del lutto.
Dopo qualche mese si prende come amante una dama di corte bruna come la donna del dipinto e, l'anno successivo, sposa la ricca italiana, Maria de' Medici, rimpinguando le casse esauste dello stato con i soldi dei Granduchi fiorentini.
La vita della corte continua come prima e, poco a poco, di Gabrielle non si parla più.
Il ricordo della sua sorte rimane affidato ai simboli ambigui di un quadro.






Nel suo libro "Un enigma color porpora", Longanesi 2009, Wolfram Fleischhauer, ripercorre la storia del dipinto e la biografia di Gabrielle.


giovedì 23 maggio 2013

1. Tra bianco e scarlatto: il ritratto di Gabrielle d'Estrées





"Come mai non ne parli ancora?":- mi chiedono gli amici che sanno della mia passione per i quadri che raccontano storie di ambiguità e di mistero e, magari, condite da un vago sentore di zolfo.
E, poi, in questo periodo lo vedo dappertutto: riprodotto, reinterpretato in mille modi e perfino ritagliato nelle tessere di un puzzle... Insomma, ignorarlo non è possibile.
Allora, eccolo qui:


Sul fatto che il dipinto, ora al Louvre, sia stato eseguito alla fine del Cinquecento e che lo stile sia quello dell'elegante manierismo della scuola di Fontainebleau, nessun dubbio.
Tutto il mistero sta nel soggetto.

Due pesanti tende di raso rosso si scostano, come il sipario di un teatro, per mostrare due giovani donne nude in una vasca da bagno.
I capelli acconciati con cura, le sopracciglia depilate come vuole la moda del tempo e i raffinati orecchini con pendenti di perle ci dicono che si tratta di dame della più alta nobiltà: due algide e altere aristocratiche che guardano fisse verso lo spettatore. Tra di loro nessun dialogo, nessun gioco di sguardi.

La gentildonna bionda è da identificare con la bellissima Gabrielle d'Estrées, la favorita del re di Francia, Enrico IV. La bruna, che le rassomiglia come una goccia d'acqua, è probabilmente una delle sorelle.
In secondo piano, un'altra tenda rosso più scuro, si apre su un ambiente in penombra, appena rischiarato dalle braci di un cammino. 
Una lama di luce illumina un dipinto, in cui si intravede il corpo disteso di un uomo. Una donna sta cucendo accanto a un tavolo ricoperto da un panno verde cupo.

Fin qui potrebbe trattarsi del doppio ritratto di due sdegnose aristocratiche, colte in un momento di intimità.
Invece, un gesto rimette in gioco tutto.
Un gesto, che sarebbe provocante e impudico, se non fosse compiuto con tanta fredda eleganza: la donna bruna stringe tra il pollice e l'indice il capezzolo del seno dell'altra.
Con una rispondenza perfetta, Gabrielle ripete lo stesso gesto, tenendo tra le punta delle dita un prezioso anello d'oro.
Il tono di raggelato erotismo fa pensare a un qualche indecifrabile rituale.

Un mistero stuzzicante, tutto da svelare.
Non resta che cominciare a indagare, partendo, per esempio, dall'elemento più bizzarro della scenografia: la vasca da bagno ricoperta di candida seta.
Se c'è un motivo per cui le due donne hanno scelto di essere ritratte immerse in una tinozza, non è certo legato all'igiene e alla cura del corpo.
Siamo in tempi in cui lavarsi è considerato addirittura pericoloso per la salute e la poca pulizia obbliga a mascherare l'odore acre del corpo con litri di profumo.

Il fatto è che la rappresentazione di giovani donne al bagno, anche se priva di ogni orpello mitologico, offre l'unica possibilità di ostentare, senza scandalo, la nudità femminile. 
Per Gabrielle è il soggetto più adatto per esibire la bianchezza immacolata del corpo.
Tutti sanno quanto sia orgogliosa della sua pelle lattea, considerata il segno distintivo della vera aristocrazia. 
È convinta che, vedendola ritratta nuda, perfino le più gelose dame di corte dovranno riconoscere la bellezza del suo incarnato perlaceo, esaltato da un tocco di rosso carminio sulle labbra e sulle punte dei seni. 
E, del resto, è proprio il suo splendido candore ad avere abbagliato il re, quando lo ha incontrato la prima volta. Allora aveva diciassette anni e già il peso di un passato burrascoso alle spalle. 
Enrico, sposato con Margherita di Valois era abituato da tempo a coltivare fuori del matrimonio la sua galanteria. Eppure si  è innamorato come un pazzo di quella bionda dalla pelle di porcellana e non ha avuto pace finché non l'ha conquistata.

Le indirizza lettere appassionate, la ricopre di regali, la vuole con sé ovunque e sempre al posto d'onore: i più malevoli insinuano che sia stato stregato.
Dal suo matrimonio con Margherita non ha avuto figli ed è Gabrielle a dargli il tanto desiderato erede, un maschio, subito legittimato. 
Da allora a corte hanno preso l'abitudine di chiamarla "presque reine, quasi regina".

Sarà l'invidia, ma sono in molti a non vederla di buon occhio. I più, comunque, devono ammettere che è grazie alla sua influenza che Enrico, protestante di nascita, ha accettato di convertirsi al cattolicesimo.
Una conversione che gli è valsa l'incoronazione a re di Francia e la frase "Parigi val bene una messa", con cui passerà alla storia.

"Solo Dio o la morte del re potranno fermare la mia fortuna":- si vanta, intanto, Gabrielle, sempre più sicura di sé e del suo trionfo.
E proprio nel 1599 Enrico, dopo aver ottenuto l'annullamento del matrimonio, le dona, durante una grande festa, l'anello che ha ricevuto al momento dell'incoronazione, manifestando platealmente la sua intenzione di sposarla, mentre è incinta del loro terzo figlio.

Ecco, allora, una possibile spiegazione del soggetto.
Il dipinto, destinato a essere condiviso in privato solo con pochi cortigiani fedeli, rappresenterebbe niente altro che la celebrazione di questo evento, nascosta, ma non troppo, sotto il velo delle allusioni e dei simboli.
Per chi lo guardava non era difficile comprendere il significato dei gesti speculari e simmetrici che le due donne compiono all'unisono, come in un balletto.




L'anello in mano a Gabrielle rappresenta il matrimonio e la sua consacrazione ufficiale a regina.
Il corrispondente gesto della sorella di stringerle il capezzolo, lontano da ogni ambiguità erotica, allude alla nuova gravidanza e all'allattamento.
Insomma, è la conferma che, grazie a quella bellezza  che ora tutti possono ammirare, Gabriella ha raggiunto il suo scopo: salire sul trono di Francia.
La donna, seduta sullo sfondo, starebbe cucendo le fasce destinate al bambino.

Tutto parrebbe chiaro, eppure... 
Eppure qualcosa ancora non mi convince.
E allora? Allora non mi resta che tornare a guardare il quadro, magari iniziando dalla penombra dello sfondo per capire se, nascosti nel riflesso scarlatto delle tende e in quello sulfureo del fuoco, non si possano scoprire altri e più inquietanti segreti.

(continua)







giovedì 16 maggio 2013

Joan Mitchell,"La grand Vallée XIV": l'arte del ricordo





In questi giorni un fastidioso disturbo agli occhi mi impedisce di leggere o di usare a lungo il computer. Non volevo, comunque, lasciare il blog senza una nuova immagine e allora mi è venuto a mente di pubblicare il dipinto di una pittrice che amo molto, Joan Mitchell (1926-1992).




Il trittico intitolato "La grand Vallée XIV" è attualmente conservato a Parigi al Centre Pompidou. 
Fa parte di una serie di pitture di grandi dimensioni realizzate, pensando non a un posto concreto, ma a una valle magica descritta da un'amica come il luogo fatato della sua infanzia.
Un paesaggio, dunque, non tratto dal vero, ma ricreato con l'emozione e con la fantasia, sull'onda delle parole di un racconto, di un ricordo.

I gialli, i verdi e tutte le gamme del blu, che esplodono sulla tela, lasciano immaginare alberi dalle tinte brillanti, i riflessi dell'acqua di un fiume o l'azzurro nitido del cielo: la gioia della natura vista attraverso gli occhi di una bambina.

I grandi colpi di pennello che coprono tutto il dipinto rimandano alla spontaneità della pittura dell'Action Painting, in cui Joan Mitchell, nata a Chicago, si era formata ai suoi esordi negli Stati Uniti.
Ma all'influenza dell'arte americana si unisce qui il ricordo delle grandi e luminose tele degli impressionisti. 
Lo stesso che l'ha spinta a trasferirsi dagli Stati Uniti alla Francia in un piccolo paese di campagna, Vétheuil, non lontano da Giverny, sulle tracce di uno dei suoi pittori preferiti, Claude Monet. 

Al contrario di Monet, però, Jean Mitchell non lavora mai al cavalletto, en plein air, ma nel suo studio. 
Lì si sforza di ritrascrivere sulla tela le tracce che le passeggiate o le escursioni nella campagna hanno depositato nel suo cuore e nella sua memoria.
"Preferisco lasciare la natura dov'è. È già bella così":-usava dire. 
La sua aspirazione è che suoi diventino, piuttosto, "paesaggi dell'anima".

E sono proprio questi i paesaggi, a cui mi piacerà  ripensare, in questi giorni, nei momenti in cui me ne dovrò stare forzatamente ad occhi chiusi, magari cullata da una musica come questa.



Per maggiori notizie su Joan Mitchell, QUI è il link al sito della sua Fondazione e QUI la recensione di una delle poche mostre delle sue opere tenute in Italia.




martedì 7 maggio 2013

"La regata a Cowes": l'insostenibile leggerezza di Raoul Dufy




"Dufy è il piacere allo stato puro" (Gertrude Stein)


Ci sono giornate in cui una punta di malinconia ci assale all'improvviso. 
Che cosa fare allora? Ci si può rifugiare nella cioccolata, nella musica, nella lettura dei libri di Quenau o di Achille Campanile, oppure, nei casi più ostinati, si può sempre tenere sottomano la riproduzione di un quadro di Raoul Dufy (1877-1953). 
La magia dei suoi colori scintillanti, forse, non riuscirà a cancellare del tutto la tristezza, ma, di sicuro, ci aiuterà a guardare il mondo con occhi diversi. 

E pensare che qualche critico lo giudica ancora un pittore troppo gioioso e lieve per essere un artista con la "A" maiuscola, come se per creare un'opera d'arte fosse indispensabile macerarsi o covare dentro di sé le più profonde angosce.
Invece Dufy non solo non sembra soffrire, anzi, pare divertirsi a fare il prestigiatore e a estrarre dalla sua magica tavolozza tutto quello che c'è di più bello, luminoso e armonioso nella vita. 
Come nella sua "Regata a Cowes", oggi alla National Gallery di Washington:


Siamo nel 1931 e, all'epoca, Dufy, è un artista maturo e affermato. 
Dopo una prima adesione all'impressionismo, pur rimanendo sempre indipendente, ha costeggiato tutte le avanguardie, dai fauves di Matisse, da cui è rimasto folgorato,  alla sintesi di Cézanne o al cubismo di Braque. 
Da sempre, nei suoi dipinti, ha privilegiato la luce e, soprattutto, il colore, che è diventato l’elemento fondante delle sue composizioni.
Lo ha capito  fin da quando- come racconta lui stesso- osservando una ragazza correre per strada, ha avuto la sensazione che la mente registri  il colore ancor prima dei contorni.
Per questo nella sua pittura ha deciso di dissociare il colore dal disegno.

Come qui, dove il blu luminoso e sfolgorante del mare satura tutta la tela quasi fosse una grande pozza colorata. 
Su questo sfondo di un azzurro intenso, Dufy ha tratteggiato sinteticamente le onde, le vele o gli stendardi variopinti delle barche, facendoli diventare come "geroglifici" di una sorta di stenografia disegnata.
Le abbreviazioni dei contorni bastano da sole a definire l’essenza delle cose e a rappresentare la scena, anzi, a restituire le sensazioni che ci provoca. 
E sono, come spesso avviene in Dufy, sensazioni di gioia e di allegria.
Della regata rimane il ricordo dell'azzurra immensità del mare, del vento che increspa le onde, delle vele spiegate e delle tinte squillanti delle barche impavesate a festa.
Resta la memoria di un momento di emozione, che, sia pure per poco, ha fatto dimenticare le brutture della vita.

Il mare, le vacanze, i concerti, le corse ippiche sono i soggetti favoriti di Dufy. 
Gli piace l’atmosfera allegra, l’energia e il movimento della folla che si diverte: gli piacciono i momenti, in cui la vita appare come una festa.
Una festa, però, che non ha nulla di superficiale e di mondano.
Per lui il piacere è una cosa seria: quello che vuole trasmettere nelle sue opere è la felicità pura dell'istante.
"Sarei soddisfatto- era solito dire- se solo potessi arrivare a esprimere tutta la gioia che  è in me!"

Un'esistenza la sua, come tante, con i suoi momenti lieti e quelli dolorosi, fino alla sofferenza della malattia, un'artrosi alle mani che, in vecchiaia gli impedisce di dipingere. Una vita fuori dalla luce dei riflettori, tutta spesa nel proprio lavoro e nella voglia di creare.
Tremila tele, seimila acquerelli e altrettanti disegni e, poi, le illustrazioni, i costumi teatrali, la ceramica, i tessuti per la casa di mode di Paul Poiret o per le seterie di Lione: la sua produzione sterminata sembra non abbia altra ambizione che quella di abbellire la vita. 
Di di certo, non è ambizione da poco.
La sua leggerezza, che non lascia mai trasparire lo sforzo, è la medesima di cui parla Italo Calvino. È la stessa apparente levità di quella musica di Mozart, che ama tanto, o degli aggraziati passi di danza di un balletto, che nascondono il sudore e la fatica. 
È quell'attimo di respiro, di cui tutti abbiamo bisogno.

E allora non resta che farsi incantare, accettare il suo invito a guardare la meraviglia di quello che ci circonda e, aprendo le finestre alla luce della primavera, godersi lo stupore della bellezza della vita.



R.Dufy, Fenêtre avec vue, Nizza, Musée des Beaux Arts






QUI è un sito interamente dedicato a Raoul Dufy. 
Se la giornata ci sembra  grigia, ci si può sempre distrarre guardando i suoi dipinti, magari con il sottofondo di una canzone come  "La belle vie" di Sacha Distel.


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mercoledì 1 maggio 2013

Il Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: maggio





Siamo arrivati al primo giorno di maggio e sono finiti (o, almeno, si spera) i capricci di marzo e di aprile: il clima è più stabile e il sole più caldo. 
Nel "foglio" del calendario del ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento, si ritrova intatto il tepore di queste giornate primaverili.


Sotto il sole di maggio, trionfa la bella stagione.
Su uno sfondo di rocce simili a cartapesta, le foglie degli alberi, i cespugli e i prati splendono di un verde brillante. 
La natura è in pieno rigoglio. Ovunque sono sbocciate le rose.

Nell'affresco sono raffigurati soltanto dame e  gentiluomini. 
I contadini, con cui abitualmente spartivano la scena, non compaiono.
Rispettando la consuetudine che voleva che i lavori agricoli fossero completati entro il 23 aprile, la festa di san Giorgio, hanno già preparato e seminato i campi, riparato o ricostruito gli steccati degli orti. 
Ora si possono finalmente concedere una pausa di riposo.

In alto, al centro di una città chiusa da una rossa cortina muraria, spicca il candore di una bianca chiesa gotica.
Un ponte di assi conduce, ai piedi di una montagna, verso un prato fiorito, dove giovani ed eleganti aristocratici sono seduti intorno a una tavola imbandita. 
Una delle dame ha lasciato il banchetto per raccogliere l’acqua che sgorga abbondante da una fontana di marmo rosso. 
Forse è un’allusione alla fonte della giovinezza, che, secondo la leggenda, poteva rinnovare per l'eternità bellezza e gioventù.

In basso, una spalliera di candide rose racchiude un prato cosparso di fiori, dove si sono radunati raffinati gentiluomini e belle dame.
È proprio qui che è diretta anche la gentildonna, abbigliata in verde, che, nel Mese di aprile, stava velocemente attraversando il confine dipinto tra le due scene. 
Stanno arrivando tutti per festeggiare la primavera.
Hanno tirato fuori dal guardaroba i loro abiti più belli e variopinti. 
Gli uomini indossano giubbetti aderenti con calzebraghe colorate, o ampi mantelli dagli orli sfrangiati, le donne sono vestite con attillate sopravesti. 
I più attenti alla moda calzano le scarpe dalle lunghe punte che in Francia fanno furore. 
Un giovane si inginocchia, in atto di omaggio, di fronte alla propria dama, un altro china la fronte per essere incoronato con una ghirlanda di fiori.

Di certo non c’è il lusso e la raffinatezza del calendario dell'anno scorso, le "Très Riches heures di Duc de Berry": le vesti non sono di tessuti preziosi, né arricchite da decorazioni dorate. 
Siamo nella periferia dell'Impero, nella corte austera di Trento, governata da un principe vescovo, il committente della serie Giorgio di Liechtenstein. 
Ma anche qui i passatempi e le feste dei nobili sono ispirati all'eleganza delle corti del Nord Europa e ai modelli di quei romanzi cavallereschi che, all'epoca, si leggevano appassionatamente dappertutto. 

Nella tradizione cortese Maggio era il mese destinato agli svaghi amorosi.
Allegre brigate di giovani usavano  percorrere le campagne fiorite, celebrando riti antichi e festeggiando il rinnovamento della vita in un'atmosfera di gioiosa spensieratezza.
Anche nella splendente primavera, affrescata da Maestro Venceslao ai primi  del Quattrocento, le paure e le ansie del quotidiano sembrano svanire in un sogno d'amore e in un profumo di rose.