sabato 28 luglio 2012

Paolo Veronese, "La Cena in casa di Levi": il pittore e l'inquisizione





Se foste capitati a Venezia, in un assolato sabato d'estate, il 18 luglio del 1573, avreste notato, tra i passanti, che cercavano di sfuggire la calura, un gentiluomo elegante di una quarantina d'anni, con i capelli rossicci, che camminava lentamente, assorto nei suoi pensieri.

Se aveste chiesto chi fosse, vi avrebbero risposto che era un pittore. Una persona famosa, ben educata e rispettata da tutti.

Vi avrebbero sussurrato che, da quando si era trasferito da Verona, aveva percorso tutti i gradini della carriera e che ora era a capo di una delle botteghe più importanti della città. Poi avrebbero aggiunto, con aria ammirata, che, poco tempo prima, perfino  un maestro riverito come Tiziano gli aveva reso omaggio con un abbraccio, sotto gli sguardi di tutti, in piazza san Marco.

Quell'uomo è Paolo Veronese e, proprio quel giorno, è stato convocato di fronte al Tribunale dell'inquisizione.
Si ha un bel dire che a Venezia l'Inquisizione sia più mite che altrove.
In realtà il solo nome può bastare a turbare anche il più morigerato e scrupoloso degli uomini.
Eppure lui è sicuro che, in fatto di ortodossia, non ha nulla da rimproverarsi: ha troppo da lavorare per avere il tempo di indulgere in dubbi teologici o di lasciarsi invischiare nelle critiche dei luterani.
Non è un pensatore, lui, e, meno che mai, un filosofo: è un pittore.

In effetti è proprio in veste di pittore che è stato convocato: il motivo sta tutto nell'enorme tela (cinque metri per dodici) con una "Cena" affollata di personaggi, che ha ultimato, due mesi prima, per il refettorio del convento domenicano di san Giovanni e Paolo (ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia).



Gli hanno detto che nel suo quadro c'è qualcosa che non va e questo lo preoccupa. Sa bene che, dopo il Concilio di Trento, il controllo della Chiesa sulle immagini si è fatto rigoroso.
Ora che è arrivato nella chiesa di san Teodoro, sede del Tribunale, si sente pronto a spiegare tutto.
Il verbale dell'interrogatorio, stilato con tanta accuratezza da trasmettere perfino la dolcezza della parlata veneziana, ci restituisce tutte le fasi del processo.
A leggerlo sembra di essere là, ad ascoltare l'inquisitore che interroga e Paolo Veronese che risponde, con calma, a tutte le domande.

Le prime riguardano il soggetto.
Che "Cena" sacra è mai quella, in cui, insieme a Cristo, san Pietro e san Giovanni, partecipano servitori poco ammodo, gente in armi e buffoni?
Se fosse un' "Ultima Cena" mancherebbe una buona parte degli apostoli e, soprattutto, mancherebbe Giuda. Nemmeno i gesti, poi, sono quelli codificati dall'iconografia tradizionale.
Se rappresentasse un'altra "Cena", quella a casa di Simone, descritta nel Vangelo di Luca, mancherebbe, pur sempre, uno dei protagonisti: la Maddalena pentita che lava e asciuga con i capelli i piedi di Cristo.



Veronese ammette che il priore del convento di san Giovanni gli aveva consigliato di inserire la Maddalena "in luogo de un can" (al posto del cane in primo piano).
Ma ribatte: "Mi ghe risposi che volenteria haveria fatto...ma che non sentiva che tale figura..potesse zazer che la stesse bene".
Insomma, fa capire che, per lui, quello che conta è l'equilibrio del dipinto.
La Maddalena avrebbe turbato l'armonia della composizione.
Per questo non l'ha messa: tutto qui.







A questo punto si fanno più pressanti le obiezioni sul ruolo dei personaggi secondari, che affollano la scena, apparentemente senza alcun motivo
"Quel vestito da buffon col papagalo a che effetto l'avete depinto?":- incalza l'Inquisitore.
"Per ornamento":- risponde, con semplicità, Veronese.

E tutti quelli che stanno attorno a Cristo, compreso "l'uno che ha un piron (una forchetta) che si cura i denti" che ci stanno a fare?
E, soprattutto:- "Chi credete voi che se trovase in quella Cena?".
Veronese replica con un candore che sembra finto: "Credo che si trovassero Christo coi suoi apostoli, ma se nel quadro avanza spazio, io lo adorno di figure".
Altro che eresia! È una semplice questione di vuoti da colmare.


Purché fossero fuori dalla scena della "Cena" vera e propria, non gli è sembrato sconveniente nemmeno inserire un servo che perde sangue dal naso, così come "imbriachi, todeschi (alabardieri), buffoni e nani".
Il quadro è grande e di figure ne contiene parecchie.
Lui non ha fatto altro che mettervi dentro tutte quelle che ci stavano e che la sua immaginazione gli ha suggerito.





Le domande continuano e Veronese risponde, esponendo le sue ragioni, che sono sempre quelle della pittura.

Per riassumerle, gli è venuta a mente una frase, scritta, tanto tempo prima da un poeta latino, Orazio.
Una frase più volte ripetuta, ma che, in quel momento, gli appare la più adatta e la più vera: "Noi pittori ci pigliamo la licenza che si prendono i poeti e i matti".
Gli sembra che in queste parole stia il nocciolo della questione.

Non credeva di essere in errore ed è stato ben attento a non mescolare il sacro col profano:
"Signore Illustrissimo- conclude- pensavo de far bene et de non fare... disordine nesuno, tanto più che quelle figure di buffoni sono de fuora del luogo, dov'è il nostro Signore".
L'interrogatorio è finito. Veronese si è difeso bene.
Ora attende la sentenza E la sentenza arriva, infiorettata da una serie di formule latine, ed è più mite di quello che si era aspettato.



Di lì a poco, con una bella iscrizione, dipinta sulla balaustra della finta inquadratura architettonica, dovrà specificare il soggetto del dipinto: la "Cena in casa di Levi". È il convito, descritto nel Vangelo di Luca e offerto a Cristo dal pubblicano destinato a diventare l'apostolo Matteo.
Una scena meno impegnativa e dove si possono inserire, senza scandalo, anche i dettagli più coloriti.
Per l'Inquisizione il cambio di titolo è sufficiente: la tela potrà essere esposta così com'è e non occorrerà cancellare alcuna figura.
È fatta. Dipinto e pittore sono usciti indenni dal processo.

Paolo Veronese potrà continuare a intessere le sue tele con levità e fantasia e a prendersi "la licenza dei poeti e dei matti".
La libertà dell'artista, apparentemente, ha trionfato.







Questa è l'interpretazione tradizionale. La realtà fu, probabilmente, più complessa: una diversa lettura del processo è nel recente libro di Maria Elena Massimi, La cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto, ed. Marsilio 2012 (qui è il link)


martedì 24 luglio 2012

"D'aria e d'acqua..": i paesaggi di Zao Wou-Ki.




Qualche tempo fa sono andata, in una Galleria d'arte di Bruxelles, a vedere una mostra di litografie di un pittore che amo molto, Zao Wou-Ki.
Ho comprato il catalogo, ma è stata una spesa inutile: di quel testo, tranne le congiunzioni e un paio di avverbi, non ho capito assolutamente nulla.
E non è stata solo colpa del francese.
Mi chiedo sempre perché sia così difficile spiegare l'arte contemporanea in maniera comprensibile e mi domando anche se opere, come questa "Foresta di smeraldo", abbiano, davvero, bisogno di spiegazioni:




Certo Zao Wou-Ki, mai avrebbe pensato, arrivando in Francia nel 1948, a ventisette anni, di diventare un pittore famoso, amico di artisti, di uomini politici e di intellettuali. Nemmeno, forse, avrebbe immaginato le parole astruse che sarebbero state usate per commentare i suoi dipinti.

Nato in Cina, nel 1921, a nord di Shangai, da una ricca famiglia di banchieri e di intellettuali, aveva assimilato, fin da piccolo, le opere d'arte della grande tradizione cinese e, come molti dei suoi coetanei, si era formato facendo,  con penna, pennelli e inchiostro, pazienti esercizi di calligrafia.
All'Accademia di Belle Arti di Hangzou aveva approfondito la conoscenza dell'arte occidentale: l'impressionismo, anzitutto, ma anche le opere di artisti da Matisse a Picasso.
Quando arriva a Parigi, perseguendo la sua tenace ambizione di fare il pittore, l'arte europea contemporanea è per lui una  fonte  di confronto e di ispirazione: a Montparnasse, nel piccolo studio dove va ad abitare, ha la fortuna di avere, come vicino di atelier, niente di meno che Alberto Giacometti.
Nelle vie e nei caffè del quartiere incontra artisti venuti dai quattro angoli del mondo, da Hans Hartung a Nicolas de Staël.
Ma la folgorazione gli arriva, quando, a Basilea, conosce Paul Klee.
Klee, secondo lui, "dipinge come un pittore cinese, pur non essendo mai andato in Cina".
Lui, invece, vuole dipingere come un pittore occidentale, pur senza rinnegare la sua origine e l'antica tradizione pittorica cinese.
I suoi soggetti prediletti sono i paesaggi che diventano, mano a mano, sempre più astratti, tanto che  spesso non hanno alcun titolo, se non quello dell'anno dell'esecuzione.

A questo tipo di pittura rimane fedele per tutta la vita, pur viaggiando e ampliando la gamma delle sue conoscenze, dall'amicizia con gli artisti americani al suo temporaneo rientro in Cina, nel 1975.
Un ritorno trionfale, che gli fa guadagnare un posto tra le glorie nazionali nel Museo di Pechino.
L'unica voce dissenziente è quella della sorella, che, maoista convinta, malgrado la famiglia sia stata vittima della Rivoluzione culturale, continua a chiedersi se la pittura di Zao Wou-Ki "possa davvero essere utile al popolo".
Domanda senza risposta e, forse, inutile.
Così come fini a se stessi possono apparire i tentativi di classificare le sue opere o di situarle cronologicamente entro la corrente dell'"astrattismo lirico", di cui è uno dei maggiori esponenti.

A spiegare perché mi piaccia tanto  la sua pittura, tra astrazione e tradizione, e i suoi paesaggi "fatti d'aria e d'acqua", secondo la bella definizione di André Malraux,  non mi ci provo nemmeno.
Per questa volta vorrei far parlare solo le immagini, lasciando,  come  commento ai dipinti, le parole stesse dell'artista (il link a un video su Zao Wou-Ki è QUI)






"Tutte le mie tele sono dei paesaggi.
Non per scelta, ma per evidenza: non c'è mai separazione tra l'uomo e la natura".


 
 
 
 
 
"Dipingere, dipingere, sempre dipingere:  il vuoto e il pieno, il leggero e il denso, il respiro e la vita"
 
 
 
"Penso che tutti i pittori siano realisti per se stessi.
Non sono astratti che per gli altri"
 
 
 
 
 
"Molti pensano che la pittura e la scrittura servano a riprodurre la forma.
No, il pennello serve solo a dominare il caos".
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

domenica 15 luglio 2012

Henri Matisse: "Sotto le stelle del jazz..."





"Quello che ho sempre sognato è un'arte della serenità... senza niente che affligga o disturbi... che sia qualcosa di analogo a una buona poltrona, che rilassi e che riposi.."(H.Matisse)



Stavolta nessun mistero, nessun giallo, come nei post precedenti,  ma immagini molto note, che avevo voglia di rivedere, immagini di una freschezza e di una vitalità straordinarie.

"Caronte", "Lucifero","Minosse": per descrivere il caldo di questo luglio si sono scomodati tutti i personaggi dell'"Inferno".
Sudore, afa, nessuna voglia di leggere, poca anche di scrivere.
Ma un rimedio c'è.
Bastano un bel CD in sottofondo (Charlie Parker, per esempio: QUI è il link) e un libro come questo da sfogliare, per rinfrescare l'aria opprimente di un appartamento di città e sentirsi trasportare "sotto le stelle del jazz", per dirla con Paolo Conte.




Nel 1947 Henri Matisse ha settantotto anni, è stanco, malato e i postumi di un'operazione lo hanno costretto tra letto e sedia a rotelle. L'uso dei pennelli e della tavolozza lo affatica, ma ha ancora voglia di creare e di esprimersi. Allora, trova un modo diverso e meno stancante di fare pittura: quello di "dipingere con le forbici", colorando a tempera, tagliando e incollando ritagli di carta dalle tinte brillanti (i "papiers gouaches decoupées").
Eccolo in questo video mentre lavora ( il link è QUI).
"Invece di disegnare il contorno e inserirvi il colore, disegno direttamente nel colore": dice.


Il colore, appunto, è stato il protagonista di tutta la sua pittura, fin dall'esposizione nel Salon del 1905, quando lui e i suoi amici furono definiti "fauves", belve, per la violenza esplosiva dei loro dipinti: nessuna prospettiva, nessun chiaroscuro, solo tinte vivaci, innaturali, usate per esprimere tutta la gamma delle emozioni.
"Un barattolo di colori gettato in faccia al pubblico": disse un critico.
A quella maniera di creare, di dare libro sfogo ai sentimenti, Matisse è rimasto fedele per tutta la vita, senza inquietudine, ma lasciandosi andare alla pura gioia di vivere.
E ancora continua, anche se è vecchio e malato

Un raffinato editore, Emanuel Tériade, che pubblica la rivista  "Verve", per cui Matisse ha già lavorato, lo convince a radunare i suoi disegni e i suoi pensieri in un libro che verrà stampato con una tiratura limitata di 250 copie.
Venti immagini, rese perfettamente: venti litografie realizzate con un procedimento lungo e laborioso, intervallate da centotrenta pagine di testo.
Frasi e pensieri, scritti con un pennello sottile, con inchiostro nero su  fondo bianco. Testi che, come dice l'artista, "si possono leggere o non leggere", ma che servono come "sfondo sonoro", per far risaltare le immagini
"Come gli aster- spiega ancora- servono in un bouquet per far risaltare gli altri fiori".

È come se  qui ricapitolasse tutti i suoi interessi.
"Queste immagini dai colori vivi e violenti sono nate dalla cristallizzazione dei ricordi del circo, dei racconti popolari, o dei viaggi": spiegherà.







Il circo lo aveva affascinato fin da bambino, con i suoi saltimbanchi e i suoi fenomeni, come il "Mangiatore di spade".








Oppure con i suoi acrobati e la vivacità dei suoi colori.






Icaro, con il suo cuore rosso pulsante e le sue braccia curve come ali in volo, rimanda alla sua passione per la mitologia





La laguna è un ricordo del suo viaggio in Polinesia, sulla traccia dei paesaggi di Paul Gauguin.



Venti immagini: pensieri e ricordi di una vita intera. 

Il titolo del libro doveva essere "Cirque", circo, ma "Jazz" gli è apparso più evocativo della libertà e del piacere dell'improvvisazione.
Anche lui, come un jazzista, improvvisa su un tema e anche lui deve stare attento all'armonia dell'insieme: "Non basta mettere i colori, anche se bellissimi, gli uni accanto agli altri, i colori devono reagire gli uni con gli altri. Altrimenti è cacofonia.
Il jazz, invece, è ritmo e significato"

"Jazz" è il regalo di un vecchio artista, una lezione di felicità e di energia, nel segno della musica.
A noi non resta che sfogliarlo e sognare.




domenica 8 luglio 2012

Da Raffaello a Stalin: il "San Giorgio" e il lungo viaggio del drago





A San Pietroburgo, ribattezzata all'epoca Leningrado, nella fredda primavera del 1930, al Museo dell’Ermitage accadono strane cose. Di notte, in gran segreto, una misteriosa squadra di facchini entra nelle sale, impacchetta e porta via alcuni dei quadri più belli.
Al mattino, i vuoti lasciati sulle pareti vengono riempiti con i dipinti del magazzino.
Nessuno osa indagare: i funzionari del museo che protestano, spariscono.
Sono stati trasferiti”: è la spiegazione ufficiale.
Dopodiché, il silenzio. È chiaro che tutta l’operazione è stata organizzata in alto, molto in alto.
Tra i quadri scomparsi c'è uno dei gioielli del Museo, il San Giorgio e il drago di Raffaello.



Non è la prima volta che il dipinto viaggia: è abituato a cambiare proprietari e paesi.

Se il tragitto che ha percorso fosse un film, si aprirebbe su un paesaggio di colline, con un grande palazzo sullo sfondo.
Siamo a Urbino, nell’aprile del 1506: Guidobaldo da Montefeltro, signore del piccolo ducato, è un uomo indeciso, malaticcio, notoriamente impotente, che non ha ereditato nemmeno una briciola dell’energia del padre, il grande Federico. Gli si attribuisce una grande passione per il lusso e l'etichetta. I suoi più grandi successi sono stati il matrimonio con la brillante Eleonora Gonzaga e la sua ammissione all’Ordine cavalleresco più esclusivo e ambito d’Europa: quello della Giarrettiera.
Per ottenerlo ha utilizzato la parentela della moglie con il potente papa Giulio II.
In cambio della prestigiosa decorazione, ha promesso al sovrano inglese, Enrico VII, di aiutarlo a districarsi nei meandri della Curia Pontificia e di usare, a suo favore, tutta la sua influenza.
Così, nel corso di una grande cerimonia a Roma, un incaricato del re gli ha allacciato alla gamba sinistra, appena sotto il ginocchio, la preziosa giarrettiera blu ricamata col famoso motto “Honni soit qui mal y pense”.

Come dono di ringraziamento Guidobaldo ha commissionato a un giovane, ma già famoso pittore di Urbino, Raffaello Sanzio, un piccolo dipinto con San Giorgio e il drago. Il soggetto è stato scelto accuratamente: San Giorgio non è solo il protettore dei cavalieri della Giarrettiera, ma è anche il patrono d'Inghilterra.
Raffaello lavora per settimane e, alla fine, consegna un capolavoro, in cui il cavaliere, la principessa, il drago e il paesaggio dello sfondo si legano in un equilibrio perfetto. In più, è riuscito a rendere ben visibile l'onorificenza sulla gamba del Santo cavaliere.


Un omaggio raffinato, una piccola scheggia di Rinascimento italiano offerta al re d’Inghilterra.

Secondo atto: l'inquadratura cambia e si apre sul verde paesaggio della campagna inglese. Il dipinto è stato consegnato al sovrano con gran pompa ma, poco dopo, è passato nell'aristocratica dimora dei duchi di Pembroke.
Lì è rimasto fino al 1627, quando il raffinato e colto re Carlo I, colpito dalla grazia e dalla bellezza del quadro, lo ha richiesto in dono e lo ha portato a corte. Carlo è un collezionista accanito e, per la sua passione, ha dilapidato una fortuna (ne ho parlato QUI). È lui che ha messo a segno un colpo da maestro, acquistando in blocco una delle raccolte europee più prestigiose, la Galleria dei Gonzaga di Mantova.
Il piccolo Raffaello, nel palazzo reale è in buona compagnia, tra capolavori italiani e stranieri.
Potrebbe restare lì e, invece, il viaggio termina nel sangue.
Le spese dissennate di Carlo gli hanno alienato la popolazione, l'opposizione politica prende vigore e la situazione degenera fino alla guerra civile. Il re finirà per essere decapitato e le sue collezioni disperse e vendute.

Al San Giorgio con il suo drago non resta che ricominciare a viaggiare.

Il terzo atto si svolge all'interno della sontuosa casa parigina di Pierre Crozat, dove il san Giorgio approda, grazie a un acquisto, nel 1712. Crozat non è un nobile, ma un borghese, la cui famiglia ha accumulato ricchezza, grazie a malversazioni e corruzioni. Ora vuole cancellare il  passato, sfruttando la sua passione per l’arte. Il san Giorgio, appartenuto a re e a principi, sembra fatto apposta per conferirgli un'aura aristocratica: lo ha appeso, al posto d’onore, nel suo Cabinet, dove si incontrano gli artisti e gli intenditori d’arte di tutta Europa.
Grazie a lui, il piccolo dipinto diventa un quadro alla moda.

Duchi, papi, re, ricchi collezionisti: in questa storia c'è di tutto. Manca solo un grande intellettuale, ma  eccolo apparire a un altro cambio di scena.

Alla morte di Crozart, salta fuori niente di meno che il fondatore dell’"Enciclopedie", Denis Diderot, nel ruolo di consigliere per gli acquisti d’arte della zarina di tutte le Russie, Caterina.
Grazie al prestigio e all’impegno di Diderot Caterina riesce a acquistare tutta la quadreria di Crozat, compreso il san Giorgio, e a farla arrivare, dopo un estenuante tragitto in nave, a San Pietroburgo.
Le diciassette casse, piene di dipinti provenienti da Parigi, arrivano sulle rive della Neva poco prima dell'alba.
Sotto lo sguardo ammirato di Caterina, che nutre una vera e propria venerazione per Raffaello, il San Giorgio viene trasportato all’Ermitage, in quella che doveva essere la sua ultima destinazione.

Invece, nella misteriosa notte del 1930, cambierà tutto.

L'ordine di quel trasferimento è venuto davvero dall'alto.
È l'indiscusso capo della Russia sovietica, Stalin in persona, che ha deciso di vendere di nascosto i capolavori dell'Ermitage: i gioielli di famiglia, o meglio del popolo, in cambio di valuta pregiata.
Ha varato da poco il piano economico quinquennale, la riorganizzazione industriale e agricola del paese. Per questo ha bisogno di soldi, molti soldi e il San Giorgio e il drago di Raffaello vale una fortuna.

Resta solo da scoprire chi sia il misterioso acquirente, arrivato fino a Stalin, attraverso una rete di mercanti d'arte e collezionisti capaci di mantenere il segreto.
Potrebbe essere una banca, oppure un museo. Invece, no.
È il più spregiudicato e astuto dei capitalisti: un americano, addirittura il Segretario del Tesoro, un uomo che si è fatto da solo e che si è arricchito con tutti i mezzi. Si chiama Andrew W.Mellon ed è un collezionista dei più arroganti e determinati.
Stalin vuole soldi e lui vuole il Raffaello: in fondo non sono che affari. L'accordo si trova in fretta: sei milioni e cinquecentomila dollari americani si riversano nelle casse esauste della Repubblica sovietica.


Il dipinto cambia, così, definitivamente di scena.
Diventerà, insieme ai quadri della collezione Mellon, il nucleo fondamentale della National Gallery di Washington.
Stalin, col denaro ricevuto, farà aprire una fabbrica di carrarmati.

Il piccolo quadro, capolavoro di uno dei più grandi artisti del Rinascimento, legato all'aristocratico Ordine della Giarrettiera, orgoglio di re e di zarine, valore riconosciuto da comunisti e capitalisti, ha finalmente terminato il suo viaggio.
Forse.



Tutte le vicende del dipinto sono ripercorse nel libro di J.Pitman, Sulle tracce del drago, Longanesi 2006.

domenica 1 luglio 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Luglio






Ormai per me è diventata un'abitudine staccare, ai primi del mese, un foglio del calendario delle "Très riches heures du duc de Berry".
Oggi tocca al settimo: luglio.

In questi mesi, le immagini di sei secoli fa hanno accompagnato il variare delle stagioni, dal freddo dell'inverno al tepore della primavera.
Non so se ai primi del Quattrocento facesse lo stesso caldo soffocante di questi giorni, anche se si può immaginare che nel cielo ardesse, anche allora, un sole implacabile.
Al posto del tenero e fresco verde primaverile, che aveva fatto da sfondo alle miniature, da marzo a giugno, domina, ora, il colore estivo del giallo-oro del grano maturo nei campi.




Nella lunetta, che sovrasta la scena, sono raffigurati il carro del sole e i segni del mese, Cancro e Leone, mentre, nei cerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.

La scena rappresenta un momento della vita nelle campagne del Duca di Berry, con i contadini intenti ai lavori quotidiani della stagione.
I signori, con le loro eleganti vesti di damasco e di broccato, sono rimasti a difendersi dalla calura nel chiuso dei loro castelli.
Le dame devono proteggere la pelle delicata dai raggi del sole: il pallore, insieme al biondo dei capelli, è il segno distintivo dell'aristocrazia.

I contadini non hanno, certo, la possibilità di seguire la moda.
Sono già fortunati, se il signore non li opprime di tasse e se gli consente di tenere una parte del raccolto. E lavorano tutti, senza orari, senza badare all'inclemenza della stagione e senza distinzione di sesso.
Non sono ancora quelli i tempi dell'esaltazione della vita dei campi, né delle poesie sui pastori e sulle pastorelle: i miniatori, i fratelli de Limbourg e i loro collaboratori, raffigurano le attività agricole con un' esattezza priva di compiacimenti  sentimentali.

In basso a destra, un uomo e una donna, tutt'e due armati di cesoie, sono impegnati a tosare le pecore. L'uomo sembra più deciso e più esperto, mentre la donna, abbigliata con una lunga veste blu, inadatta alla stagione e con un pesante copricapo, segue attenta le istruzioni. Il vello, intanto, si accumula ai loro piedi.
A dare qualche illusione di frescura deve bastarle il rumore dell'acqua del ruscello che scorre vicino.




Sull'altra riva, in un campo delimitato da corsi d'acqua, due contadini, in corte camicie bianche e cappelli di paglia a larghe tese, sono occupati a mietere il grano, alternando il falcetto a una verga di legno usata per stendere le spighe.
Il grano mietuto giace sparso a terra, in attesa di essere disposto in covoni.





Sullo sfondo, una collinetta marrone, talmente convenzionale da avere l'aria di uno scenario di cartapesta, contrasta col realismo, da "ritratto d'architettura", di un castello turrito, unito alla sponda da un ponte levatoio e da una passerella di legno e coperto da tetti di ardesia grigio-blu.
È il castello di Poitiers, ora scomparso, che sorgeva sul fiume Clain e che rappresentava uno dei possedimenti più importanti del Duca.

Come al solito, i fratelli de Limbourg sanno illuminare la loro rappresentazione, che trascende da una semplice illustrazione per diventare arte e poesia.
I colori vivissimi e la luce restituiscono l'atmosfera di una calda giornata d'estate.
Gli occhi degli artisti si posano attenti su ogni particolare, dall'architettura dello splendido castello di sfondo, agli alberi che segnano il confine dei campi.
E ci invitano a soffermarci e a percorrere con lo sguardo tutta la scena, fino alla sorpresa di cogliere la grazia di dettagli, come i cigni che scivolano eleganti sul piccolo fiume, i giunchi che crescono sulle rive o  il rosso e l'azzurro dei papaveri e dei fiordalisi, che spiccano tra il giallo brillante delle spighe di grano.