martedì 28 febbraio 2012

I consigli di Achille Campanile ovvero Impara l'arte (1)




Duro il mestiere dello storico dell'arte, ancora di più quello del critico d'arte; ma anche fare il visitatore informato di mostre e musei non è, certamente, cosa da poco. È un terreno minato e, di sicuro, non ci si può improvvisare.




Come si fa a trovare sempre giudizi appropriati ? È davvero una faticaccia. Oggi, mentre leggevo un bel blog che ho scoperto da poco (qui), ho trovato pubblicato il racconto di uno scrittore per me mitico: Achille Campanile.
Non ho resistito alla tentazione di riproporlo qui, per fornire -a chi lo voglia usare- un codice adeguato di comportamento.

Il titolo è "Come visitare lo studio di un pittore". Però, debitamente riveduto e corretto, può valere anche per un museo, una mostra o una galleria d'arte. L'importante è seguire un metodo.


La visita allo studio d'un pittore è una cosa difficile.
Si comincia, di solito, a lodare sventatamente i primi quadri con superlativi; dopo qualche passo, l'incauto, che s'è slanciato a cuor leggero su questa via, deve ripetersi o tentar qualche variante... E poiché la buona educazione, e anche il pittore, vogliono un crescendo ammirativo nei giudizi, a un certo punto il visitatore non sa come andare avanti.
Se il primo quadro è bellissimo, il secondo splendido, il terzo maraviglioso e il quarto magnifico, come sarà il quinto? Mettiamo che sia sorprendente; al sesto vi voglio vedere. Per via del crescendo, esso non potrà che rientrare nell'ordine del soprannaturale. E dal settimo in poi?


Ecco. L'errore in cui cadono quelli che visitano lo studio d'un pittore, è di cominciare dai superlativi. Bisogna, invece, amministrare con previdenza il patrimonio degli aggettivi, magari cominciando con una certa freddezza. Ma se lo studio è molto fornito neppur questo è sufficiente; si comincerebbe con: "passabile, non c'è male, grazioso, bello", e subito si ricadrebbe nel vicolo cieco dei "bellissimo", eccetera.


Dunque? Dunque, signori, cominciare con apprezzamenti tanto più freddi, quanto più numerosi sono i quadri da esaminare, per aver poi il margine necessario al crescendo. Prima di cominciare il giro si domanda:

"Quanti sono i quadri da vedere?".
"Quattordici".
Bene. Per gli ultimi dieci sono a posto. Bisogna trovare gli apprezzamenti per i primi quattro: apprezzamenti freddi, date l'esigenze del crescendo.
Ecco uno

SPECCHIETTO PER QUATTORDICI QUADRI.
1 - Così, così.
2 - Passabile.
3 - Niente di straordinario, ma insomma ci possiamo contentare.
4 - Un pochino meglio.
5 - Non c'è male.
6 - Discreto.
7 - Grazioso.
8 - Bello.
9 - Bellissimo.
10 - Splendido.
11 - Maraviglioso.
12 - Magnifico.
13 - Sorprendente.
14 - Soprannaturale.
E se i quadri sono molti di più? Bando agli scrupoli: cominciare con apprezzamenti sfavorevoli. Ci guadagneranno i superlativi finali.
Mentre ci dirigevamo verso lo studio, ho chiesto al signor Gontrano:
"Quanti quadri? ".
"Un centinaio ".
Ho vacillato. Ma non mi son perso d'animo.
Davanti al primo non dico parola; per avere il vastissimo margine necessario al crescendo, e poiché sono un discreto simulatore, ho dato segni di nausea.
"Si sente male? ", fa Gontrano. "Vuole un vomitativo?".
"Non occorre", mormoro. "La vista di questo quadro è più che sufficiente. Mi fa rivoltar lo stomaco".
A mio zio per poco non viene un accidente. Amleto, impassibile, non aveva capito nulla, e Ambrogio dava segni di soddisfazione.
Quanto al signor Gontrano, era allibito. Non gli ho dato il tempo di reagire. Davanti al secondo quadro occorreva attenuare, ma non troppo.

"E' passato", mormoro, "ma anche questo quadro che obbrobrio!".
Gontrano era livido. Io pensavo: "Un po' di pazienza, amico. Fra poco mi abbraccerai". Ma, dopo cinque o sei quadri, a un mio "puah" di disgusto, scoppia :
"Pezzo di mascalzone, alla porta!".
Tanto peggio per lui, che così non m'ha sentito esclamare: "splendido, maraviglioso, incantevole".
E dire che ero già arrivato all'aggettivo "stomachevole".

(Achille Campanile, "In campagna è un'altra cosa")


 

venerdì 24 febbraio 2012

"La lattaia": il fascino discreto di Vermeer



Finché quella donna del Rijksmuseum
nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte
dalla brocca nella scodella,
il mondo non merita
la fine del mondo
(Wislawa Szymborska)


Jan Vermeer (1632-1675) non ha inventato niente. Non ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia dell'arte. Non ha nemmeno ideato teorie artistiche innovative e, in fondo, non ha dipinto che una quarantina di quadri.
Eppure la grazia e l'incanto sottile dei suoi dipinti continuano ad affascinarci.
Marcel Proust, nella Recherche, racconta che l'amore di Bergotte per Veermer lo porterà a morire, pur di vedere un suo quadro: gli dedica, in questo modo, l'omaggio più commovente che la letteratura possa fare alla pittura.

Vermeer è uno dei miei artisti preferiti e, forse, proprio per questo, avevo quasi pudore a parlarne.
Però in questi giorni, mentre stavo scrivendo tutt'altro,  mi  è venuta in mente, con insistenza, un'immagine, che non sono riuscita a cancellare.
È un'immagine notissima, abusata, ridotta a un logo pubblicitario per latticini, utilizzata per decorare scatole di caramelle o copertine di quaderni.
Eppure è ancora capace di imporsi con l'evidenza e l'emozione di un capolavoro

È La lattaia, una piccola tela (cm45x40), datata intorno al 1660 e ora al Rijksmuseum di Amsterdam.


Una stanza spoglia e una giovane donna che, sullo sfondo di un muro bianco, con un'espressione concentrata, versa il latte da una brocca. Sul pavimento è posato uno scaldino, mentre su un tavolo sono disposti vari oggetti: un cestino e dei pezzi di pane, un panno azzurro, un vaso e un recipiente in terracotta.
Ogni particolare è trattato con attenzione meticolosa: la crosta del pane, le piastrelle di ceramica, le macchie della calce o il chiodo piantato nel muro.
La luce che entra dalla finestra, a sinistra, fa brillare il secchio di rame nell'ombra e illumina una parte del viso della donna.

Che cosa rappresenta questo dipinto? A prima vista la risposta è facile. Una domestica che, in una cucina, compie un gesto di tutti i giorni.
Non è così semplice.
L'impressione è che, in questo minuscolo frammento di vita, ci sia un senso più profondo e che non sia soltanto la rappresentazione di una banale occupazione quotidiana.

Inutile cercare indizi nella biografia dell'artista: Vermeer non ci ha consegnato nessuno dei suoi pensieri. Certo ci piacerebbe prestargli il temperamento appassionato e i tratti fascinosi di Colin Firth, come nel film tratto dal romanzo "La ragazza con l'orecchino di perla". Ma, in realtà, della sua vita sappiamo solo quello che appare in qualche documento legale
Il padre era un mercante di quadri, ma, lui sceglie, da subito, di dedicarsi alla pittura e la sua carriera, come la sua vita, si svolgerà tutta nell'ambito ristretto della città Delft.
Quando comincia a dipingere l'economia olandese è all'apogeo. Dopo la fine della guerra con la Spagna (1648) la ricca borghesia mercantile si è sostutita al mecenatismo della chiesa e dell'aristocrazia e richiede, per le fastose dimore dei nuovi ricchi, dipinti con soggetti profani: nature morte, paesaggi e, soprattutto, descrizioni di interni e scene di vita quotidiana.


Sono questi i temi che Vermeer predilige e che ama dipingere, nel chiuso della sua casa e con un'estema accuratezza: ne esegue solo tre o quattro all' anno. Pochi, ma sufficienti a mantenere una famiglia sempre più numerosa. La moglie, che ha sposato nel 1653 e per cui si è convertito al cattolicesimo, gli darà ben quindici figli. Ed è in un'atmosfera familiare e appartata che porta avanti il suo lavoro.
Molti dei suoi dipinti sono come finestre che si aprono su interni luminosissimi, sempre puliti e ordinati, dove giovani donne, vestite con cura, compiono gli atti più normali: ricamano, leggono una lettera o, come nella Lattaia, versano del latte.


Qui tutto è dimesso e semplice: il fasto e l'esuberanza della pittura barocca sono assenti. Così come sono assenti l'abbondanza di particolari e le bizzarrie di quelle scene di cucine, che dominano il mercato dell'epoca.

Anche se c'è un'osservazione minuta dei dettagli, come le crepe del muro o il baluginio del rame, l'atmosfera è lontana da ogni realismo.


E non si tratta nemmeno di un ritratto, anche se la fisionomia sembra presa dal vero e la modella è stata identificata in Tanneke Everpoel, una domestica a servizio della famiglia Vermeer.




Un   gesto banale viene fermato nell'istante stesso in cui si compie.
E, in questo modo,  diventa solenne, pieno di dignità e assume un significato quasi sacro, tanto che la posa della donna è stata paragonata a quella della virtù della Temperanza, raffigurata, tradizionalmente, come una giovane che versa dell'acqua.
Su tutto domina la sensazione di un grande silenzio, di un attimo sospeso e di un momento di vita trasformato in un'immagine senza tempo.

Per ottenere questo risultato Vermeer si serve della luce. Una luce che nessuna riproduzione, per quanto sofisticata, riuscirà mai a restituire.
Quella luce che, entrando a fiotti dalla finestra, ci guida verso la mano della donna e il candore abbagliante del latte e che riesce a rivelare  la diversa consistenza dei materiali, i vimini del paniere, il tessuto grezzo dell'abito o il cotone della cuffia inamidata.
Eppure il numero di pigmenti di colore che, all'epoca, Vermeer poteva adoperare era limitato. La sua tavolozza ne comprende appena una ventina, ma lui li usa con grande maestria, lavorando con lentezza e meticolosità, con pochi tocchi alla volta .
Nella veste della giovane, sovrapponendo piccole pennellate, rende il giallo più vivo e vibrante, mentre, per ottenere l'intensità dell'azzurro, non utilizza la più comune azzurite, ma il più raro e costoso blu di lapislazzuli.

E, allora, anche un banale pezzo dl pane può diventare una costellazione di punti luminosi.

La luce non è resa con la nitidezza della pittura fiamminga, ma a piccolissimi punti di pennello. I contorni delle figure sono sfumati e le ombre sono colorate, in una combinazione straordinaria di indeterminatezza e precisione.


È la luce, che bagna tutta la scena a rendere evidente la bellezza nascosta in un'azione consueta.
La luce, insieme reale e astratta, rivela quello che c'è oltre l'ordinario e ci fa finalmente  scoprire il senso del dipinto e l'essenza stessa della pittura di Vermeer: l'idea che ogni piccolo gesto di tutti i giorni, ogni attimo dell'esistenza, possa acquistare un significato trascendente.

Come ha detto un grande storico dell'arte, Charles de Tolnay: "in Vermeer la vita quotidiana appare sotto l'aspetto dell'eternità".








venerdì 17 febbraio 2012

Giandomenico Tiepolo: il mondo nuovo




Per Giandomenco Tiepolo (1727-1804) essere figlio d’arte non è di certo facile. La sua è una famiglia impegnativa: gli zii materni sono Antonio e Francesco Guardi, ma, soprattutto, il padre è il grande Giambattista, il protagonista assoluto della scena pittorica veneziana.
Una presenza ingombrante per Giandomenico, che si è formato con lui e lo ha seguito per tutta Europa: da Wurzburg (ne ho parlato qui) a Madrid, dove Giambattista è morto.

Giandomenico, rientrato a Venezia, crea la sua bottega e consolida la sua reputazione di pittore e incisore, con una vena di ironia beffarda e malinconica. Ma l’ombra del padre continua a incombere su di lui.
Per sentirsi libero decide di dipingere ad affresco, solo per se stesso,  le pareti della sua villa di campagna a Zianigo. 
Là si sente svincolato da ogni pressione e può finalmente dare sfogo alla sua ispirazione. Dipinge piccoli ritratti di animali, storie di stralunati Pulcinella e scene di vita quotidiana.
Come il “Mondo Nuovo”:



Un grande affresco, largo cinque metri e alto circa due, con un taglio della scena teatrale o, meglio, cinematografico.
A sinistra una palizzata di assi, fa da quinta e indirizza lo sguardo verso un "casotto", una baracca sormontata da una torretta e con due stendardi. All'orizzonte si intravedono, indistinti, mare e laguna.
In primo piano, c'è un gruppo di persone tutte viste di spalle, dove si mescolano popolani, nobili e borghesi, uomini e donne, abbigliati in redingote, ampie gonne, parrucche, cuffie o cappelli. 
A sinistra, spicca la maschera di Pulcinella. In un angolo, tra la massa dei curiosi, due persone di profilo. Sono i due Tiepolo: Giandomenico, che sbircia la scena con l’occhialino e il padre Giambattista, a braccia conserte e con l’aria distaccata.

Al centro, un ragazzino vestito di bianco è il solo che sia rivolto verso lo spettatore.

Tutti sembrano in attesa di un evento: attendono il loro turno per guardare, dentro una finestrella del casotto, uno spettacolo che per noi resta invisibile.

Un uomo in tricorno, l'unico con un abito scuro, in piedi su uno sgabello, sembra mostrare qualcosa con una lunga bacchetta.


Se ci fosse il sonoro potremmo sentire, al di sopra del brusio, dei commenti e, forse, di qualche protesta, la voce squillante dell’ imbonitore, che  ripete: “Venite, venite a vedere il mondo nuovo”.
Ecco cosa aspettano: aspettano il “mondo nuovo”.

Siamo a Venezia nel 1791 e l’anno si è aperto, come al solito, tra le feste.
La città, estenuata dalle perdite economiche e militari, ha rinunciato al predominio sul Mediterraneo e alle sue fonti di ricchezza. Ma vive un tramonto glorioso: al potere reale si è sostituito quello dell’apparenza e non è mai sembrata così bella e lieta.
Ha 150.000 abitanti e - si dice - altrettanti turisti. È diventata una tappa obbligata del Grand Tour: la sua brillante vita mondana e un patrimonio artistico intatto, mai toccato da guerre o saccheggi, attraggono visitatori italiani e stranieri.

"Splendore e sporcizia", secondo un viaggiatore dell’epoca, si mescolano.
E la città sembra oscillare tra due anime, quella del gioco e delle avventure di Giacomo Casanova e quella critica e realistica di Carlo Goldoni.
La dolcezza del vivere è al suo culmine.
Ricevimenti, caffè, teatri, concerti, giochi d’azzardo e, soprattutto, il Carnevale.
Lunghissimo: cinque mesi l’anno, in cui tutti possono uscire in maschera. Ogni trasgressione è ammessa. E balli dappertutto, dai palazzi alle locande: un'entrata sicura per l’economia della città che, sul Carnevale, ormai, ci vive.
La gente ha un bisogno continuo di nuovi divertimenti.
Vicino a Piazza San Marco hanno costruito due "casotti", dove si mostrano le più varie attrazioni: cavadenti, animali esotici e uno svago che ha incontrato, da subito, un enorme successo, il "Mondo nuovo", appunto.
È un lanterna magica, un cosmorama, dove si possono vedere immagini esotiche di terre lontane.
Al "Mondo nuovo" si dedicano articoli e poesie. È uno spettacolo suggestivo che lascia spazio alla fantasia: l'evasione di cui molti hanno bisogno.

Ecco cosa sta guardando la folla dell’affresco.
Ma è solo questo? No, non è solo questo.
Quello che si avverte nel dipinto è, soprattutto, una sensazione di profonda inquietudine.
I tempi sono duri e Giandomenico Tiepolo lo sente. Non è più il momento per gli illusori mondi creati dalla pittura del padre, né per eleganze capricciose o riccioli vaporosi.
Il suo stile si semplifica, diventa sobrio, sintetico, quasi abbreviato.
Quello che conta è cogliere e ricreare l’atmosfera del tempo. E nell'aria c’è il senso imminente della fine di un’epoca.

La rivoluzione francese ha spazzato tutto, ha creato nuove aspirazioni e incrinato vecchie certezze. Tra pochi anni, le truppe napoleoniche entreranno in una Venezia stremata. Sarà proprio Bonaparte a cedere la Serenissima all'Austria.
Giandomenico Tiepolo, nato veneziano, morirà austriaco.
Questo, certamente, non lo può prevedere, ma, in qualche modo, lo intuisce.

La folla senza volto, accalcata intorno alla baracca, sembra rappresentare l’intera Venezia, col suo passato glorioso e il suo avvenire incerto.
Non è un caso che Tiepolo provi il bisogno di inserirvi le immagini che danno il senso del passare del tempo e dello scorrere delle generazioni: il ritratto di suo padre, la maschera di carnevale del Pulcinella e il ragazzo vestito di bianco che, forse, rappresenta il futuro.


Quella che tutti attendono è molto di più di una lanterna magica: è la promessa di un avvenire migliore e la speranza di un “mondo nuovo” che spazzi la paura del presente. E così si lasciano tentare dall'imbonitore e si rifugiano nell'ultima illusione.

Ma il dipinto non riguarda solo la Venezia del Settecento.
Ogni finis historiae, il dileguarsi di orizzonti e di sicurezze che accompagna il tramonto di un'epoca, porta i segni della stessa malinconica inquietudine.
Ed è quella inquietudine che sembra toccare anche noi e che riconosciamo nel nostro senso di incertezza e nelle nostre paure.



Gli affreschi della villa di Zianigo, che qualcuno ha paragonato addirittura ai dipinti della "Quinta del sordo" di Goya (1819-1823), furono fatti staccare nel 1906 dai proprietari di allora per venderli all'estero. La vendita, per fortuna, fu bloccata e ora sono tutti conservati nel museo di ca' Rezzonico a Venezia (qui il link)

 
 
 

sabato 11 febbraio 2012

Thomas Gainsborough: il "Ritratto di Mr e Mrs Andrews"




A Bruxelles il termometro segna - 9°: si gela. Meglio starsene in casa e, per distrarsi, cercare qualche immagine che racconti una storia.

Il Ritratto di Mr e Mrs Andrews di Thomas Gainsborough di storie ne racconta parecchie.


Siamo nella campagna inglese, nel Suffolk, nell' estate del 1749: il grano è stato appena mietuto e raccolto in covoni.
Sotto una grande quercia c'è una coppia in posa.
I documenti ci dicono che i due si sono appena sposati e che il dipinto è stato commissionato per celebrarne le nozze: lui, Robert Andrews, ha ventidue anni, lei, Frances Mary Carter, sedici.

L'autore, Thomas Gainsborough (1727-1788), è nato anche lui nel Suffolk da una famiglia di modesti mercanti di tessuti e si è trasferito a Londra per fare il pittore.
Si é sposato l'anno prima, in segreto: la moglie era incinta e il matrimonio un obbligo. La necessità di mantenere la famiglia lo ha costretto ad abbandonare l'idea di specializzarsi in paesaggi, come i pittori olandesi che ama tanto. 
Ha deciso, invece, di ripiegare sul genere molto più redditizio dei ritratti. 
In città, però, non ha trovato lavoro ed è rientrato per cercarsi qualche commissione.

La prima che ottiene è quella di Robert Andrews, forse perché i due si conoscono, sono coetanei e cresciuti nello stesso paese.
Il dipinto per Gainsborough rappresenta un banco di prova e lui ce la mette tutta, cercando di concilare la sua passione per il paesaggio con un ritratto tradizionale. Sceglie, dunque, un taglio inconsueto con il paesaggio, che occupa più di metà del dipinto e che diventa protagonista. E il suo sguardo si posa, con la medesima attenzione, sulla campagna all'orizzonte e sui lineamenti dei due sposi.

Due giovani, un matrimonio, la campagna inglese: l'atmosfera è quella di un romanzo dell'epoca.
È l'ora di conoscere meglio i due protagonisti.

Robert Andrews è in piedi con un abito chiaro, la cravatta allentata, la giacca sbottonata, il tricorno posato negligentemente sui capelli. In mano tiene un fucile e ha accanto un cane, come fosse appena tornato dalla caccia. Ha l'espressione di un uomo compiaciuto del proprio rango e l'atteggiamento disinvolto di un gentiluomo, dall'aria sofisticata e dal sangue blu.

E invece, no. Di sangue blu nemmeno l'ombra.
Robert è un nuovo ricco, un parvenu.
È suo padre che ha creato la fortuna familiare con il suo lavoro di orefice e oculati acquisti fondiari ma, soprattutto, con la sua attività di usuraio.

Gli studi a Oxford e le nozze con Frances Mary Carter, figlia di un facoltoso proprietario e con una ricca dote, sono fondamentali per far dimenticare la dubitosa reputazione del padre e iniziare la sua ascesa sociale.
Altro che sospiri o languori di innamorati: quello che si celebra nel dipinto non è un matrimonio d'amore, ma un contratto, vantaggioso per entrambi, che ha unito, più che i due sposi, i terreni confinanti delle due famiglie.

Anche Frances ne è soddisfatta e si vede.
Si è abbigliata con i pezzi migliori del suo guardaroba. Sfoggia un vezzoso copricapo e un abito di seta azzurra, allargato fino a coprire quasi tutta la panchina, su cui siede. La seta del vestito e gli elegantissimi scarpini sono inadatti alla campagna, ma lei vuol far sapere che è ricca e aggiornata sulle raffinatezze del bel mondo.
Lo sguardo freddo, la bocca sottile e increspata, l'espressione contegnosa, molto più vecchia dei suoi sedici anni, dimostrano che anche per lei il matrimonio è un punto di partenza. Condivide pienamente le aspirazioni del marito  e - chissà-forse sogna di accrescere la famiglia, come farebbero supporre i simboli di fecondità che appaiono, discretamente, qua e là (il grano, la quercia).
Sul suo grembo è stato lasciato uno spazio non dipinto, forse per accogliere, in futuro, la raffigurazione dell'erede o, più prosaicamente, come farebbe pensare la penna che tiene in mano, un fagiano, preda di caccia del marito.

Gainsborough sembra cogliere tutti i pensieri più nascosti dei giovani sposi e li trasmette impietosamente.
Non cerca di idealizzare i suoi modelli, ma di resituirli il piú fedelmente possibile.



E così fa con il paesaggio che è tutt'altro che uno sfondo a un idillio campagnolo: è, invece, la rappresentazione precisa della grande tenuta, su cui si fonderà la fortuna della nuova famiglia. 
È l'orgoglio dei due coniugi, il loro patrimonio comune e il loro vanto.
Non è certo un parco, in cui passeggiare, mano nella mano, in contemplazione della natura. Sono pascoli e campi coltivati con le più moderne tecniche agricole, che Gainsborough rende con assoluta esattezza: il grano è piantato intensivamente, i recinti che delimitano il terreno sono un'innovazione recente e perfino le pecore- come affermano studiosi dagli occhi buoni-  sono di una razza introdotta da poco in Inghilterra.

I due sposi sono fieri e soddisfatti di essere rappresentati sullo sfondo dei loro redditizi possessi, ben tenuti e sfruttati al massimo.
Il perfetto ritratto dell'ambizione di due "landower", la classe emergente dei proprietari terrieri: è stato definito. Ma Gainsborough, in realtà, non ha in mente di fare una critica sociale: si limita a registrare quello che osserva. Meglio ancora, rappresenta quello che intuisce dietro la facciata, anche se con un filo di ironia.
Rimane, soprattutto, un grande pittore e lo si vede, quando si abbandona al puro piacere di dipingere e indugia sul colore cangiante della seta, sul contrasto nel verde e nell’oro dei campi o sulle nuvole di un cielo temporalesco.
La sua pittura è come una porta che si apre sulla vita del Settecento e permette di ricreare lo spaccato di un epoca. Tanto che viene voglia di sapere come andrà a finire.
Come fosse un romanzo.

Per Gainsborough il dipinto sarà l'inizio di una bella carriera.
Mr e Mrs Andrews (come dubitarne?) vedranno coronate le loro ambizioni e avranno una numerosa discendenza. E il ritratto, dopo essere rimasto a lungo proprietà della famiglia dei committenti, sarà venduto per una cifra da capogiro alla National Gallery di Londra.
Un lieto fine per tutti, dunque.
E, allora, non rimane  che scrivere l'ultima parola: the end, naturalmente.



sabato 4 febbraio 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Febbraio




“Il primo paesaggio innevato della storia della pittura(Erwin Panofsky)


Secondo mese dell’anno, seconda miniatura del calendario delle "Très riches heures du duc de Berry”.
Basta lasciarsi andare alla suggestione dell'immagine, creata dai fratelli de Limbourg, per entrare  in una sorta di macchina del tempo e ritrovarsi, sei secoli fa, nell'inverrno del 1414. 


Il mese di gennaio si era aperto con una scena di vita di corte, all’interno del palazzo del Duca di Berry, al caldo del fuoco del camino e con una tavola imbandita per un banchetto.
Febbraio inizia all’esterno, con una scena di vita contadina.

Nella lunetta con il carro del sole Febbraio è individuato dai segni astrologici dell’Aquario e dei Pesci, mentre, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la diversa lunghezza dei giorni.

Guardare la miniatura è come aprire la finestra su un gelido paesaggio invernale.
Siamo nel nord della Francia, nel pieno di un inverno rigido, con un cielo cupo e una luce pallida e glaciale.
I colori sono spenti e quasi annegati nel biancore della neve, una neve candida e soffice che ricopre tutto.


Nonostante il freddo, l'attività non ha soste: c'è chi, al limitare di un bosco spoglio, taglia i rami degli alberi.

E c'è chi, lasciando pesanti impronte sulla neve, trasporta, su un asino, le merci destinate al villaggio sullo sfondo.




Nel podere recintato in primo piano c’è tutto quello che serve per lottare contro i rigori dell’inverno, perfino qualche chicco di grano, sparso per terra per nutrire gli uccelli affamati.

I quattro alveari servono per il miele, il dolcificante più diffuso, e per la cera delle candele
La torre cilindrica è una colombaia ed è un segno di ricchezza: i colombi, allora, erano preziosi non solo per la carne, ma, soprattutto, per il concime. Il loro numero era rigidamente regolamentato e proporzionato all'estensione del terreno.

Nell'ovile sono racchiuse le pecore, gli animali più facili da allevare: pascolano nei terreni più poveri e, oltre alla carne e il latte, forniscono anche la lana.
Le ruote di un carro, alcune fascine di legna e qualche botte riempiono lo spazio dell'aia.

A destra, in primo piano, un contadino infreddolito, coperto da un mantello di lana, soffia sulle mani intirizzite dal gelo e si affretta a trovare un rifugio.


Nella casa di legno c'è un camino acceso con un bel fuoco, e c'è già chi si sta riscaldando, sollevandosi impudicamente gli indumenti.

Più decorosa  è la donna, con un elegante abito azzurro; sosta sulla soglia, con un cagnolino ai suoi piedi e distoglie lo sguardo imbarazzata. Il copricapo e  la morbida veste indicano che appartiene a una classe agiata.

La casa non è che un'unica stanza con un soffitto ribassato e un pavimento in terra battuta. Le pareti sono di legno, senza alcuna decorazione e con due finestre, piccole e strette, per non disperdere il calore.
Il letto sullo sfondo e gli abiti appesi fanno pensare a una famiglia benestante; i più poveri dormivano su giacigli arrangiati e non avevano, certo, abiti di ricambio.


Tutto fa supporre che sia la casa di un contadino agiato, che possiede animali e strumenti di lavoro e che, forse, vive su un terreno concesso in cambio dell'affitto e di una parte della produzione.

I dettagli precisi e accurati (le orme sulla neve, il fiato addensato del contadino, il tetto dell'ovile) danno l’impressione di un’adesione perfetta alla realtà.
È vero, ma non del tutto, perché questa è solo una faccia della medaglia. Quella che è raffigurata è sì la vita di un contadino, ma  come piaceva immaginarla al committente del manoscritto, il duca di Berry.
Nel mondo  della miniatura, l'inverno non fa paura: non c'è fame, né miseria o malattia. Eppure siamo nel pieno della guerra dei Cento anni e, fuori della protezione delle mura dei castelli o delle fortezze, carestie, violenze e saccheggi, fanno pare del quotidiano.
Ma il duca, come i signori del tempo, non ama soffermarsi sulle brutture della vita.

Gli artisti sono al suo servizio per offrirgli la raffigurazione di  una realtà edulcorata, una specie di favola.
L'ambiente rustico e la spudoratezza dei contadini servono ad esaltare, per contrasto, la raffinatezza della vita di corte.
Il calendario, del resto, era fatto per essere mostrato agli ospiti e per esibire la magnificenza del duca e la  ricchezza dei suoi possedimenti.
La vita vera è un'altra cosa: quella doveva restarne fuori.
L'evasione, anche allora, era un lusso.
Tutto doveva essere pulito, sereno e armonioso nel mondo perfetto della miniatura.