mercoledì 27 novembre 2013

Nello studio di Jan Vermeer: " L'allegoria della pittura"




Se la pittura di Vermer è tutta qui, mi pare che quel "qui" sia una vastità" (G. Ungaretti)


Ormai è una superstar. Dopo un'esistenza riservata e tutta dedicata al lavoro, dopo due secoli d'oblio e la riscoperta ottocentesca, oggi basta esporre anche uno solo dei suoi dipinti per attirare migliaia di visitatori.
A rischio quasi di farlo passare per un'icona pop.
Per ritrovare la sua magia, però, bastano il silenzio e l'incanto di un dipinto come questo: una tela, datata tra il 1666 e il '68 e ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna


La porta è aperta e la pensante tenda di broccato sembra scostata apposta per noi. 
Non ci resta che oltrepassarla per entrare nello studio di Vermeer (1632-1675). 
Tutto è in ordine: non c'è nulla del caos che ci saremmo aspettati nell'atélier di un pittore. Le comodità, invece, non mancano: mobili di pregio, una scultura, qualche stoffa preziosa  e perfino una carta geografica appesa alla parete, come usava, allora, nelle case dei più ricchi.

La stanza, ampia e luminosa, col pavimento a grandi riquadri bianchi e neri, è quella abitualmente utilizzata al primo piano della casa della suocera. Un'agiata dimora borghese nel quartiere "papista" di Delft, dove è andato ad abitare dopo il matrimonio e la conversione al cattolicesimo. 
Con venti stanze e tre piani, la casa è grande, ma la famiglia è aumentata così rapidamente (quindici figli) che sembra  quasi diventata angusta. 
Non è facile per lui, così lento e meticoloso, isolarsi per dedicarsi alla pittura. Il suo lavoro lo occupa giorno e notte e, come al solito, fa tutto da solo: mantenere un collaboratore gli costerebbe troppo. 

Ed eccolo, al centro della scena, mentre sta ritraendo una giovane donna, che tiene in mano un libro e una tromba e ha in testa una corona di alloro. 
Con gli occhi pudicamente abbassati e l'aria gracile da ragazzina, sembra una delle servette di casa, travestita apposta per mettersi in posa.

Un pittore e una modella: sembrerebbe un momento come tanti nella vita di un artista. Eppure, come spesso succede con Vermeer, si ha l'impressione che non sia tutto qui e che qualcosa ci sfugga. 

A cominciare dall'aspetto del protagonista che, invece di mostrarsi in bella vista, ci volta le spalle, mentre siede al cavalletto, vestito con un abito fin troppo elaborato e completamente  inadatto al lavoro. 
E poi le vesti che indossa, dal giubbotto traforato sulla camicia bianca, alle calze portate arrotolate alle caviglie, sono sorpassate: andavano di moda, in Olanda, più di un decennio prima.
Se si guarda ancora meglio, ci si accorge, poi, che Vermeer, di solito così preciso, ha mescolato parti di verità a piccole incongruenze. 
Intanto, la grande carta geografica alla parete rappresenta una situazione vecchia di mezzo secolo, prima della creazione del nuovo Stato olandese.
Poi, per esempio,  ha tracciato sulla tela dove lavora lo schema iniziale di una composizione, però sta usando un poggia-mano, un bastoncino col pomo d'avorio, che dovrebbe essere riservato solo alla rifinitura finale

Viene, allora, il dubbio che quella a cui assistiamo sia una messa in scena e che Vermeer abbia trasformato il suo studio nella scenografia di un teatro, in cui sia lui che la modella recitano una parte. 
Ma quale?
La chiave sta tutta nell'abbigliamento della donna: secondo l'"Iconologia" di Cesare Ripa, un testo fondamentale per gli artisti dell'epoca, la tromba e l'alloro sono gli attributi della fama, mentre il libro allude alla storiografia. 
Si tratta, dunque, di una rappresentazione di Clio, la musa della storia e dell'ispirazione artistica.

Ed ecco che la scena assume tutt'altro significato: non è un autoritratto di pittore nello studio- all'epoca piuttosto frequente- ma un'allegoria della pittura. 
Vermeer non è di quelli che scrivono trattati, o elaborano teorie. 
Se vuole celebrare la sua arte, proprio negli anni del suo riconoscimento ufficiale e della sua nomina a Sindaco della Gilda dei pittori di Delft, preferisce farlo nel modo che conosce meglio: dipingendo. 
E lo fa, senza retorica e senza enfasi, evitando di usare i soliti riferimenti mitologici o alla storia antica. 

Sceglie di raffigurare una stanza di casa sua, con la luce, che entra da una finestra fuori-campo e rende vero ogni dettaglio, dalla stoffa della tenda in primo piano, al pavimento che ha l'aria di essere appena pulito, ai bagliori del bronzo scintillante del lampadario. 
In questa scenografia casalinga, con un  semplice pezzo di stoffa azzurra e una trombetta di latta, trasforma una servetta timida nella musa Clio. 
Poi fa sì che l'artista al cavalletto, abbigliato con un vestito fuori moda, scovato nel fondo di qualche armadio, diventi il simbolo, senza tempo, di tutti i pittori. 
E ci fa capire che la pittura, più ancora della scultura, simboleggiata dalla testa di gesso posata sul tavolo, è in grado di ricreare una realtà fuori dal tempo e di rendere eterno ogni minimo frammento di vita.

Vermeer sa di essere un grande pittore e ne va fiero: per questo terrà questa tela nel suo studio, senza mai venderla e, alla sua morte, la moglie rifiuterà di cederla per pagare i debiti. 
Rappresenta il suo omaggio all'arte che ha sempre praticato, con orgoglio e senza mai venire meno, malgrado le difficoltà e i problemi economici.
Sa che gli bastano colori e pennelli e, in quella stanza  al primo piano di una casa affollata e rumorosa di voci infantili, potrà trasfigurare, nella serena perfezione delle sue tele, anche i più modesti particolari quotidiani. 

Grazie al suo modo di usare la luce e il colore, la rappresentazione di un artista al lavoro, quella di una domestica che versa il latte (ne ho parlato qui), di una piccola via di Delft o di una ragazza con l'orecchino di perla potranno assumere un significato universale e  diventare opere in grado di attraversare i secoli.

All'interno di quella nitida dimora olandese la pittura avrà compiuto, ancora una volta, la sua magia.






giovedì 21 novembre 2013

Il buon diavolo di Michael Pacher




Si sa che quando il diavolo ci mette lo zampino è  impossibile resistere. 
E, allora, non potevo che cedere alla tentazione di pubblicare un'immagine come questa: 


Il dipinto, che fa parte del grande polittico con i Padri della chiesa, ora nell'Alte Pinakothek di Monaco, fu eseguito da Michael Pacher (1430-1498) alla fine degli anni '70 del Quattrocento per l'abbazia di Novacella nei pressi di Bressanone.

Nella via principale di quella che ha l'aria di una cittadina delle Alpi, con le sue strade sterrate e la tipica architettura di tetti spioventi e di terrazzi "a sporto", c'è chi siede pigramente sulla soglia di casa, chi si affaccia a una finestra e chi chiacchiera su una balconata. 
L'atmosfera potrebbe essere quella di una tranquilla giornata di sole, se non fosse per i due singolari personaggi in primo piano

A sinistra, sant'Agostino, nello sfarzo delle sue vesti vescovili, con un ricco piviale chiuso da una preziosa spilla, stringe in mano un gigantesco pastorale. Sulla mitria, ornata di gemme, poggia un' aureola di quelle dette "a piattello", così solida da assomigliare a un disco di legno. 
Fin qui, niente di strano.
Il fatto è che, nella totale indifferenza dei passanti, si è messo a parlare col più improponibile degli interlocutori: niente di meno che il diavolo.

Nessun dubbio sull'identità demoniaca. 
Non si può dire che il repertorio degli attributi infernali non sia completo: corna, occhi iniettati di sangue, corta proboscide, zanne ricurve e, perfino, orecchie da cui escono lingue di fuoco. 
Il corpo esile, con spina dorsale a scaglie e ali da pipistrello, ornate dalle nervature di una foglia, poggia su gambe sottilissime, simbolo dell'instabilità della menzogna.
Non gli mancano nemmeno gli zoccoli caprini e la coda arricciata. 
Una seconda faccia, con tanto di occhi, bocca e zanne, è ben visibile in corrispondenza del sedere.

Il verde vivace del corpo potrebbe stupire chi è abituato a immaginare i demoni di un colore rosso o nero, più consono alle fiamme e all'oscurità dell’inferno. Ma è vero che siamo nel Quattrocento e il verde, oggi così ecologicamente rassicurante, allora non godeva di buona fama. In  tintoria si faticava talmente tanto a renderlo stabile da farlo diventare il simbolo della volubilità, della follia e del gioco. Colore più adatto all'incostanza demoniaca non si poteva trovare.
Insomma, nulla da eccepire: di fronte a sant'Agostino c'è proprio il diavolo fatto e finito.

E chissà trai due quali sottili diatribe teologiche o quali discussioni su anime da salvare si svolgeranno. 
Invece, no, niente di tutto questo: quello che succede tra di loro- stando al più diffuso testo medioevale di Vite di Santi, la "Leggenda Aurea" di Jacopo da Varagine- ha il tono di un racconto ingenuo e edificante.
Semplicemente (si fa per dire) nel corso della sua passeggiata quotidiana sant'Agostino ha incontrato il demonio con in spalla un libro talmente pesante da farlo vacillare sulle sue gambette sottili. Ha riconosciuto subito il "Libro dei Vizi", dove sono registrati tutti i peccati degli uomini e, incuriosito, lo ha convinto a mostrarglielo. 
Ha  scoperto così che, nel grande volume, l'unico peccato registrato a suo carico è quello di essersi scordato, una volta, di recitare compieta, l'ultima preghiera della giornata liturgica.
Tutto qui. 
Per il Santo, un Dottore della Chiesa abituato a dibattere gli argomenti più sofisticati, trovare un rimedio non è stato difficile: gli è bastato entrare in chiesa e recitare la preghiera dimenticata per cancellare immediatamente la sua colpa. 
Non c'è voluto molto per giocare in astuzia il diavolo che, scornato e confuso, si è dichiarato sconfitto ed è rientrato all'inferno- si suppone- con la coda tra le gambe.

Solo un grande pittore, come Michael Pacher, poteva dare un tocco di verità a questo strano incontro. Per questo si è servito di tutte le sue conoscenze, a partire dall'ambientazione in una cittadina che tanto somiglia a quella in cui è nato, Brunico, in val Pusteria. 
E poi si è certamente ricordato di quanto ha appreso a Padova, dove era andato per imparare il mestiere e dove era entrato in contatto con le opere di Donatello e con artisti come Andrea Mantegna o Jacopo Bellini. Con loro aveva condiviso l’amore per l'antichità classica, l'uso della prospettiva matematica e i nuovi principi rinascimentali (qui  e qui sono link )

Col suo stile, insieme tradizionale e aggiornato, con la sua nitida costruzione spaziale, la sua concretezza e la sua definizione di ogni dettaglio è riuscito a restituire un'atmosfera sospesa tra favola e realtà. E a trasformare il diavolo in un verde bitorzoluto lucertolone, talmente innocuo che perfino uno stratagemma infantile è in grado di sconfiggerlo. 
Una consolazione per chi tutti i giorni doveva affrontare il male nella durezza e nella difficoltà del vivere. 

Nella luce cristallina del dipinto, ogni timore sembra evaporare come nebbia al sole e il signore delle tenebre, almeno per un momento, può smettere di fare paura.







Per chi ha voglia di andare a caccia di altre immagini di diavoli in Alto Adige, qui è un link.




venerdì 15 novembre 2013

Le fotografie di Norbert Ghisoland: la vita davanti all'obiettivo




Un pugile che, con la sua posa aggressiva, sembra pronto a scatenarsi  su un pavimento lucidissimo  tra tende e candelabri, in un'ambiente che, più che a un ring, assomiglia a una sala da ballo:



il volto di  bambino che sbuca da quella che sembra una scenografia in cartapesta, completa di un cancello su un giardino, di un sole, di un palloncino e perfino, di un vestitino infantile con maglietta e pantaloncini:



Un giovane ciclista che pedala  su uno sfondo di nebbia e di alberi e che sembra guardarci con un'espressione  sospettosa:


Una bambina che, vestita col suo pigiamino bianco, sullo sfondo di un camino e con una candela accesa in mano, illumina il buio circostante


Un gruppo di famiglia con tre sorelle abbigliate con immacolati vestitini a righe e un bambino, l’unico maschio, che ci lancia uno sguardo e tra timido e arrogante:


Sono alcune delle migliaia di fotografie scattate da Norbert Ghisoland (1878-1939) tra gli anni'20 e  '30 del Novecento.
Siamo nel sud del Belgio, nel Borinage, una regione di miniere di carbone che alimentano, all’epoca, tutta l’Europa, ma anche una terra di miseria e di lotte sociali.  
La vita è dura e lascia i segni sui volti, come quelli dei miniatori ritratti da Van Gogh che, proprio nel Borinage, aveva svolto la sua attività di predicatore, prima di dedicarsi esclusivamente alla pittura

Anche il padre di Norbert Ghisolan ha lavorato per tutta la vita in miniera e la fatica la conosce bene, tanto che coltiva il sogno di sottrarre i figli a  un destino come il suo. 
Coi suoi risparmi ha comprato un'intera attrezzatura da fotografo per consentire loro un mestiere diverso.
Dopo la morte in guerra del fratello maggiore toccherà a Norbert, seguire un corso di fotografia in città, a Mons, e aprire, nel 1920, il suo studio nel suo piccolo paese, a Frameries, al pianterreno della casa dei suoi: là passerà tutta la vita. 
Si sposerà, avrà dei figli, vivrà la sua esistenza appartata, nel rigore di una famiglia protestante, tra preghiera  e lavoro. Tanto lavoro.
Quasi tutti gli abitanti della regione finiranno per entrare nel suo studio per una carta d'identità, ma anche per  avere una foto in ricordo degli eventi familiari, dal matrimonio al battesimo, o un ritratto da scambiarsi  in occasione di un fidanzamento e, magari, da appendere, poi, nel salotto buono di casa. 
Un’attività, simile a quella di tanti fotografi di paese, da onesto artigiano senza tanti grilli per la testa. Giorno dopo giorno, per vent'anni.

Alla sua morte lascerà un patrimonio impressionante: ben 90.000 lastre fotografiche classificate, numerate e conservate in casse di cartone, anche se una buona metà, regalata per beneficenza, andrà distrutta nel 1953. 
Le altre saranno salvate dal nipote, anche lui fotografo, prima che, negli anni '90, una serie di mostre e di libri non riscopra  Ghisoland e inserisca a buon diritto la sua attività nella storia della fotografia (qui è un link al racconto del nipote).


Stampando quelle lastre, ci si rende conto che, su quello stesso sfondo dipinto, arricchito con qualche mobile banale, si è messa in posa un'intera comunità

Operai, casalinghe, piccoli artigiani, bambini che si fanno ritrarre, un po' goffamente, indossando le loro vesti migliori. 

Danno l'idea di voler avere,  almeno sulla foto, l'apparenza di quei signori, delle cui vite hanno spesso sognato. 
Ma qualche dettaglio come un bottone staccato, le maniche troppo corte o- come nella ragazza del ritratto- un abito troppo nuovo e le scarpette di vernice che non sembrano mai usate finisce, alle volte, per tradirli.

Nello studio di Gisoland c'è poco posto per le raffinatezze della moda.

Quella che domina anche lì è la durezza della vita: i bambini delle foto hanno l'aria di essere cresciuti prematuramente- come quelli che già a dodici anni sono entrati in miniera- e raramente si lasciano andare al sorriso. Anche quando, per gioco, si presentano travestiti da sposini:



oppure si adattano, come queste due ragazzine tutte compunte,  alla fantasia un po'surreale e al gusto per il travestimento del fotografo, capace di confezionare per loro un vestito da infermiere in carta di giornale:


E, spesso, dietro l'atteggiamento dignitoso, si avverte  un disagio che commuove, come in questa foto di padre e figlia che, tutti eleganti, si tengono per mano sullo sfondo di un giardino:



C'è sempre qualcosa nei ritratti di Ghisoland che ci cattura. E non è solo la qualità tecnica.

C'è un'emozione vera, che poco ha a che fare con le sottili distinzioni della critica e le discussioni se per queste foto si debba parlare d'arte o di sociologia.
Il fascino di queste immagini nasce da qualcos'altro.

È che davanti all'obiettivo di Ghisoland, al suo sguardo partecipe e rispettoso sono passate migliaia di persone comuni, con la loro fatica di vivere, ma anche col loro bagaglio di sogni, di passioni, di desideri. 
Grazie alla sua perizia tecnica, al suo gusto per l'inquadratura e alla sua finezza psicologica, da modesto artigiano senza pretese artistiche, ma con l'unica preoccupazione di far bene, ne ha capito e catturato tutti i sentimenti, anche quelli più profondi e  difficili da esprimere a parole.  

È che, nelle sue foto, queste vite silenziose, altrimenti destinate a essere ignorate, hanno finalmente lasciato una traccia.






QUI è un link al sito dedicato a Norbert Ghisoland.

sabato 9 novembre 2013

Anversa, il quartiere dello Zurenborg: una passeggiata senza tempo




Quale occasione migliore di questa bella giornata di un sontuoso e dorato autunno belga  per fare una passeggiata? E magari per scegliere, stavolta, di non avventurarsi nei sentieri fangosi di un bosco, ma nelle strade della periferia di una città.
Se stiamo alle guide (le poche che ne parlano) Berchem è semplicemente  una località a sud est di Anversa con la fermata del treno della linea Bruxelles-Amsterdam, immediatamente prima di arrivare in città.
Invece, Berchem è molto di più.
Proprio là, schiacciato tra il ponte della ferrovia e la stazione, c'è un piccolo quartiere, composto di cinque o sei vie che si incrociano: lo Zurenborg.

Tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento questa zona era praticamente aperta campagna. 
Si decide allora di lottizzare i terreni  per consentire alle famiglie più ricche di costruirsi, a pochi chilometri dalla città, case ampie e con giardini confortevoli  e di sfuggire alla confusione e all'affollamento del centro. 
In una quarantina d'anni, tra il 1881 e 1914, il quartiere di Zurenborg fu interamente completato.


Anversa è, all'epoca, il porto più grande d'Europa: la città cresce a vista d’occhio tanto che gli abitanti sono aumentati, in poco tempo, da due a trecentomila.
La borghesia cittadina, orgogliosa di produrre ricchezza col commercio navale e con quello dei diamanti, rifugge da ogni idea di understatement: i più sono convinti che il benessere e l'opulenza debbano essere esibiti, senza pudore.


Chi viene ad abitare nel nuovo quartiere è sicuro che potrà costruire come meglio crede: non c'è un piano regolatore, né tanto meno disposizioni urbanistiche vincolanti. 
Gli agiati borghesi di Anversa, si sentono liberi di ostentare, con fierezza, nelle loro case appena edificate, lo  status sociale  raggiunto. 
Gli architetti fanno  a gara per dimostrare la loro originalità, utilizzando i più vari stili: sanno che l'unico limite alla loro fantasia è nel portafoglio dei committenti.

E si vede. 
Più di duecento case, stipate in meno di cinquecento metri, formano un esempio straordinario dell'eclettismo di fine secolo. Edifici in stile neo-gotico, possono costeggiare dimore rococò, un palazzo in stile "veneziano" con le sue raffinate bifore  può trovare posto accanto a castellotto medioevale con tanto di merlatura. 
Una torretta di mattoni, sormontata da un tempietto circolare, può sbucare quasi all'improvviso tra candidi edifici neo-classici.



Agli incroci, invece, le quattro  case d'angolo presentano spesso  decorazioni omogenee, come nella piazza progettata dall'architetto Joseph Bascourt. 
Ognuna delle case- tutte con i loro raffinatissimi mosaici su fondo dorato inseriti sopra le porte e le facciate  che ripropongono i medesimi colori tra bianco e verde- è dedicata a una delle quattro stagioni.
La casa della Primavera è adornata, ad esempio, da ghirlande di fiori in boccio, mentre quella dell'Autunno è decorata da foglie variopinte.


Altrove, invece, i proprietari hanno fatto di testa loro e ognuno, nella facciata della propria casa, ha deciso rievocare qualche fatto storico oppure di esaltare la scienza e la filosofia. Nessuna regola: un palazzo può ostentare una serie di busti  all'antica, un altro può essere dedicato all'esaltazione di Carlomagno, oppure mostrare l'immagine di un Napoleone con tanto di bicorno sormontare i cannoni della fatale battaglia di Waterloo.

C'è chi preferisce intitolare la propria casa  alle parti del giorno, dall'alba al tramonto, chi ai fiori più diffusi,  e chi ai nomi dei venti, da borea al maestrale. 
A tutti è lasciata  ampia libertà d'immaginazione, tanto che non stupisce che, sul terrazzo di un tetto,  possa spuntare, come aggiunta moderna ma in perfetta armonia con tutti il resto, un elemento del tutto incongruo. 
Addirittura Humphrey Bogart che, abbigliato nel candido smoking che sfoggia in "Casablanca", sorseggia il suo immancabile bicchiere di whisky.

Ma  sono soprattutto i dettagli delle case Art Nouveau, lo stile che tra Otto e Novecento invade tutto il Belgio, a riempire gli occhi, e a meravigliare con la raffinatezza e la ricchezza delle decorazioni, dal mosaico, al legno intagliato, al ferro lavorato
Come le linee curve, i capitelli di pietra e le corolle di bronzo dorato nella bianca casa intitolata al girasole dell'architetto Jules Hofman.

Basta camminare per le vie del quartiere in una giornata di sole autunnale come quella di oggi (e di belle giornate ce ne sono anche da queste parti) per rimanere incantati dal dettaglio di una porta, di una finestra, o di una mansarda.
Oppure per fermarsi, col naso in aria,  ad ammirare, le volute eleganti di una ringhiera.
O, per perdersi, levando lo sguardo,  tra le tegole  e le banderuole dei tetti  grigi di ardesia. 
Insomma, passeggiare per lo Zurenborg, ora in gran parte restaurato, dopo le distruzioni e le speculazioni edilizie degli anni '70, è un po' come tornare indietro nel tempo. 
Nessuna insegna, nessun negozio. Nemmeno i bistrot, altrove onnipresenti. 
Solo il silenzio e quell'atmosfera "fin de siècle" che le foto si sforzano di restituire.

Se si lascia spazio alla fantasia, ci si può immaginare di sentire il rumore delle carrozze o lo sferragliare di un vecchio tramway.
E, perché no, si può sognare di veder camminare a passo lento eleganti signori col bastone da passeggio e affascinanti dame con la veletta.

Oppure ci si può divertire a sbirciare in quegli interni che, come un palcoscenico di teatro, si offrono ai nostri sguardi attraverso le ampie aperture delle finestre, sullo sfondo del verde ombroso dei giardini. 



Niente di fragoroso, nessun monumento così rilevante da obbligare alla visita e nemmeno nessun asterisco nelle guide turistiche.
Lo Zurenborg continua a vivere una sua tranquilla e appartata esistenza.
Tanto che, quando capita di accompagnarvi qualche amico che viene a trovarci, si ha ogni volta l'impressione di condividere il piacere di una scoperta.
Come avviene spesso in Belgio per quei luoghi, che, lontani dai sentieri troppo battuti, sembrano rivelarsi solo a chi è capace di percepirne il fascino.
Ma che, se ci si prende il tempo di assaporarli dettaglio per dettaglio, non finiscono mai di stupirci. 
E di conquistarci.








I link sulla storia e le vicende dello Zurenborg sono qui e qui.
Le foto sono quelle scattate dal mio compagno di passeggiate e di vita e pubblicate in "Panoramio", col nome de "Lo zio di Leo"




venerdì 1 novembre 2013

Il Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: novembre




Sembra quasi impossibile in questi giorni, in cui si avverte ancora nell'aria la dolcezza dell’estate, ma il mese di novembre sta per iniziare. 
Il tempo incalza ed è già l’ora di staccare il foglio dal calendario e di vedere cosa ci riserva l’undicesima scena del Ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento.


La parte alta è riservata agli svaghi dei nobili e all'attività tipica del mese: la caccia. E non è una caccia qualsiasi. 
Tra gli alberi che cominciano a perdere le foglie e le rocce aguzze delle montagne di un colore ocra che da solo evoca l’autunno, al suono del corno, un gruppo di aristocratici, preceduto da uno stuolo di battitori e da mute di cani, si cimenta nell'inseguimento di un’orsa con i suoi piccoli. 


La caccia all'orso, all'epoca degli affreschi, agli inizi del Quattrocento, era ancora considerato un passatempo prestigioso da riservare solo alla più alta nobiltà. 
Anche nelle valli e nelle montagne trentine, feudo del committente del ciclo, il principe Giorgio di Liechtenstein, gli aristocratici erano gli unici a potere esercitare il diritto di cacciare la selvaggina di grossa taglia nei fitti boschi che ricoprivano gran parte dei territorio. 
Per i più giovani, la caccia all'orso, avventurosa e crudele, era l’occasione di impratichirsi nell'uso delle armi e di dare prova del loro coraggio.

La scena di caccia continua nella parte centrale dell'affresco: un gruppo di cavalieri, tutti armati di picche e di lance, sta per inoltrarsi per la montagna, mentre altri si prendono una pausa per riscaldarsi al caldo di un fuoco acceso. Il clima, probabilmente, è già rigido.
I campi sono deserti perché, all'approssimarsi dell’inverno, i contadini hanno sospeso i loro lavori. 
Tutta l’attività si concentra ora alle porte delle città, che, in vista della brutta stagione, cominciano ad approvvigionarsi con i prodotti della campagna.

Ed ecco che, in basso, è raffigurata la città di Trento che ha l'aria di  un paese da favola con le sue mura bianche, i tetti, i comignoli e il campanile aguzzo di una chiesa. 
La rappresentazione, interrotta dall'esile colonnina che divide le scene dell'affresco, continua nell'attiguo Mese di dicembre.


Attraverso una porta della cinta muraria, dopo aver attraversato il ponte di legno che valica il fossato, i porcari stanno per entrare in città: portano con loro i maiali, che fino ad allora hanno allevato all'aperto, nutrendoli con le ghiande dei boschi.
È arrivato il tempo della macellazione che, secondo la tradizione doveva avvenire nel periodo compreso tra la festa di sant'Andrea (30 novembre) e quella di sant'Antonio (17 gennaio), nel momento in cui, dopo la pastura estiva, iniziava la stagione più adatta alla conservazione delle carni. 
In città i "beccai" (i macellai), i "salaroli" e i "lardaroli " sono già in attesa di iniziare il loro lavoro. Sanno che tutti aspettano di riempire le loro dispense.
L'inverno è alle porte e non c'è di meglio che affrontare la brutta stagione al caldo e con la certezza che tutto il necessario è assicurato.  
I contadini rimarranno a sorvegliare i campi, mentre molti dei ricchi aristocratici lasceranno la campagna e i loro svaghi all'aria aperta per rifugiarsi nel chiuso delle loro lussuose dimore cittadine.

Novembre è già iniziato, tra un po' l'anno si concluderà: negli affreschi le attività dei contadini e gli svaghi dei nobili si sono susseguite, mese dopo mese, mentre nello sfondo ininterrotto il paesaggio variava col mutare delle stagioni. 
Dopo la neve dell'inverno, è spuntato il verde tenero dei primi germogli primaverili, e, poi, il giallo delle messi dell'estate ha ceduto il posto ai colori caldi dell'autunno. 
E chissà che il committente, nell'intimità della raffinata sala di Torre Aquila, che ha fatto costruire e decorare con le pitture di Mastro Venceslao, nel contemplare gli affreschi  che si snodano sulle pareti, con le loro scene che seguono il succedersi dei periodi dell'anno, non mediti sul trascorrere del tempo e della vita. 
E che non gli affiorino alla mente pensieri simili a quelli espressi nei versi che un poeta inglese aveva dedicato, un secolo prima, all'ineluttabile ripetersi del ciclo della natura:

"...ecco che il tempo del mondo combatte l'inverno,
il freddo affonda nel suolo, si alzano le nubi,
scende in caldi scrosci brillante la pioggia,
cade sui prati e vi nascono i fiori,
la terra e i cespugli si vestono di verde,
gli uccelli cantano a gloria
della dolce estate felice che viene sulle colline,
e i bocci si gonfiano in fiore sulle siepi ricolme,
molti e nobili canti si odono nello splendido bosco.
Quindi la stagione d'estate coi venti leggeri,
quando Zefiro spira felice sui semi e le piante...
Ma poi s'affetta l'autunno e presto la tempra,
la vuole matura perché viene l'inverno..
Il vento rabbioso dal cielo lotta col sole,
cadono le foglie dagli alberi e si posano a terra,
e tutta s'ingrigia l'erba che prima era verde...
Scompare così l'anno in tanti ieri
e torna ancora l'inverno, com'è la legge del mondo"

(Sir Gwan and the Green Knight, versi 505-530, trad.di Piero Boitani)