sabato 28 dicembre 2013

Le "Très riches heures du Duc de Berry": l'uomo dello Zodiaco




"Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia..."(W.Shakespeare, Amleto, atto I)


Oroscopi, pronostici, previsioni per l’anno nuovo…l’influenza delle stelle non è mai tanto presente nei discorsi e, forse anche nei pensieri, come negli ultimi giorni di dicembre.
Il periodo giusto per pubblicare un’immagine tratta dalle "Très riches heures” del Duca di Berry, il cui straordinario calendario ha accompagnato proprio qui, mese dopo mese, tutto il 2012.

Ancora una volta è l’occasione di tornare indietro nel tempo, più di sei secoli fa, agli inizi del Quattrocento, fino ad arrivare, nel nord della Francia, nella favolosa corte di Jean de Valois, duca di Berry, il committente del manoscritto. 
Figlio e fratello di re, il Duca ha saputo fare del fasto e del lusso della sua corte un modello per tutta l’aristocrazia europea. 
Infaticabile costruttore di palazzi e di castelli degni di una favola, è anche un collezionista e un mecenate senza pari: le sue raccolte comprendono vasi antichi, monete, arazzi, tessuti, gioielli, reliquiari o cammei. 
Niente è troppo raro o prezioso per non trovare posto nell'ambiente illuminato dai bagliori dell'oro della sua "Stanza delle meraviglie". 
Fra tutti gli oggetti di lusso, di cui si circonda, i suoi preferiti sono i manoscritti miniati,  che allora rappresentano un vero e proprio segno di distinzione aristocratica e di ricchezza. 
Per questo non ha badato a spese pur di avere al suo servizio i più importanti miniatori del tempo,  i fratelli Pol, Jan e Herman di Limbourg.  

Ma il collezionismo e la miniatura non sono la sua unica passione.
Come tutta la famiglia reale dei Valois, è affascinato dall'astrologia: il suo astrologo personale- sussurrano i maligni- è il personaggio della corte più influente e più lautamente stipendiato. 
Si dice che il Duca si rivolga a lui in ogni circostanza, dalle decisioni politiche o di strategia militare, alla scelta delle date più propizie  per ogni evento pubblico o privato.
Non stupisce perciò che abbia scelto di porre proprio alla fine del più lussuoso dei suoi manoscritti, le "Très riches heures", dopo l'elenco delle preghiere da recitare in ogni periodo dell'anno, una raffigurazione come questa:


Negli angoli superiori della pagina compaiono, ben visibili, gli stemmi del Duca con i tre  gigli dorati su fondo azzurro dei Reali di Francia. 
In basso, invece, le lettere intrecciate V e E richiamano le iniziali delle parole di uno dei suoi motti araldici “En Vous”.

Al centro della scena, all'interno di una mandorla circondata dalle indicazioni dei mesi e dai segni zodiacali, sullo sfondo di un cielo azzurro chiaro solcato da  una serie di fitte nuvolette grigie, domina una strana figura. 
È l'"uomo anatomico o uomo zodiacale", dove ogni parte del corpo corrisponde- come voleva la medicina astrologica, la melothesia- a un diverso segno dello zodiaco. 
Un raffigurazione diffusa a partire dall'antichità classica, ma che qui appare completamente rinnovata. Invece di un uomo, compaiono due esili e androgine figure, poste schiena contro schiena, una bionda, vista di faccia che forse rappresenta il carattere femminile, l’altra bruna che potrebbe alludere a quello maschile.

Lungo il corpo, posto sotto il dominio degli astri sono rappresentati, come in una sorta di mappa celeste, tutti segni dello zodiaco
Adagiato tra i capelli, l’Ariete presiede alla testa e alla faccia, mentre il Toro, quasi nascosto sulla nuca, provvede al collo e alla gola. Ai Gemelli, abbarbicati sulle spalle, spettano braccia e mani, al Cancro, invece, il petto. 
Il Leone, con la sua fiera criniera, governa il cuore, mentre l’elegantissima Vergine protegge l’addome; i reni sono sotto l’influenza di una Bilancia tutta dorata, i genitali sono protetti da un nero Scorpione. 
Dal Sagittario, rappresentato in atto di scoccare una freccia, dipendono le cosce, dal Capricorno le ginocchia. 
L’Acquario è in relazione con entrambe le gambe, i Pesci con i piedi.

Ad ogni angolo della pagina, poi, un’iscrizione riassume la relazione tra i segni zodiacali, i caratteri, i temperamenti e, perfino, i punti cardinali: in alto a sinistra “L’Ariete il Leone e il Sagittario, sono caldi e secchi, collerici, mascolini, orientali”, a destra  “Il Toro, la Vergine e il Capricorno sono freddi e secchi, malinconici, femminili, occidentali”. E poi in basso a sinistra “ I Gemelli,  l’Acquario e la Bilancia sono caldi e umidi, mascolini, sanguigni, meridionali", a destra “Il Cancro, lo Scorpione e i Pesci sono freddi e umidi, flemmatici, femminili, settentrionali”.

Insomma, un compendio di astrologia spicciola ad uso del Duca e dei suoi aristocratici cortigiani, conquistati dalla "dottrina delle stelle": –si potrebbe pensare.
Invece no, nella miniatura c’è molto di più.
L’arte dei fratelli Limbourg ha saputo creare un capolavoro di leggerezza e di raffinatezza che va ben oltre un’illustrazione astrologica
La delicatezza dell'esecuzione, le esili ed eleganti proporzioni, la preziosità dei colori che vanno dall'oro, al rosa, al celeste al blu squillante dei lapislazzuli, fanno sì che l’immagine dell’”uomo zodiacale” diventi un’icona senza tempo.
E che si trasformi nel simbolo stesso dell’armonia e della segreta bellezza che unisce, in un unico insieme che va dagli astri al corpo dell’uomo, ogni frammento dell’universo.

Bellezza e armonia: l'immagine più adatta per augurare a tutti un sereno anno nuovo!







sabato 21 dicembre 2013

"La bagnante" di Joan Miró: il colore dei sogni




"Joan Mirò è un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni" (Jacques Prévert)


Alberi di Natale, pacchetti colorati, slitte, renne, neve, presepi… 
E se, invece, cercassi qualcosa di diverso per "rivestire" il blog dell'abito delle feste? 
Magari potrei trovare un'immagine completamente differente, ma capace lo stesso di trasmettere un senso di gioia e di serenità. 
Ecco!  Ci vorrebbe proprio un dipinto come questo:


"La Bagnante", una tela di Joan Miró, attualmente conservata a Parigi, al Centre Pompidou.
Lo sfondo è di un azzurro profondo, dove si mescolano l'oscurità di un cielo notturno e la limpidezza dell'acqua del mare. Quel blu, che secondo Miró, è il "colore dei sogni", occupa tutta la scena. 
Poi, soltanto una barca, un pesce, una falce di luna, delle linee sottili che suggeriscono l’orizzonte, le stelle o il moto delle onde.
Tutto qui. Eppure basta a creare un'atmosfera perfetta e a tenerci sospesi tra sogno e poesia.

Siamo nel 1924 e da tre anni Miró (1893-1983) è arrivato a Parigi. Nato a Barcellona, figlio di un’orefice, ha deciso molto presto di non riprendere il mestiere del padre e di dedicarsi, invece, alla pittura. 
Ha scelto di trasferirsi in Francia con la voglia  di trovare un modo di dipingere che sia tutto suo, che gli appartenga davvero. 
Non è più un ragazzo- ha poco più di trent'anni- e sostiene di essere stanco di rappresentare, nella sua pittura, il mondo così com'è; quello che vuole, ora, è arrivare a fissare sulla tela le sue emozioni e i suoi sogni. 
A Parigi è tutto un fervore di idee: lì si incontrano scrittori, poeti, pittori, lì si respira un'aria libera e appassionata. Miró è convinto che finalmente potrà rinnovare il suo modo di fare arte.
Si è avvicinato, da poco, al nuovo movimento dei surrealisti capitanato da André Breton. Con loro ha discusso e condiviso molte delle idee che, proprio nel 1924, appaiono esposte nel loro "Manifesto": il rifiuto di ogni logica, la volontà di liberare la mente e di arrivare, attraverso libere associazioni, fino all'inconscio e al mondo del sogno
Ne è talmente entusiasta da apparire allora il "più surrealista di tutti", come lo definisce  Breton, nel suo desiderio di  sentirsi libero e di dare spazio alle sue sensazioni più profonde. 


La’”Bagnante” è uno dei primi dipinti di questo periodo.
In un equilibrio perfetto tra arte figurativa e astrattismo, parte dall'osservazione della realtà, per poi semplificarla e ridurla, con la precisione del figlio di un orefice, ai soli elementi essenziali: punti, linee, masse colorate, figure geometriche pure.
Quasi fossero ideogrammi di una strana lingua, a cui ognuno può dare il significato che vuole e per cui tutte le interpretazioni sono valide.

Guardare un dipinto come questo è come entrare in un mondo, dove le cose, anche le più piccole e banali, acquistano un senso diverso. 
"Inizio le mie tele sotto l’effetto di uno choc che mi fa sfuggire alla realtà- spiega Miró. Può essere una goccia d’acqua…l’impronta di un dito, un granello di polvere o un filo di luce. Quella forma dà origine a una serie di cose, ognuna delle quali ne fa nascere un’altra. Così un pezzetto di filo può generare un mondo”.

E per dare forma al suo mondo in una composizione, dove ogni elemento sia necessario e dove nulla possa essere spostato o cambiato per non alterarne l’equilibrio, non si può improvvisare. Occorre tempo.
Lui stesso parla  del suo lavoro come quello di un giardiniere, perché per coltivare e rappresentare i propri sogni bisogna avere la stessa pazienza che occorre per far crescere una pianta. 
"Mi  basta un attimo per tracciare una linea col pennello, ma mi ci sono voluti mesi, forse anni di riflessione per concepirla": afferma.

Solo così riesce a fare sì che nei suoi segni e nei suoi colori si possa trovare l'armonia gioiosa di un sogno realizzato.
"Miró- racconta Alberto Giacometti- era quel che di più libero, di più aereo, di più leggero… avessi visto. Eppure non poteva fare nemmeno un punto senza farlo cadere nel posto giusto…"


C'è anche chi ha detto di lui che "gioca con i suoi quadri come un bambino"
E, in effetti, dei bambini ha la fantasia, la semplicità, ma, anche e soprattutto, il rigore.

Basta perdersi qui nel blu del suo mare, in quei segni che, più che rappresentare, suggeriscono gli oggetti, per capire come sia precisa la trama delle sue immagini.
E come sia nitida, anche se impalpabile, la rete che ci cattura e ci trascina nel suo mondo incantato.

Leggerezza, magia, sogno....Proprio quello che ci vuole per accompagnarci in questi giorni.

E  per augurare, nel segno della levità, buone feste a tutti!








sabato 14 dicembre 2013

"Il compleanno" di Marc Chagall: una storia d'amore




"Se creo qualcosa, usando il cuore, molto facilmente funzionerà, se uso la testa sarà molto difficile" (Marc Chagall)



Dicembre è un mese che mi è sempre piaciuto: è il mese delle feste di Natale, del calore delle case, dei ritrovi con gli amici e della dolcezza degli affetti familiari. E, poi, è anche il mese, in cui sono nata. 
E allora, come immagine di questi giorni, niente di più adatto di un dipinto come questo di Marc Chagall (1887-1985), ora al Moma di New York, intitolato, appunto, "Il compleanno":


In una stanza dalle pareti bianche e dal pavimento rosso, spiccano la coperta vivace del letto e i tessuti multicolori appesi alle pareti. Una finestra con le tendine bianche, si apre sulla via di una città, mentre su un tavolo sono abbandonati un borsellino, un vassoio con una torta e un coltello.
Al centro, due giovani: lei tiene tra le mani un mazzo di fiori, lui piega la testa per baciarla. Tutt’e due sono sospesi nell’aria, come se si fossero appena librati in volo.

Siamo nell'estate del 1915 e quei due innamorati altri non sono che Marc e Bella Chagall.
Chagall è appena ritornato da un lungo soggiorno a Parigi. 
Là ha conosciuto i pittori cubisti, da cui ha appreso la libertà di scomporre le immagini e di forzare i confini della prospettiva tradizionale. 
E, soprattutto, è entrato in contatto con gli esponenti del movimento dei fauves, Matisse in testa, che gli hanno insegnato a raffigurare le emozioni attraverso il colore.

E quell'estate le emozioni per lui sono tante.
È contento di essere rientrato a casa e di riassaporare i colori e gli odori della sua città. 
Vitebsk (oggi in Bielorussia) ad altri potrà sembrare una cittadina di provincia, ma, per lui, è tutto il suo mondo. 
In quelle strade colorata e affollata di gente, con i mercati, le botteghe, le chiese ortodosse e le sinagoghe, Chagall- ebreo di nascita- può rivivere le tradizioni della sua famiglia, le feste solenni o i rituali antichi della preparazione della Pasqua.
In quell'ambiente può rievocare nei suoi dipinti che hanno il tono di una fiaba la presenza quotidiana dei rabbini, i racconti degli antichi testi sacri, la paura e la miseria di tutti i giorni, ma anche l’allegria sfrenata delle danze, i suoni dei violini e della musica klezmer.

Per lui, l'amore e la felicità fanno parte integrante di quel mondo.
In quell'estate del 1915 sta finalmente per sposare la sua Bella e dare un lieto fine alla loro storia d’amore. 
Si sono conosciuti a San Pietroburgo, sei anni prima, lui ventitreenne, lei appena quindicenne: poi si sono rivisti più volte a Vitebsk presso il ponte, dove le viuzze strette e scure del centro della città  cedono il posto alla luce delle rive del fiume.
Tutt'e due provengono da famiglie ebree osservanti, ma, per il resto, tra di loro c’è un abisso. 
Chagall, allora un pittore spiantato figlio di un modesto mercante di aringhe, di sicuro non è un buon partito per una studentessa erede di una dinastia di agiati commercianti, proprietari dei più lussuosi negozi di oreficeria della città. 
Lui, pur di guadagnare qualcosa, si è messo a dipingere insegne di botteghe di barbieri e di macellai; lei, lontana dallo stereotipo della  ragazzina ricca e viziata, è riuscita ad essere accettata da una scuola esclusiva di Mosca e, con l’idea di dedicarsi al teatro, ha iniziato a frequentare un corso di recitazione.

Non potrebbero essere più diversi, eppure, fin dal primo incontro, tra i due scocca la scintilla: lui racconterà nella sua autobiografia di una giovane dalla pelle d’avorio e dai grandi occhi neri che lo ha affascinato da subito. 
Lei parlerà di un colpo di fulmine per quello strano ragazzo dai riccioli spettinati e lo "sguardo di una volpe negli occhi azzurro-cielo".
Sarà un grande amore di quelli che durano per tutta la vita.
E ora Chagall quell'amore lo vuole raffigurare sulla tela e dare forma e colori alla loro felicità.

È il giorno del suo compleanno e, per fargli una sorpresa, Bella ha comprato un mazzo di fiori e ha appeso scialli multicolori alle pareti della sua stanza. Lui, d’improvviso, capisce che quello è un istante speciale, che è il momento giusto per realizzare il suo dipinto:
"Ti getti sulla tela- racconta Bella- premi il colore dai tubetti e intingi i pennelli: il rosso, il nero, il bianco, il blu. E mi trascini nel torrente dei tuoi colori. A un tratto mi sollevi da terra e tu stesso prendi lo slancio …. E tutt'e due lentamente ci solleviamo...e ci involiamo. Arriviamo alla finestra e vorremmo attraversarla. Fuori ci chiamano le nuvole e il cielo blu: i muri con tutti i miei scialli variopinti girano intorno a noi…"

Ed è proprio così che Chagall arriva a rendere in pittura quell'attimo perfetto: i colori vivaci, blu, rosso, verde, giallo, danno l’idea dell’allegria.
Sogno e realtà si mescolano.
La stanza è quella di tutti i giorni e ogni dettaglio è rappresentato con grande precisione.
Solo che ora è la felicità ad abitarla, a illuminare ogni angolo e a far sì che i due innamorati si involino a mezz'aria, per il tempo di un bacio. 

Ancora non lo sanno, ma il futuro, per loro, avrà le tinte fosche di un incubo: la loro città, il loro mondo sarà annientato dalla barbarie del nazismo. 
Finiranno esuli in Francia e poi negli Stati Uniti, ma resteranno sempre insieme, fino alla morte di Bella nel 1944.

Rimarrà, in quelle due figure abbracciate, sospese nello spazio e nel tempo, l'espressione più alta- in pittura- di un amore gioioso e innocente, ancora non toccato dalle brutture della vita.



Marc e Bella Chagall nel 1933




In un bel libro intitolato "Come fiamma che brucia" (ed. Donzelli 2012, trad. di Lilia Greco) corredato dai disegni di Chagall, Bella rievoca la sua infanzia, la città di Vitebsk e il loro amore: qui è il link


sabato 7 dicembre 2013

Cardinali apoplettici, nature troppo morte e Gioconde fumatrici: l'arte lieve dell'incoerenza



"Le persone che non ridono non sono persone serie" (Alphonse Allais)


Che cosa succede a Parigi in un assolato giorno d'ottobre del 1883 alla Galerie Vivienne? I manifesti pubblicizzano una mostra d'arte: la gente che entra è tanta, uomini, donne, famiglie intere. 
Nelle sale si sentono riecheggiare delle grandi risate. E tutti escono sorridendo.

Se diamo un'occhiata all'interno vediamo che molti si accalcano di fronte a una tela tutta dipinta di rosso.
Una novità assoluta, visto che l'astrattismo è ancora molto lontano.
Perché, ben prima dei quadrati di Malevic e dei dipinti in blu di Yves Klein (ne parlo qui), Alphonse Allais, uno scrittore che fino ad allora non ha mai dipinto (qui), ha esposto niente di meno che un monocromo.
Anzi, un "monocromo figurativo", come lo definisce, perché nella sua tela un soggetto c'è ed è specificato nella didascalia: "Cardinali apoplettici che raccolgono pomodori sulle rive del Mar Rosso".
Eccolo qua nella riproduzione di un catalogo dell'epoca:


Accanto, c'è un altro monocromo, stavolta tutto bianco, dove chi ha occhio e fantasia può distinguere, anche se con un po' di fatica,  "La prima Comunione di giovani anemiche in un tempo nevoso":


Novità dirompenti, addirittura rivoluzionarie- si direbbe- eppure nessuno si meraviglia, né tanto meno si indigna, com'è successo, qualche anno prima, per molto meno, con i dipinti dei pittori impressionisti.

È che il pubblico della Galerie Vivienne sa benissimo quel che lo aspetta.

Tutto è nato l'anno prima, nel 1882, con un’esposizione organizzata nel suo minuscolo appartamento agli Champs Elysées da Jules Levy (qui): si trattava allora di disegni eseguiti da persone che- dichiaratamente- non sapevano disegnare, con l'idea di prendere in giro la pomposità dei pittori accademici e delle esposizioni dei Saloni ufficiali.
Il successo era stato talmente clamoroso (ben duemila visitatori in pochi giorni) da sancire la nascita di un nuovo movimento artistico: quello delle "Arti incoerenti".

Un movimento che, da subito, ha travolto Parigi
Non solo esposizioni in locali che vanno dall'Olympia alle Folies Bergère, ma anche incontri nei caffè o nei teatri (happening li chiameremmo oggi) e grandi balli mascherati a tema.
Sembra, allora, che tutto possa essere definito un'opera d'arte incoerente.
Gli unici limiti sono l’osceno e, soprattutto, la serietà: "le serieux abrutit, la gaietè regenère/ la serietà abbrutisce, la gaiezza rigenera":- afferma Levy.
Per il resto, tutto è concesso pur di vincere la medaglia di cioccolato messa in palio come premio. 

Alle mostre partecipano scrittori, poeti, musicisti, a cui si aggiungono successivamente anche pittori e illustratori come Tolouse Lautrec o Caran d'Hache, gli stessi che si ritrovano a Montmartre intorno a quel cabaret molto speciale che è "Le Chat Noir" (ne ho parlato qui).

E davvero si espone di tutto, pur di divertire il pubblico.
Caricature, satire politiche, ma anche parodie della pittura tradizionale, come questa Monna Lisa che molto prima di sfoggiare i baffi che le farà Marcel Duchamp, fuma tranquillamente la sua pipa.


Il pezzo forte sono i calembours pittorici, le sciarade, i giochi di parole basati sull'omofonia. 
Termini che si scrivono diversamente e che hanno significati differenti, ma che si pronunciano nello stesso modo, come in questo dipinto intitolato "Porc trait par Van Dyck" (e "porc trait" si legge come "portrait "ritratto), dove campeggia un robusto maiale.


O la Venere di Milo (o, meglio, "La Venus de mille-eaux") che, in virtù dell'omofonia della pronuncia, poggia su una base ornata dalle più svariate etichette di acque minerali 

L'assurdo parte dai titoli, ma poi tracima dappertutto dai materiali alle tecniche.




Tele di dodici metri per dodici si affiancano a quelle di un metro e mezzo per dieci centimetri, per arrivare- come appare in questa riproduzione-  a enormi quadri formati da una composizione di  piccoli dipinti: una sorta di pittorico kit Ikea ante litteram modulabile per appartamenti grandi o piccoli.
E poi compaiono supporti di ogni tipo, dalle tele tradizionali, ai sacchi da caffè, alle salsicce, ai manici di scopa, alle pentole o, addirittura, al dorso di un cavallo. 
Con le tecniche ci si può sbizzarrire quanto si vuole: acqua di seltz (per gli acquerelli), olio di fegato di merluzzo, o olio con uno spicchio d'aglio per le tele, tulle bianco per suggerire una nevicata, parrucche vere aggiunte a un ritratto, collage di carta stampata, pezzi di pane e di formaggio.

Nemmeno i generi pittorici escono indenni.
Si va dalle "nature molto morte" (come questa) caratterizzate dalla presenza di lugubri teschi,  alle "nature cotte" (quando si tratta di cibi cucinati), mentre per i "Ritratti di anonimi" si utilizza uno specchio che riflette chiunque si metta in posa.

Una libertà totale, ma senza volontà dissacratorie o complesse rivendicazioni, come avverrà per le avanguardie del Novecento, dal movimento Dada ai surrealisti.
Gli "Incoerenti" non si prendono sul serio: fanno festa, coinvolgono il pubblico, ridono e fanno ridere. E non è compito facile.
L'ultimo dei loro pensieri è elaborare teorie fumose o stabilire se la loro sia o non sia arte.

Quattro anni dopo la prima esposizione, non appena l'entusiasmo si affievolisce, è lo stesso iniziatore del movimento, Jules Levy a proclamare "la fine dell’Incoerenza" con un grande ballo in costume alle Folies Bergère completato da un corteo funebre danzante.

Il movimento finisce con la stessa levità con cui era cominciato.
Scritti, manifesti teorici non ce ne sono mai stati; delle opere fatte con materiali deperibili ed eseguite apposta per essere effimere non rimane traccia, se non nelle illustrazioni dei cataloghi.

Di tutta la vicenda delle "Arti incoerenti"- come per il gatto del Chelsire di Alice nel paese delle meraviglie- rimane solo il ricordo di un sorriso.
E la sensazione che nell'arte, come nella vita, la conquista più difficile sia la leggerezza





Un link a un  sito interamente dedicato alle "Arti incoerenti" è qui



domenica 1 dicembre 2013

Il Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: dicembre




"E mi addormento come in letargo, dicembre alle tue porte/lungo i tuoi giorni con la mente spargo tristi semi di morte... "( F. Guccini, La canzone dei dodici mesi)


L'ultimo mese dell'anno, l'ultimo foglio da "staccare" dal calendario del Ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento. 
Ormai tocca a dicembre:


Che gran freddo doveva fare nell'inverno di sei secoli fa nelle valli intorno a Trento!
Sulle montagne, sotto un cielo livido, sul terreno ghiacciato di un bosco, gli alberi hanno già perso le foglie e molti tronchi sono stati abbattuti, ma i taglialegna sono ancora in piena attività. 
Con le loro corte tunichette bianche, sembrano intirizziti dal freddo, mentre lavorano con asce, scuri e accette oppure legano i mucchi della legna appena tagliata.

Le cataste già pronte vengono caricate sui carri, che, trainati da coppie di buoi, scendono dalla montagna per entrare, attraverso la porta daziaria, nella città di Trento, raffigurata più in basso.

La legna servirà a riscaldare le case durante il lungo inverno.


Anche in città il freddo si fa sentire: lo si vede bene dai ghiaccioli che pendono dalle gronde del castello del Buonconsiglio, rappresentato, sulla sinistra, su uno sperone roccioso: la doppia cortina di mura che lo circonda racchiude gli edifici  in muratura e la torre circolare (il mastio) in pietra e legno.
Malgrado il gelo, dappertutto c'è una grande animazione: una carovana di muli, carichi di merci, si dirige verso il castello, mentre, in basso, due cavalieri scortano un nobile signore che esce da una delle porte delle mura. 
Prima di avviarsi, i due fanno abbeverare i cavalli nelle acque del fossato.
L'anno finisce così com'era iniziato, nel freddo e nella neve.
Anche il Ciclo dei Mesi termina qui. 

Il committente, il principe-vescovo Giorgio di Liechtenstein, si era impadronito, a suo tempo, della Torre Aquila per farne la sua residenza privata e, nella sala di rappresentanza, aveva fatto eseguire il grande calendario da un pittore itinerante che i documenti chiamano Mastro Venceslao
Gli affreschi, mese dopo mese, gli avevano dato l'illusione di vivere in un modo ordinato e tranquillo, con i nobili e i contadini che si dedicavano in armonia alle loro attività e le sue terre che prosperavano sotto il suo buon governo. 
Ma la realtà aveva fatto irruzione in quel piccolo universo perfetto, distruggendo il suo sogno.
Nel 1407 una rivolta popolare, fomentata dal duca d'Austria, che reclamava il possesso della torre Aquila da parte della cittadinanza, lo aveva destituito. 
Un nuovo signore aveva occupato la città.

Negli affreschi, intanto, il microcosmo immaginato dal principe-vescovo e illustrato per lui dal pittore di corte, continua a mostrarsi inalterato.
Il corso d'acqua che scorre ai piedi delle mura della città di Trento, muovendo le ruote del mulino nella scena di Dicembre, prosegue, al di là della colonnina che divide i due affreschi, nel vicino mese di Gennaio, sottolineando la continuità del Ciclo e, insieme, la circolarità del tempo.

Passano gli anni e diventano secoli. 
Nel chiuso della sala di Torre Aquila, l'anno ricomincia come sempre, le stagioni riprendono ad avvicendarsi, i mesi a trascorrere l'uno nell'altro, come immagini cristallizzate nel mondo senza tempo della pittura. 






Per me la colonna sonora dell'intero Ciclo, è quella che mi è venuta a mente ogni volta che ho "staccato" un foglio del calendario: la "Canzone dei Dodici Mesi" di Francesco Guccini (qui)


mercoledì 27 novembre 2013

Nello studio di Jan Vermeer: " L'allegoria della pittura"




Se la pittura di Vermer è tutta qui, mi pare che quel "qui" sia una vastità" (G. Ungaretti)


Ormai è una superstar. Dopo un'esistenza riservata e tutta dedicata al lavoro, dopo due secoli d'oblio e la riscoperta ottocentesca, oggi basta esporre anche uno solo dei suoi dipinti per attirare migliaia di visitatori.
A rischio quasi di farlo passare per un'icona pop.
Per ritrovare la sua magia, però, bastano il silenzio e l'incanto di un dipinto come questo: una tela, datata tra il 1666 e il '68 e ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna


La porta è aperta e la pensante tenda di broccato sembra scostata apposta per noi. 
Non ci resta che oltrepassarla per entrare nello studio di Vermeer (1632-1675). 
Tutto è in ordine: non c'è nulla del caos che ci saremmo aspettati nell'atélier di un pittore. Le comodità, invece, non mancano: mobili di pregio, una scultura, qualche stoffa preziosa  e perfino una carta geografica appesa alla parete, come usava, allora, nelle case dei più ricchi.

La stanza, ampia e luminosa, col pavimento a grandi riquadri bianchi e neri, è quella abitualmente utilizzata al primo piano della casa della suocera. Un'agiata dimora borghese nel quartiere "papista" di Delft, dove è andato ad abitare dopo il matrimonio e la conversione al cattolicesimo. 
Con venti stanze e tre piani, la casa è grande, ma la famiglia è aumentata così rapidamente (quindici figli) che sembra  quasi diventata angusta. 
Non è facile per lui, così lento e meticoloso, isolarsi per dedicarsi alla pittura. Il suo lavoro lo occupa giorno e notte e, come al solito, fa tutto da solo: mantenere un collaboratore gli costerebbe troppo. 

Ed eccolo, al centro della scena, mentre sta ritraendo una giovane donna, che tiene in mano un libro e una tromba e ha in testa una corona di alloro. 
Con gli occhi pudicamente abbassati e l'aria gracile da ragazzina, sembra una delle servette di casa, travestita apposta per mettersi in posa.

Un pittore e una modella: sembrerebbe un momento come tanti nella vita di un artista. Eppure, come spesso succede con Vermeer, si ha l'impressione che non sia tutto qui e che qualcosa ci sfugga. 

A cominciare dall'aspetto del protagonista che, invece di mostrarsi in bella vista, ci volta le spalle, mentre siede al cavalletto, vestito con un abito fin troppo elaborato e completamente  inadatto al lavoro. 
E poi le vesti che indossa, dal giubbotto traforato sulla camicia bianca, alle calze portate arrotolate alle caviglie, sono sorpassate: andavano di moda, in Olanda, più di un decennio prima.
Se si guarda ancora meglio, ci si accorge, poi, che Vermeer, di solito così preciso, ha mescolato parti di verità a piccole incongruenze. 
Intanto, la grande carta geografica alla parete rappresenta una situazione vecchia di mezzo secolo, prima della creazione del nuovo Stato olandese.
Poi, per esempio,  ha tracciato sulla tela dove lavora lo schema iniziale di una composizione, però sta usando un poggia-mano, un bastoncino col pomo d'avorio, che dovrebbe essere riservato solo alla rifinitura finale

Viene, allora, il dubbio che quella a cui assistiamo sia una messa in scena e che Vermeer abbia trasformato il suo studio nella scenografia di un teatro, in cui sia lui che la modella recitano una parte. 
Ma quale?
La chiave sta tutta nell'abbigliamento della donna: secondo l'"Iconologia" di Cesare Ripa, un testo fondamentale per gli artisti dell'epoca, la tromba e l'alloro sono gli attributi della fama, mentre il libro allude alla storiografia. 
Si tratta, dunque, di una rappresentazione di Clio, la musa della storia e dell'ispirazione artistica.

Ed ecco che la scena assume tutt'altro significato: non è un autoritratto di pittore nello studio- all'epoca piuttosto frequente- ma un'allegoria della pittura. 
Vermeer non è di quelli che scrivono trattati, o elaborano teorie. 
Se vuole celebrare la sua arte, proprio negli anni del suo riconoscimento ufficiale e della sua nomina a Sindaco della Gilda dei pittori di Delft, preferisce farlo nel modo che conosce meglio: dipingendo. 
E lo fa, senza retorica e senza enfasi, evitando di usare i soliti riferimenti mitologici o alla storia antica. 

Sceglie di raffigurare una stanza di casa sua, con la luce, che entra da una finestra fuori-campo e rende vero ogni dettaglio, dalla stoffa della tenda in primo piano, al pavimento che ha l'aria di essere appena pulito, ai bagliori del bronzo scintillante del lampadario. 
In questa scenografia casalinga, con un  semplice pezzo di stoffa azzurra e una trombetta di latta, trasforma una servetta timida nella musa Clio. 
Poi fa sì che l'artista al cavalletto, abbigliato con un vestito fuori moda, scovato nel fondo di qualche armadio, diventi il simbolo, senza tempo, di tutti i pittori. 
E ci fa capire che la pittura, più ancora della scultura, simboleggiata dalla testa di gesso posata sul tavolo, è in grado di ricreare una realtà fuori dal tempo e di rendere eterno ogni minimo frammento di vita.

Vermeer sa di essere un grande pittore e ne va fiero: per questo terrà questa tela nel suo studio, senza mai venderla e, alla sua morte, la moglie rifiuterà di cederla per pagare i debiti. 
Rappresenta il suo omaggio all'arte che ha sempre praticato, con orgoglio e senza mai venire meno, malgrado le difficoltà e i problemi economici.
Sa che gli bastano colori e pennelli e, in quella stanza  al primo piano di una casa affollata e rumorosa di voci infantili, potrà trasfigurare, nella serena perfezione delle sue tele, anche i più modesti particolari quotidiani. 

Grazie al suo modo di usare la luce e il colore, la rappresentazione di un artista al lavoro, quella di una domestica che versa il latte (ne ho parlato qui), di una piccola via di Delft o di una ragazza con l'orecchino di perla potranno assumere un significato universale e  diventare opere in grado di attraversare i secoli.

All'interno di quella nitida dimora olandese la pittura avrà compiuto, ancora una volta, la sua magia.






giovedì 21 novembre 2013

Il buon diavolo di Michael Pacher




Si sa che quando il diavolo ci mette lo zampino è  impossibile resistere. 
E, allora, non potevo che cedere alla tentazione di pubblicare un'immagine come questa: 


Il dipinto, che fa parte del grande polittico con i Padri della chiesa, ora nell'Alte Pinakothek di Monaco, fu eseguito da Michael Pacher (1430-1498) alla fine degli anni '70 del Quattrocento per l'abbazia di Novacella nei pressi di Bressanone.

Nella via principale di quella che ha l'aria di una cittadina delle Alpi, con le sue strade sterrate e la tipica architettura di tetti spioventi e di terrazzi "a sporto", c'è chi siede pigramente sulla soglia di casa, chi si affaccia a una finestra e chi chiacchiera su una balconata. 
L'atmosfera potrebbe essere quella di una tranquilla giornata di sole, se non fosse per i due singolari personaggi in primo piano

A sinistra, sant'Agostino, nello sfarzo delle sue vesti vescovili, con un ricco piviale chiuso da una preziosa spilla, stringe in mano un gigantesco pastorale. Sulla mitria, ornata di gemme, poggia un' aureola di quelle dette "a piattello", così solida da assomigliare a un disco di legno. 
Fin qui, niente di strano.
Il fatto è che, nella totale indifferenza dei passanti, si è messo a parlare col più improponibile degli interlocutori: niente di meno che il diavolo.

Nessun dubbio sull'identità demoniaca. 
Non si può dire che il repertorio degli attributi infernali non sia completo: corna, occhi iniettati di sangue, corta proboscide, zanne ricurve e, perfino, orecchie da cui escono lingue di fuoco. 
Il corpo esile, con spina dorsale a scaglie e ali da pipistrello, ornate dalle nervature di una foglia, poggia su gambe sottilissime, simbolo dell'instabilità della menzogna.
Non gli mancano nemmeno gli zoccoli caprini e la coda arricciata. 
Una seconda faccia, con tanto di occhi, bocca e zanne, è ben visibile in corrispondenza del sedere.

Il verde vivace del corpo potrebbe stupire chi è abituato a immaginare i demoni di un colore rosso o nero, più consono alle fiamme e all'oscurità dell’inferno. Ma è vero che siamo nel Quattrocento e il verde, oggi così ecologicamente rassicurante, allora non godeva di buona fama. In  tintoria si faticava talmente tanto a renderlo stabile da farlo diventare il simbolo della volubilità, della follia e del gioco. Colore più adatto all'incostanza demoniaca non si poteva trovare.
Insomma, nulla da eccepire: di fronte a sant'Agostino c'è proprio il diavolo fatto e finito.

E chissà trai due quali sottili diatribe teologiche o quali discussioni su anime da salvare si svolgeranno. 
Invece, no, niente di tutto questo: quello che succede tra di loro- stando al più diffuso testo medioevale di Vite di Santi, la "Leggenda Aurea" di Jacopo da Varagine- ha il tono di un racconto ingenuo e edificante.
Semplicemente (si fa per dire) nel corso della sua passeggiata quotidiana sant'Agostino ha incontrato il demonio con in spalla un libro talmente pesante da farlo vacillare sulle sue gambette sottili. Ha riconosciuto subito il "Libro dei Vizi", dove sono registrati tutti i peccati degli uomini e, incuriosito, lo ha convinto a mostrarglielo. 
Ha  scoperto così che, nel grande volume, l'unico peccato registrato a suo carico è quello di essersi scordato, una volta, di recitare compieta, l'ultima preghiera della giornata liturgica.
Tutto qui. 
Per il Santo, un Dottore della Chiesa abituato a dibattere gli argomenti più sofisticati, trovare un rimedio non è stato difficile: gli è bastato entrare in chiesa e recitare la preghiera dimenticata per cancellare immediatamente la sua colpa. 
Non c'è voluto molto per giocare in astuzia il diavolo che, scornato e confuso, si è dichiarato sconfitto ed è rientrato all'inferno- si suppone- con la coda tra le gambe.

Solo un grande pittore, come Michael Pacher, poteva dare un tocco di verità a questo strano incontro. Per questo si è servito di tutte le sue conoscenze, a partire dall'ambientazione in una cittadina che tanto somiglia a quella in cui è nato, Brunico, in val Pusteria. 
E poi si è certamente ricordato di quanto ha appreso a Padova, dove era andato per imparare il mestiere e dove era entrato in contatto con le opere di Donatello e con artisti come Andrea Mantegna o Jacopo Bellini. Con loro aveva condiviso l’amore per l'antichità classica, l'uso della prospettiva matematica e i nuovi principi rinascimentali (qui  e qui sono link )

Col suo stile, insieme tradizionale e aggiornato, con la sua nitida costruzione spaziale, la sua concretezza e la sua definizione di ogni dettaglio è riuscito a restituire un'atmosfera sospesa tra favola e realtà. E a trasformare il diavolo in un verde bitorzoluto lucertolone, talmente innocuo che perfino uno stratagemma infantile è in grado di sconfiggerlo. 
Una consolazione per chi tutti i giorni doveva affrontare il male nella durezza e nella difficoltà del vivere. 

Nella luce cristallina del dipinto, ogni timore sembra evaporare come nebbia al sole e il signore delle tenebre, almeno per un momento, può smettere di fare paura.







Per chi ha voglia di andare a caccia di altre immagini di diavoli in Alto Adige, qui è un link.