sabato 25 gennaio 2014

Il cielo in una stanza: le nuvole di Berndnaut Smilde




Chi non ha sognato da bambino di raggiungere le nuvole e di giocarci come fossero aquiloni? Chissà, poi, quanti di noi si sono incantati a guardarle e quanti pittori hanno cercato di ritrarle (ne parlo qui)
Berndnaut Smilde, un giovane artista olandese nato nel 1978, è anche lui un innamorato delle nuvole, ma uno di quelli che i suoi sogni infantili li ha realizzati davvero. Solo che lui con le nuvole non ci gioca, né le dipinge, lui le crea.
E non all'aperto, sul loro sfondo naturale di cielo, ma completamente fuori contesto, addirittura all'interno di stanze chiuse, di gallerie d'arte o di pompose sale con tanto di lampadari e stucchi, come qui:


Ai confini tra arte e esperimento scientifico, Smilde adotta un procedimento che non ha nulla di magico, ma che, anzi, richiede una pianificazione meticolosa, con misurazioni accurate della temperatura, della luce e del grado d'umidità e l'uso di una  complessa macchina del fumo. 
Eppure, quando la nuvola compare, gli spettatori presenti rimangono sbalorditi come per il trucco di un prestigiatore (qui è un video con una delle sue creazioni). 
E sembra che quei lievi ammassi di vapore si adattino misteriosamente agli ambienti per cui sono creati. Come qui, dove la nuvola, quasi fosse un fantasma, sembra appena entrata dalle grandi finestre di un antico castello belga, diventato ospedale e poi abbandonato.


Puntando una luce ora radente ora soffusa, Smilde arriva a ricreare anche l'aspetto delle nubi nei diversi momenti del giorno, dall'alba al tramonto. 
Fino a riprodurre il variare del tempo da quando le nuvole sono più scure e precedono la tempesta a quando- come qui- sembrano illuminate dall'interno dalla luce del sole: 


Le sue nuvole, comunque, non durano mai a lungo: galleggiano per un po' a mezz'aria, salgono verso il soffitto e subito dopo svaniscono. 
Rimangono visibili solo pochi minuti, giusto il tempo per consentirgli di scattare le sue foto. 
E le immagini di quelle stanze vuote, abitate solo da soffici nubi bianche, come questa chiesetta abbandonata in una città olandese, assomigliano a certi quadri surrealisti, capaci di accostare elementi incongrui e di mescolare, nella loro atmosfera di sogno, interno ed esterno, natura e artificio:


"L'idea che avevo era quella di creare un lavoro effimero, che avrebbe potuto esistere solo in foto":- ha spiegato- e mi sono dedicato alle nuvole per la loro natura doppia e inquietante" (qui è il link a una delle sue interviste). 
Tanto da riuscire a mantenere la loro aria di mistero anche quando compaiono all'improvviso dentro un banale magazzino o nell'hangar di un aeroporto, circondate di scaffali e di casse pronte alla spedizione: 


Qualunque sia l'ambiente, Smilde riesce a catturare nelle sue foto tutta la magia di quelle vaporose apparizioni e a trascinarci nell'incanto di quel breve istante in cui un pezzo cielo è rimasto chiuso in una stanza.




Il link al sito di Berndnaut Smilde è qui.
E qui, come colonna sonora, il link al blog di un amico che immagina cosi' la musica delle nuvole.


sabato 18 gennaio 2014

"D'arie e di nubi": gli studi di Antonio Basoli



"I nuvoli si dimostrano alcuna volta ricevere i raggi solari e illuminarsi in modo di dense montagne e alcuna volta i medesimi restare oscurissimi..." (Leonardo da Vinci, De'nuvoli)


Ancora una volta torno a parlare di nuvole e di pittori innamorati di queste incostanti abitanti dei cieli. Dopo le nubi delle coste inglesi di Constable (qui), la nuvola innamorata di Correggio (qui) e l’aereo autoritratto di Mantenga (qui), è la volta delle nuvole dei cieli di Bologna, ritratte in un taccuino di due secoli fa. Non molto diverse da quelle che vedo passare anche oggi dalla mia finestra.

Antonio Basoli (1774-1848) è stato uno dei protagonisti della vita artistica bolognese di inizio Ottocento: scenografo, vedutista, incisore raffinato, illustratore di testi letterari e di repertori tratti dall'antichità, pittore da cavalletto e ricercato decoratore d’interni per una committenza aristocratica e borghese. 
Per tutta la vita si è dedicato, con dedizione ed entusiasmo, all'insegnamento nell'Accademia di Belle Arti di Bologna, come professore di architettura e di ornato, ma non hai mai cessato di disegnare, spinto da un'acuta curiosità per tutto quello che lo circonda.
Uno dei suoi soggetti preferiti è, appunto, Bologna: nelle sue stampe, nei suoi dipinti, nei suoi album di disegni, la ritrae  non solo nei suoi monumenti ma in ogni dettaglio della vita quotidiana, con le sue strade, i suoi portici, le sue botteghe.
Fino a spingersi a indagarne i mutevoli aspetti del cielo.

Un piccolo taccuino (di appena 11x 18 cm) raccoglie i suoi “Studi d'arie e di nubi diverse nelle varie ore del giorno tratte dal vero coi rispettivi colori nel 1815 e colorite nel 1845
Quarantacinque fogli di cieli e di nuvole, numerati e classificati, in ognuno dei quali segna con esattezza la pur minima variazione dei colori, annotando a matita una serie di numeri.
Come nel caldo e dorato tramonto di questo primo foglio.


Nella pagina a fronte di ogni schizzo riporta l'ora delle osservazioni e  per ogni numero, scrive le tinte corrispondenti. Qui, ad esempio, la “gran luce delle nubi un poco più rosse e mezzo gialle” corrisponde al numero 2, il “verde” al numero 7, o il “turchino schietto” al numero 9.

Quando raffigura i tramonti disegna in un altro foglio- sempre dallo stesso punto di vista- anche “l’aria opposta alla calata del sole", come qui, dove definisce una a una tutte le sfumature delle "nuvole che cominciano nell'orizzonte lacca e turchino", fino a degradare in un "celeste chiaro":


Non siamo ancora all'epoca, in cui i pittori vanno per la campagna per dipingere all'aria aperta con tanto di tavolozza e cavalletto. 
Icielo, che Basoli non si stanca mai di osservare, è probabilmente quello che vede dalle finestre di casa sua. Di quella casa, che si è comprato in Borgo Paglia, il più vicino possibile all'Accademia di Belle Arti e dove vive da solo, tra le sue librerie sovraccariche di libri.

Ed è un cielo che rappresenta in tutti i suoi cambiamenti, seguendo il variare del tempo, dai giorni sereni, a quelli più tempestosi, quando- "dopo una pioggia"- la "macchia della nube diventa sempre più scura e color piombo":


O quei cieli puliti e sgombri grazie all'"aria di vento", che fanno risplendere le nubi bianche e rosate "tutte più chiare":


Oppure è un cielo dalle tinte più fredde, quando l'"orizzonte si converte in nebbia", di prima mattina, non appena  comincia a diffondersi la luce:


Gli anni passano e svaniscono veloci come nuvole.
Con l'andare del tempo Basoli si allontana sempre meno volentieri dalla sua amata Bologna, fino a decidere di non spostarsi più.
La città, la casa diventano, poco a poco, tutto il suo mondo, tanto da rifiutare offerte prestigiose di lavori in Italia e all'estero.
Nel 1837, dopo un’aggressione subita per strada, in cui perde la vista di un occhio, rinuncia anche alla sua attività di decoratore per dedicarsi, sempre di più, alla pittura.

Nel chiuso delle sue confortevoli stanze, la sua immaginazione vola per viaggiare lontano: risalgono a questo periodo le sue opere più fantasiose, come gli acquarelli monocromi con le "Vedute panoramiche di tutto il globo", o le invenzioni dell'”Alfabeto pittorico” che gli assicurano la fama anche fuori d'Italia.

Nel 1845 ha da poco compiuto settant'anni ed è un artista noto e rispettato, ma non ha perso né la curiosità, né la voglia di studiare. Anzi è proprio in questo periodo che ricomincia a osservare l'aspetto del cielo e che riprende in mano il taccuino con i disegni di nuvole, colorando- come annota nel frontespizio- gli schizzi che fino ad allora aveva lasciato incompiuti. 
E continua a indagare, oltre la sua finestra, con la minuziosità di un tempo.
È proprio allora che  aggiunge gli ultimi due fogli, cercando, ancora una volta, di riprodurre il variare dei colori  "dell’aria serena nelle ore del tramonto”: 



E, come al solito, osservando anche le sottili sfumature dell'"aria opposta al tramonto", per definire sulla carta il "turchino", il "più cenerino", il "color piombo" o "l'azzurro nebbioso" che vede alternarsi nel cielo:

Due paesaggi essenziali di una sintesi che ricorda le stampe giapponesi. 
Il colore è  più fluido, come se fosse fatto della stessa sostanza dell'aria.
Trent'anni sono passati dai primi fogli d'"aria e di nubi", ma la sua ostinazione nel cercare di ricreare l'aerea levità di quelle tinte che trascolorano incessantemente è rimasta ancora intatta. 
Come se, fissando nei fogli del suo taccuino la mutevolezza  del cielo e delle nuvole, volesse quasi riuscire a fermare, almeno per un attimo, il troppo veloce trascorrere della vita.




Il taccuino con gli studi di nuvole è stato pubblicato in "Basoli dal vero. Ristampa anastatica dei taccuini di Antonio Basoli", Bononia University Press  (collana Anastatiche) 2008.

martedì 14 gennaio 2014

"Le Bois d'Amour" di Paul Sérusier: la magia del talismano



Nell'autunno del 1888, Pont-Aven in Bretagna è ancora un paesino silenzioso, fatto di vie selciate, di case di pietra, di corsi d’acqua e di mulini. 
Al centro, la grande piazza si affolla solo per la messa della domenica o nei giorni di mercato, quando dalla campagna arrivano le contadine, con le loro cuffiette bianche immacolate. Uomini e donne vestono col costume tipico della regione e parlano tra di loro in un dialetto stretto. 
Di turisti non ci sarebbe nemmeno l’ombra, se a scoprire quel piccolo paese isolato non fossero stati gli artisti. Alla pensione dei Gloanec, dove si fa credito e dove la moglie dell’albergatore prepara pranzi succulenti, alloggia niente meno che Paul Gauguin. Ė lui che ha scelto Pont-Aven "per la sua atmosfera selvaggia e primitiva. Quando i miei zoccoli risuonano su questo granito- gli piace dire- sento l’eco attutito e potente che vorrei ottenere quando dipingo”. 
Ed è proprio lui che ha attirato in quell'angolo isolato di Bretagna tutti gli altri artisti.

Quarantenne, la faccia precocemente segnata, sempre vestito di scuro, Gauguin se ne sta per lo più rintanato a dipingere nel suo studio, allestito in una camera della pensione. Oppure è capace di rimanere per ore in silenzio, in un angolo, fumando la pipa e intagliando nel legno misteriose figure che gli ricordano i suoi viaggi oltre Oceano.  
Solo al momento dei pasti, quando tutti si ritrovano alla grande tavola comune, comincia a parlare di pittura, o meglio, del suo modo di intendere la pittura. La sua voce alta e acuta domina, allora, tutte  le conversazioni.  
Tra i commensali un giovane parigino, Paul Sérusier (1864-1927), lo ascolta rapito, senza perdersi nemmeno una parola. Ha ventiquattro anni e da tre ha abbandonato il lucroso mestiere del padre, il commercio dei profumi, per dedicarsi alla pittura. 
A Parigi studia nell'ambiente caotico e cosmopolita dell’Academie Julian, dove la sua simpatia e i suoi modi gentili e alla mano gli hanno procurato molti amici.

Ama molto la compagnia, ma a Pont-Aven è venuto da solo: la sua idea è quella di andare a conoscere Gauguin e di trovare finalmente, grazie a lui, un modo di dipingere che gli corrisponda.
Quel giorno d’ottobre ha deciso di andare a giro con pennelli e tavolozza, cercando ispirazione negli angoli più suggestivi del paese. 
Le Bois d'Amour in una foto di fine '800
Gli basta poco per arrivare a un boschetto dietro la pensione, il Bois d’Amour, il bosco d’amore, un luogo frequentato, più che altro, da coppiette di innamorati. 
Lì, incantato dalla luce e dai colori autunnali, si ferma vicino a un ponte: ha l'impressione che sia proprio quello il paesaggio che cercava, tanto che gli sembra quasi di sentire risuonare le parole che Gauguin, con la sua solita maniera sbrigativa, gli ha detto poco tempo prima. "Ė solo l’occhio dell’ignorante che assegna un colore fisso e immutabile a ogni oggetto". 
E poi, rivolgendosi direttamente a lui: "Come vedi questi alberi? Sono gialli. Ebbene, mettici del giallo. Quest’ombra decisamente blu, colorala con una tonalità oltremare. Queste foglie rosse, dipingile di vermiglio".

Ecco come deve fare! 
Improvvisamente si sente, come dirà più tardi il suo amico Maurice Denis, “liberato da tutti gli ostacoli che si frapponevano al suo istinto di pittore”
Ha una tale voglia di dipingere che non perde nemmeno il tempo di montare il cavalletto e comincia a stendere i colori su quello che trova sottomano: il coperchio della sua scatola di sigari. 
Ed è qui che, finalmente, il "suo" paesaggio prende forma.


Nessuna prospettiva, nessuna profondità: gli alberi, il fiume, l’erba sono diventati colori puri. Masse rosse, gialle, blu, un tocco di verde e di celeste fanno intuire tutti gli elementi del paesaggio: il bosco, la strada, la fila dei faggi o il riflesso dell’acqua
Intuire, appunto, perché Sérusier non vuole presentare la realtà così com'è, ma interpretarla e trasformarla come gli dettano le sue sensazioni.
In quel piccolo dipinto (appena 22x27cm) ha trovato una maniera nuova di guardare e dipingere la natura.

Le strade di Gauguin e di Sérusier di lì a poco si separano: Gauguin, pochi giorni dopo, raggiunge Van Gogh ad Arles, Sérusier torna a Parigi, portando con se  il suo quadretto, come fosse un tesoro.
Gli amici più stretti dell’Academie Julian, riuniti nel movimento artistico dei Nabis (qui è il link), non appena lo vedono ne sono entusiasti: vi scoprono la possibilità di quella pittura libera che hanno sempre sognato.
Il dipinto di Pont-Aven diventa il loro modello, il loro prezioso "talismano" come lo ribattezzano, con un  titolo che diventa subito noto.
Lì- come racconta Maurice Denis- trovano conferma alla loro idea "che un quadro, ancora prima di essere un cavallo, una donna nuda, o un qualsiasi episodio, non è che una superficie piana ricoperta di colori messi insieme con un certo ordine..” 

Tutto qui, ma è già moltissimo, perché, come è stato detto più volte, si tratta di una tappa fondamentale nel passaggio tra pittura figurativa e pittura astratta.
In quell'ottobre del 1888 l'incontro tra l'esperienza di Gauguin, il desiderio di libertà di Paul Sérusier e l'atmosfera di Pont-Aven, ha dato i suoi frutti.
In quell'angolo solitario del Bois d'Amour si è compiuta una piccola magia: quel paesaggio dipinto con frenesia su una scatola di sigari contribuirà a cambiare per sempre il modo di rappresentare la realtà.






domenica 5 gennaio 2014

Il calendario di pietra: gennaio




Dopo i calendari quattrocenteschi, che hanno accompagnato, mese dopo mese, gli anni scorsi- quello miniato delle Très riches heures del Duca di Berry (qui) e quello affrescato sulle pareti di Torre Aquila a Trento (qui)- ho pensato di cercare, per questo 2014 appena iniziato, immagini ancora più lontane nel tempo.
Fino ad arrivare al XIII secolo, quando le ore, i giorni, gli anni non sono ancora misurati al millesimo di secondo. E quando il tempo di Dio è scandito dalle campane delle chiese e dalle feste liturgiche e il tempo degli uomini dalle stagioni e dagli antichi ritmi delle coltivazioni.

In un periodo, in cui i contadini sono considerati il fondamento stesso della società, la fatica degli uomini non è  vista più come la conseguenza della maledizione divina al momento della cacciata dall'Eden, ma come un riscatto dalla colpa e un modo per raggiungere la salvezza.
Le grandi cattedrali, come le umili chiese di campagna, si riempiono, sempre più spesso, di calendari scolpiti con le raffigurazioni dei Mesi- tra Francia e Italia ne sono stati contati più di centoventi- dove il trascorrere dell'anno è ritmato dalle immagini delle attività agricole.

Niente a che vedere, in queste scene spoglie ed essenziali, col lusso, il fasto e la passione per i dettagli a cui i variopinti calendari del Quattrocento ci avevano abituato.
Per staccare il primo foglio, ho scelto, almeno, il colore dell'unico Ciclo dei Mesi che mantenga la policromia originale, quello che orna l'intradosso dell'arco del portale maggiore della pieve di santa Maria Assunta ad Arezzo.
Ecco dunque come appare il Gennaio di otto secoli fa:


È il mese del freddo più intenso, quando il gelo obbliga a sospendere i lavori dei campi, ma è anche il periodo delle feste, dal Natale, alla Circoncisione, all'Epifania.
La scritta "Hic est bifrons Ianuarius", lega- com'era consuetudine per tutto il Medioevo- il mese di gennaio a Giano, la divinità da cui prende il nome. 
Il dio, tradizionalmente raffigurato con due volti, uno verso il passato e l'altro verso il futuro, era considerato, nell'antica Roma, il protettore dell'inizio e della fine, degli ingressi e dei passaggi, il simbolo del cambiamento e il custode di tutte le porte, da quella di casa a quelle delle città.

L'antica figura allegorica bifronte si trasforma qui in un contadino, che, nel chiuso di una stanza, si riscalda al calore di un fuoco, alimentato da una catasta di legna, su cui è posato un grande paiolo. Da una trave pendono gli insaccati, la riserva di cibo più adatta ai lunghi mesi invernali. 
Per difendersi dal freddo indossa una lunga veste rossa a maniche lunghe e un pesante mantello azzurro; ai piedi calza robusti zoccoli.
Con un braccio alza una coppa per brindare all'anno nuovo, mentre con l'altro sorregge la brocca di vino dell'anno passato.

Siamo intorno al 1230, e l'autore delle sculture è probabilmente uno di quei lapicidi, per lo più provenienti da Como e dalla valle d'Intelvi, che all'epoca si spostano di città in città, seguendo i cantieri delle cattedrali.
Forse è arrivato ad Arezzo dopo aver lavorato a Parma e a Ferrara, portando con sé tutta la sua esperienza e la sua capacità di arricchire la raffigurazione tradizionale con dettagli di un realismo minuto. 
Ed è questo che riesce a trasferire nelle sue scene.

Dentro la chiesa, nello spazio sacro della preghiera, i fedeli rendono omaggio alle solenni quanto distanti immagini di Cristo, della Madonna o dei Santi, ma lì, nelle raffigurazioni dei Mesi, sopra la porta d'ingresso, nel  punto di congiunzione tra il mondo di Dio e quello dell'uomo, riconoscono finalmente se stessi.
Basta alzare gli occhi per riscoprire, nella rappresentazione di gennaio, al di là dell'allegoria di un antico dio, di cui forse ignorano perfino il nome, qualcosa che conoscono e che fa parte della loro vita.

Possono vincere la paura del freddo e della fame, ritrovando- nella scena- la sensazione del calore del fuoco, della sicurezza del cibo e perfino il gusto di una buona coppa di vino. 
E, guardando il succedersi dei mesi, dove l'inverno cede eternamente il passo alla primavera, possono rinnovare la speranza di un futuro migliore.