domenica 23 febbraio 2014

Angeli e demoni: il paradiso di Hieronymus Bosch




"O luce eterna che sola in te sidi
sola t'intendi e da te intelletta
e intendente te ami e arridi"
(Dante, Paradiso, XXXIII,123-126)

Ci sono delle immagini che si stampano in mente e non vanno più via. 
Come questa, che ho ritrovato per caso nel grande mare di internet, mentre- tanto per cambiare- ero alla ricerca di cieli e di nuvole. 
È l”Ascesa all'Empireo” di Hieronymus Bosch (1450-1516), uno dei quattro pannelli con le "Visioni dell'aldilà", datati intorno al 1500 e conservati nel Museo di Palazzo Grimani a Venezia:


Nel cielo sullo sfondo, ben oltre le nuvole, ogni elemento naturale scompare fino a che lo spazio non diventa di un'oscurità metafisica. 
Le anime, come corpi nudi e senza peso, con i volti levati in alto, salgono verso il paradiso, accompagnate in volo da coppie di angeli dalle ali aguzze. 
Mano a mano che salgono, sembrano perdere ogni consistenza e sono attirate in un vortice formato da cerchi concentrici che trascolorano dal blu scuro all'azzurro chiaro, fino a un bianco accecante. 
E, alla fine, arrivano a immergersi nella luce.

Un'idea straordinaria, soprattutto da parte di un pittore che si direbbe più abituato a rappresentare demoni, mostri, o animali fantastici che visioni celestiali. In ogni caso, un soggetto difficile per chi non abbia la sua straordinaria capacità di immaginare il soprannaturale.

Strano personaggio Hieronymus Bosch!  
A giudicare dai suoi dipinti, capaci di scomodare filosofi e psicanalisti e di dare spazio alle rivendicazioni dei surrealisti che lo considerano un precursore, lo si potrebbe pensare come un anticonformista, un emarginato, perfino una sorta di "border-line". E invece no.
Jeroen van Aken- Bosch è il nome che adotterà più tardi per differenziarsi dal padre e dai fratelli- nato in una famiglia di pittori, conduce un’esistenza che più normale non si potrebbe. La sua vita la passa tutta nella cittadina di s'Hertogenbosch, ora in Olanda, ma allora possedimento dei Duchi di Borgogna, anche se qualche studioso ipotizza un viaggio a Venezia per aggiornarsi sulle novità italiane.

I documenti parlano di un onesto e agiato pittore, regolarmente iscritto a una corporazione, stimato e benvoluto da tutti. 
È tutt'altro che un isolato, anzi è oberato di commissioni da parte di esponenti della ricca borghesia e dell’alta aristocrazia, più attratti che sgomentati dalla sua fantasia indiavolata. 
Nessun mistero nella sua vita, fatta di lavoro, di impegni familiari, di acquisti di terreni, di pagamenti di tasse e di doveri religiosi, da cattolico fervente qual èE nemmeno nessun sospetto di eresia a turbare la tranquillità di un'esistenza quieta e ordinata. Tanto che il suo nome appare citato, in varie occasioni, come "membro notabile" della confraternita di Nostra Signora, dedicata alla Madonna. Ed è a cura della Confraternita che saranno celebrate le sue esequie in forma solenne. 
Nessun documento, però, ci parla dei suoi pensieri.

Di sicuro Bosch non può essere rimasto indenne dalle inquietudini di un’epoca, in cui la religione impregna ogni momento del quotidiano e in cui sono onnipresenti i temi della lotta tra bene e male, del peccato, della punizione e della salvezza. 
Un tempo, in cui gli spettacoli della miseria, delle malattie o quelli raccapriccianti dei supplizi sono sotto gli occhi di tutti.
Immagini sconvolgenti di tutti i giorni, che, insieme ai ricordi dei  bestiari medioevali, delle stampe devozionali, delle miniature o del mondo fantastico delle sculture romaniche e gotiche, alimentano la sua immaginazione. 
Fino a sovraccaricare i suoi dipinti di simboli e di bizzarre apparizioni. 
E a rendergli, forse, più facile raffigurare demoni che angeli.

Tanto che, a fronte dei suoi tanti "Inferni", questa è la sua unica rappresentazione del Paradiso. 
E qui, dove, invece della sofferenza e della follia, deve raffigurare la speranza, utilizza a pieno la sua capacità di rendere visibile l'immateriale, non dà spazio a nessuna delle sue strane creazioni e depura il soggetto fino all'essenziale. 
Probabilmente per ispirarsi ha ripensato a quello che  ha letto in qualche testo di mistica o che ha sentito in qualche predica. 
Forse- o almeno così piacerebbe immaginare- gli risuona in mente un’eco dei versi di Dante.
Comunque, quello che ci consegna è un capolavoro: una visione metafisica, al di là del tempo e dello spazio, che travalica la sua epoca e arriva ancora oggi a emozionarci con l'immagine di un vortice di luce, in cui si dissolva per sempre ogni paura e ogni dolore.



Una mostra sul trittico di Palazzo Grimani si è tenuta a Venezia nel 2010 (qui è il link)

mercoledì 19 febbraio 2014

Uno sguardo nel cielo di René Magritte



"... il cielo è di tutti gli occhi; di ogni occhio è il cielo intero..." (Gianni Rodari)


"Ceci n’est pas un post/ questo non è un post": potrei dire, citando René Magritte.
E sarebbe vero, perché questo non è un post. O, almeno, non di quelli soliti.

È solo che, per spezzare la pesantezza- non solo meteorologica- di queste giornate, mi è venuta voglia di condividere alcune delle immagini di nuvole che ho trovato un mese fa, preparando una conferenza. E che da allora sono rimaste impigliate nelle rete della memoria.
Sono alcune delle tante nubi che popolano i cieli di René Magritte (di questo straordinario artista, che amo tanto, ho parlato più volte qui)

Un pittore capace, nella sua "Infinita ricognizione", di piazzare  due eleganti signori in bombetta a conversare, passeggiando disinvoltamente in mezzo al cielo:


Oppure, in questa "Corde sensibile", dove una spumosa nuvola bianca è appoggiata su una coppa di cristallo, in grado di mescolare l’accostamento surrealista di oggetti apparentemente incongrui, con l'ingenuità di un bambino che si interroghi sulla natura delle nubi:


Nel "Beau monde", le nuvole che trascorrono nel suo cielo, sembrano diventare le protagoniste, insieme all'immancabile mela, del gran teatro del mondo, collocate come sono su un azzurro palcoscenico e inquadrate da due cortine di un sipario altrettanto azzurro:


Invece, nella "Grande famille" un'immensa colomba, fatta di bianche nuvole, si leva in volo da un mare in burrasca e, con la sua apparizione, pare quasi dissipare l'oscurità di un cielo tempestoso, che già trascolora nel rosa:


Mentre nella "Battaglia delle Argonne", in un’alba rosata, dove ancora persiste una falce di luna, la leggerezza di una soffice nuvola bianca contrasta  con la pesantezza di uno scuro macigno, capace di galleggiare nel cielo con la stessa levità di una nube:


Come al solito, con Magritte ogni interpretazione è valida, ogni associazione di idee è consentita. Abbiamo la libertà di vedere nei suoi dipinti tutto quello che vogliamo. Senza alcuna costrizione.
Basta semplicemente lasciarsi andare e accettare la sensazione di totale straniamento che vuole provocare, da quell'ironico "scardinatore delle convenzioni" che è. 
Il suo scopo è, come sempre, quello di farci osservare la realtà con uno sguardo diverso. 
E con occhi (perché no?) pieni della leggerezza delle nuvole. 

Come in questa ultima immagine, che mi ha fatto venire in mente i versi di un poeta, abituato a guardare il mondo (e il cielo) con la stessa profondità mista a candore di Magritte, Gianni Rodari:

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi,
di ogni occhio è il cielo intero.
È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa o in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.





sabato 15 febbraio 2014

Il Palais Stoclet di Bruxelles: il palazzo incantato





Si potrebbe cominciare come in una favola. 
"C'era una volta a Bruxelles un palazzo incantato, fatto d'oro, di marmo e di pietre preziose. Tutti lo conoscevano, ma nessuno poteva entrare...."
Eppure, non siamo in un favola e il palazzo incantato esiste davvero: è Palais Stoclet. 


Siamo agli inizi del Novecento, quando Adolphe Stoclet, un grande finanziere che ha accumulato un'enorme fortuna, sposa una seducente parigina, Suzanne Stevens. Decide, allora, di costruirsi un'abitazione, anzi un vero e proprio palazzo, in un ampio terreno che ha comprato appena fuori del centro di Bruxelles. 
È un grande collezionista e ha bisogno non solo di una casa di rappresentanza, in cui ricevere (e stupire) gli ospiti, ma  di uno scrigno per esporre nel modo migliore le sue raccolte. 
Di sicuro, sa quel che vuole;  ha la giusta combinazione di un gusto sicuro  e di mezzi illimitati degna di un committente perfetto, quando incontra a Vienna l'architetto Josef Hoffmann, uno dei capi riconosciuti del movimento della "Secessione" e  lo incarica del progetto. 
Hoffmann accetta subito: sa bene che potrà contare su un budget illimitato e non dovrà badare a spese. È convinto che sia finalmente l'occasione giusta per realizzare, con suoi collaboratori, gli artisti e gli artigiani della "Wiener Werkstãtte", il sogno di un'"opera d'arte totale", un esempio perfetto di integrazione delle arti. 
Per questo, non ha intenzione di lasciare niente al caso. Pur di creare "un luogo incantato, un angolo di mondo, dove sentirsi migliori", è disponibile a lavorare accanitamente e a progettare tutto, ma proprio tutto, dalla pianta dell'edificio, ai pavimenti, alle finestre, alle lampade, fino alle stoviglie o alle maniglie delle porte.
I lavori iniziano nel 1905  e terminano nel  1912. 
Alla fine,  per gli abitanti di Bruxelles, quel palazzo sarà una vera  sorpresa: una sorta di meteorite, un elemento alieno, un pezzo di Vienna trapiantato magicamente nella capitale del Belgio. 




All'esterno, si presenta come un edificio austero, dalle severe linee geometriche, bianco e squadrato, con le  facciate  decorate da lastre di marmo profilate di bronzo dorato e con una torre sormontata da sculture ai quattro angoli.
La facciata si apre, dalla parte del giardino, con due ali simmetriche, su uno spazio verde di pergolati e aiuole rettangolari circondate da siepi di bosso accuratamente potate. 
Una vera rivoluzione per una città, dove, all'epoca, trionfano ovunque le linee curve e sinuose dell'art nouveau. 
"Raggelante e cimiteriale":- sussurrano i detrattori, abituati alla raffinata leggerezza dell'arte della "Belle-Epoque". Ma, intanto, muoiono dalla curiosità di vedere quel che c'è dentro.

L'atrio in una foto d'epoca
Varcare quella porta, però, non è da tutti: soltanto a pochi è concesso di entrare. Per sapere cosa ci sia in quel misterioso edificio non resta che affidarsi ai racconti degli invitati a quelle  serate mondane, di cui tanto si favoleggia. 
Qualcuno descrive un lungo vestibolo e un atrio monumentale tutto  di marmo bianco, ornato al centro da una fontana, alto come l'abside di una chiesa e illuminato da vetrate. 
Qualcun altro ricorda di aver visto Suzanne Stoclet "scendere la grande scalinata, abbigliata con un vestito di lamé dorato al fianco di Adolphe, diritto ed elegante, con la sua barba simmetrica da Asurbanipal, in un decoro di marmi e pietre preziose, circondati dalle sculture di divinità buddiste e di re egizi della loro collezione". 
E non è finita qui.
Si parla anche di interminabili corridoi, di salotti, di sale da musica, di tante stanze, una più straordinaria dell'altra. 



La sala da pranzo in una foto d'epoca
Ma la vera meraviglia, il cuore stesso della casa, è la grande sala da pranzo. 
Un pavimento in marmo a decorazioni geometriche, un tavolo per ventidue persone e una lunga credenza di ebano lucido, su cui, nelle serate di gala, sono posati candelieri d'argento e zuppiere di malachite. 
Alle pareti, con inserti di cuoio nero intarsiati d'oro e di palissandro, spiccano i tre grandi pannelli a mosaico creati, niente di meno, che da Gustav Klimt. 
"Si respira la stessa atmosfera di una delle basiliche di Ravenna": dice uno degli ospiti. E non ha torto.
Klimt, appena rientrato da un viaggio a Ravenna, è rimasto folgorato dall'oro e dalla ricchezza dei mosaici bizantini. E intende ricrearli con materiali ancora più preziosi: oro, argento, pietre dure, smalti, madreperle.... 
Un lusso mai visto, dove il solo costo del materiale, centomila corone, equivale- come qualcuno calcola puntigliosamente- al reddito annuo di una cinquantina di operai. Ma non è il prezzo quello che conta: è che qui Klimt si sente libero da ogni vincolo ed è sicuro di creare un capolavoro. 
Ha disegnato i grandi cartoni (ora esposti al Museo del Belvedere di Vienna) e, per più di un anno, è pronto a seguire da vicino tutte le fasi del montaggio. 
Ed ecco il risultato:

L'"Albero della Vita", con le sue volute dorate, riempie, da una parte e dall'altra della sala, tutta la superficie del muro. Tra i suoi rami sono inserite le figure dell' "Attesa", con una donna dal profilo egizio, e dell"Abbraccio", con un uomo che avvolge, col suo sontuoso mantello, una delicata figura femminile. Un roseto di smalto e alcuni uccelli rapaci, i falchi di Horus, si posano sui rami dell'albero, dove i fiori hanno forma di occhi. 


Nella parete corta, domina la figura astratta di un "Cavaliere", dall'elmo bianco e il mantello multicolore. 
Simbolismo e decorazione, elementi bizantini ed egizi, influenze dell'arte giapponese, tutto si mescola in un'opera perfetta che- come voleva Hoffmann- diventa, insieme, arte e straordinario elemento di arredo. 
C'è chi racconta che, alla luce dei lampadari in cristallo e a quella tremolante delle candele, il fregio di Klimt sembra prendere vita, le tessere d'oro e d'argento, le ceramiche, le madreperle scintillano "mentre il padrone di casa siede a capotavola e -va da sé- i fiori sulla tavola e la sua cravatta sono assortiti con l'abito della moglie".

Un luogo di sogno di un'eleganza raggelata, fatto apposta per ricevimenti e conversazioni raffinate. Tanto che nel libro degli ospiti, disegnato anch'esso- e c'era da dubitarne?- da Hoffmann, si possono leggere firme di artisti come Jean Cocteau, Anatole France, Sacha Guitry o Diaghilev.
Mentre nella sala da musica risuona l'eco delle note dei concerti eseguiti da musicisti del calibro di Darius Milhaud o di Igor Stravinsky. 

I tanti racconti, i ricordi, le vecchie fotografie in bianco e nero e perfino lcitazioni nei manuali di architettura e di storia dell'arte sembrano fatti apposta per alimentare la leggenda del palazzo incantato. 
Perfetto come scenografia di una fiaba crudele, con la sua aria di torre d'avorio inaccessibile, di un algido rifugio lontano dalla realtà. 
E, come in una favola, per quasi un secolo, tutto è rimasto intatto, fino all'ultimo soprammobile, come se il tempo si fosse fermato. 
A partire dal 2002, dopo la morte della  figlia dei primi proprietari, che lo aveva conservato con una cura quasi maniacale, le cronache dei giornali hanno registrato le battaglie giudiziarie degli eredi, l'iscrizione al patrimonio dell'Unesco e, infine, la decisione di un vincolo totale, con l'inventariazione di migliaia e migliaia di oggetti ormai inalienabili. 
Anche se resta proprietà privata, tutto rimarrà com'è. 
Ma, intanto, le porte del Palais Stoclet continuano a essere chiuse e nessuna comitiva di turisti è giunta ancora a spezzare l'incantesimo.








Nel 2012 la casa editrice Taschen ha avuto il permesso di condurre una campagna fotografica sul fregio di Klimt . Le foto sono state pubblicate in "Gustav Klimt. Tout l'oeuvre peint", sous la direction de Tobias Natter, Taschen 2012.


sabato 8 febbraio 2014

Gli incanti di Medea: il fregio dei Carracci in Palazzo Fava a Bologna




"Quando la luna rifulse piena/ ..Medea, senza meta/ nel cuore della notte si mise a vagare./ Una quiete profonda  assopiva/ uomini, uccelli e fiere./ Non un brusio fra le siepi/ tacciono immobili le fronde/ tace l'aria umida/ palpitano solo le stelle" (Da Ovidio, Le Metamorfosi, libro VII)


Sicuramente saranno molti, in questi mesi, ad andare a Bologna per vedere la mostra di cui è indiscussa protagonista la “Ragazza dall'orecchino di perla” di Vermeer: la sua immagine è stata talmente pubblicizzata da invadere tutta la città, dai manifesti, agli striscioni, ai menu dei ristoranti, fino a contagiare perfino l'austero logo dell'aeroporto che- incredibile ma vero- sfoggia, in questo periodo, un vezzoso orecchino. 
Probabilmente, tra le migliaia di visitatori, non saranno tanti quelli che alzeranno gli occhi per guardare nella sede della mostra, in palazzo Fava,  tra gli affreschi dipinti nella parte superiore delle pareti, un’altra straordinaria ragazza. Una delle eroine più famose della mitologia classica, nella cui storia si intrecciano magia e crudeltà: nientemeno che Medea.


In piena notte, la luna splende in cielo e inonda il paesaggio con la sua luce argentata: una giovane donna, in primo piano, nuda e con i capelli sciolti, completamente assorta in se stessa, pare sorpresa dal nostro sguardo indiscreto mentre si bagna in uno specchio d’acqua. 
È Medea, che, stando ai versi delle  "Metamorfosi" di Ovidio, quando mancano tre notti al plenilunio e le stelle splendono nel cielo, si prepara all'incantesimo per ringiovanire Esone il padre di Giasone. 
Sullo sfondo, è ugualmente rappresentata su un  cocchio volante, mentre va alla ricerca degli ingredienti necessari al suo filtro magico, e, a sinistra, quando completa  il suo incantesimo agli altari di Ecate e della dea della Giovinezza, trasformando una vecchia pecora in un agnello (qui è il link al testo di Ovidio)

Siamo nella sedicesima scena di un ciclo di affreschi, composto in tutto da diciotto riquadri, separati da dipinti a monocromo con statue di divinità classiche. La storia rappresentata è quella del viaggio degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro, guidati da Giasone e aiutati dagli incantesimi  della giovane Medea. Un racconto ricco di avventure, di incanti, di inganni e, perfino, di orribili delitti (qui è il link).

Il committente degli affreschi, Filippo Fava, è l'esponente di una delle più note famiglie bolognesi, che ha da poco accresciuto la sua fortuna grazie al matrimonio con la ricchissima Ginevra Orsi e alla sua cospicua dote
Non sappiamo la ragione per cui abbia scelto un soggetto tanto complesso per il fregio che corre subito sotto il soffitto lungo le quattro pareti del grande salone situato al piano nobile del palazzo che si è fatto costruire nel pieno centro della città. 
Forse vuole celebrare nel mito di Giasone la virtù e il coraggio di chi lotta per raggiungere i propri obbiettivi. Forse intende ricordare, nella figura di Medea- con il richiamo al rapporto tra magia e scienza medica- la professione del padre, celebre medico e filosofo dello Studio bolognese, oppure, chissà, vuole semplicemente far sfoggio della sua cultura classica.
Fatto sta che, intorno al 1580,  incarica del lavoro  tre giovani pittori bolognesi, tutti sotto la trentina. Sono i figli del suo sarto, che glieli ha caldamente raccomandati: i due fratelli, Agostino  e Annibale Carracci e il cugino, Ludovico.
Pur di cogliere l’occasione di una commissione tanto prestigiosa  si sono dichiarati disposti a lavorare per un prezzo irrisorio. 
E Filippo Fava è stato pronto ad approfittarne.

I tre sono molto diversi di carattere: Ludovico (1555-1619), il più vecchio,  è anche il più assennato e riflessivo, Agostino (1557-1602), vivace e curioso, sfoggia i modi di un uomo di mondo, Annibale (1560-1609) è un solitario, malinconico e ombroso.
Sanno bene di avere temperamenti differenti, ma si sentono uniti da un comune modo di intendere la pittura. Proprio in quel periodo, per mettere in pratica i loro principi, hanno fondato una loro Accademia, che hanno chiamato degli Incamminati o dei Desiderosi. 
Quello che vogliono è  abbandonare il virtuosismo fine a se stesso e l’artificio dello stile manierista, allora imperante, per tornare al "naturale" e restituire verosimiglianza alle storie, sacre o profane, narrate dalla pittura. 
Per questo hanno scelto di basarsi su una costante pratica del disegno da vero, sul recupero dei grandi modelli del passato come Raffaello o Correggio e sull'uso del colore tipico della pittura veneta.

Nel ciclo di Palazzo Fava lavorano insieme, alla pari, senza gerarchie, né distinzioni. Se qualcuno, allora, avesse domandato a chi spettava l'una o l'altra scena, avrebbero forse risposto, come faranno qualche anno dopo  per un altra serie di affreschi in palazzo Magnani: "È dei Carracci...l’abbiamo fatta tutt'e tre".
Quando finiscono i lavori nel 1584 (la data iscritta in una delle scene) possono dirsi soddisfatti. 
Le loro idee sono finalmente là, sulle quelle pareti, visibili a tutti. Inutile, per loro, scrivere trattati per esporre le loro teorie: "Noi pittori dobbiamo parlare con le mani"- è solito dire Annibale. E nelle scene del fregio di Palazzo Fava, in effetti, sono i dipinti a parlare per loro.
Poco importa sapere a chi spetti l'esecuzione, se a Ludovico, come per lo più pensano gli studiosi, oppure ad Annibale, Medea è là a dimostrare la novità della loro pittura.

Nella magia della notte, in un'atmosfera piena di grazia e di intimità, la loro giovanissima e timida ragazza non ha nulla della drammaticità che siamo abituati ad associare alla figura di Medea.  
E nemmeno la lontananza raggelante del mito. 
I versi dell'antico poeta sono diventati, nella loro pittura, veri e vivi.  
Solitaria e silenziosa la giovane donna compie il lavacro rituale che precede l'incantesimo con la stessa naturalezza di una contadinella che si bagni, sicura di non essere vista, nelle acque di un ruscello campestre. 
L’esotica regione della Colchide, in cui è ambientato il mito, diventa una campagna conosciuta, magari proprio quella vicino alla città, con i suoi campi erbosi e i suoi corsi d'acqua, circondati di canneti.
Illuminato dalla luce della luna, il  corpo candido della giovane spicca nell'oscurità: come ha detto il grande storico dell'arte Andrea Emiliani, siamo di fronte al “primo nudo femminile intensamente moderno dell’arte italiana”.
Con quest'apparizione di una verità commovente il mito diventa quotidiano, riconoscibile a tutti; la realtà e la natura entrano nella pittura, trasformandola per sempre. 

Nell'eternità dell'arte, lontana da ogni clamore pubblicitario, da ogni facile notorietà, ma anche dal rischio di essere riprodotta su carta da lettere, cravatte o ombrelli, la giovane maga raffigurata dai Carracci continua a trasmetterci il fascino di un capolavoro senza tempo. E, con la sua silenziosa intimità, a trascinare chiunque abbia voglia di soffermarsi a guardarla, nel suo misterioso incanto.





domenica 2 febbraio 2014

Il calendario di pietra: febbraio




"Dixe febraio: io non arò ma' bene/ L'acqua e la neue adoso me uene/Rompo la ghiaza com gran pene/ De tuti i mixi io som lo pezore
Disse febbraio: io non avrò mai pace/L'acqua e la neve mi piombano addosso/Rompo il ghiaccio con gran fatica/Di tutti i mesi sono senz'altro il peggiore" (Anonimo, Ballata dei mesi, sec.XIV)

Gennaio quest'anno è passato in fretta. Appena un soffio ed è già il momento di staccare il secondo foglio del calendario.
Siamo a Febbraio, il mese destinato, nell'antica Roma, ai Lupercali, i riti della purificazione e che proprio dal verbo latino februare (purificare) prende il nome.
Sono davvero molti i calendari scolpiti con le raffigurazioni dei mesi che, tra XII e XIII secolo, ornano le chiese grandi e piccole delle città e della campagna. Tra le tante immagini ho scelto quella del Ciclo eseguito, nella prima metà del Duecento, per la porta meridionale del duomo di Ferrara (e ora conservato al museo della Cattedrale). 
Ed ecco il Febbraio di otto secoli fa:


A sinistra, un giovane contadino, che indossa una corta tunica, trattenuta alla vita da una cintura e con maniche lunghe e strette, si protegge dal freddo con un mantello. Regge in una mano un grande ramo secco e nell'altra una roncola. Ai piedi non porta gli zoccoli, abitualmente usati dai più poveri, ma comode calzature di pelle (o più probabilmente di feltro) che arrivano alle caviglie. 
È raffigurato mentre è intento a uno dei pochi lavori consentiti dalla stagione: la potatura. 
O, forse, invece, sta preparando un palo di sostegno per le viti che allora in Italia venivano già coltivate in filari ravvicinati.
Qualunque sia l'attività, in cui è occupato, probabilmente non vede l'ora di rientrare nel caldo della casa. Ora come allora febbraio era il mese più freddo dell'inverno: i detti popolari "Febbraio, febbraietto mese corto e maledetto", oppure "febbraio corto e amaro" hanno tramandato nel tempo l'idea di un mese gelido e aspro. Un mese, in cui stare al chiuso per proteggersi dai rigori della stagione.
In effetti, a destra, il focolare aperto senza camino- completo di un paiolo e di una cremagliera appesa a un anello al soffitto- e gli insaccati che pendono alla parete danno l'idea di un interno, in cui trovare rifugio. Nessun lusso, nessun elemento superfluo, ma c'è, comunque, da esserne contenti.
Soprattutto in un'epoca in cui non tutti possono contare sul calore del fuoco o sulle scorte di cibo accumulate e in tanti, invece, patiscono i morsi del gelo e della fame.

La scena è tutta qui. Con pochi tratti, l'ignoto scultore riesce a restituire l'atmosfera dell'inverno: gli bastano i rami spogli degli alberi, le calzature pesanti e la presenza, appena suggerita, del tepore del fuoco. 
Un così spiccato interesse per la realtà gli deriva, probabilmente, dalla sua esperienza di artigiano, abituato a trasferirsi ovunque possa trovare lavoro nei cantieri delle cattedrali. Forse nei suoi spostamenti  ha visto i calendari dei mesi delle chiese dell'Ile-de-France ed è rimasto colpito dalla loro attenzione ai più minuti dettagli della vita quotidiana.
Ed è quello che cerca, appunto, di riproporre nel Ciclo di Ferrara. Un altro tocco di verità era aggiunto dal colore che, all'origine, ornava tutte le scene, ma che ormai, con l'andare del tempo, è completamente scomparso.

In ogni caso, quello che colpisce nel mese di Febbraio è la grande dignità, con cui  è rappresentata la scena. Tanto che sembra che il giovane abbia la fierezza di un antico guerriero e impugni il ramo, che tiene in mano, come fosse una spada.
A Ferrara, come negli altri Calendari dei Mesi, i contadini, una parte indispensabile quanto spesso bistrattata della società, diventano finalmente protagonisti: sono loro e non i personaggi delle storie dell'Antico e del Nuovo Testamento, i nobili, o i Santi a ritmare, col loro lavoro, l'avvicendarsi delle stagioni.
E sono i loro gesti e la loro fatica quotidiana, altrimenti ignorata, ad essere tramandati fino a noi.