sabato 26 febbraio 2011

Man Ray, Noire et blanche




Una foto.
Una donna con i capelli neri e il volto appoggiato su un tavolo sorregge una scultura africana che ritrae un viso femminile stilizzato.



Non fu facile trovarle un titolo. 
Il primo, con cui fu pubblicata nel 1926, era Visage de nacre et masque d'ébène (Viso di madreperla e maschera d'ebano). 
Solo più tardi le fu attribuito quello con cui è nota: Noire et blanche (Nera e bianca).
Un titolo più suggestivo che evoca il contrasto tra la pelle della donna e il nero della maschera africana, che rimanda all'incontro di due culture (l'Africa nera e l'Europa), al gioco poetico degli opposti e alla tecnica stessa della fotografia. Un titolo più vicino alle idee del fotografo che la eseguì: Man Ray (1890-1976).

Siamo nella Parigi tra le due guerre, dove l'artista americano  è arrivato nel 1921. 
È un appassionato di fotografia e vuole promuoverla come espressione artistica a se stante. Gli piace sperimentare nuove tecniche e pratica procedimenti innovativi.
Frequenta la cerchia dei surrealisti parigini da André Bréton a Max Ernst, ma è anche il ritrattista alla moda di molti degli intellettuali della Parigi dell'epoca, da Picasso a Matisse a Joyce, a Stravinsky e sarà lui che riprenderà l'ultima immagine di Marcel Proust sul letto di morte.

Anche questa foto è un ritratto, un ritratto in posa, accomodato "ad arte". 
Tutto è studiato: il volto della modella in primo piano, bianco e liscio, come una scultura di marmo, con gli occhi chiusi e le labbra messe in evidenza dal rossetto, le linee orizzontali del viso e verticali della maschera che contrastano con quelle oblique dell'avambraccio, le ombre nitide che il viso e la maschera proiettano sulla superficie liscia del tavolo.

La donna sembra assorta in una fantasticheria, pare stia sognando e il sonno, o meglio, il sogno è molto importante per i surrealisti: significa libertà e trasgressione, aiuta a sorpassare le barriere, le censure della mente nella veglia e ad accedere direttamente all'inconscio, all'essenziale dei nostri pensieri.
L'ovale perfetto del viso della donna è messo a confronto con l'ovale della maschera africana. 
C'è un gioco di corrispondenze tra i due visi, tra l'Europa  e  l'Africa: le due figure femminili si avvicinano al di là del tempo e dello spazio.
L'immagine è doppia: suggerisce che la donna stia sognando un luogo lontano, esotico e che la maschera rappresenti, in qualche modo, anche l'oggetto del sogno.
La maschera è- come voleva l'estetica surrealista- un oggetto  fuori   contesto, che liberamente associato al volto della donna, produce effetti inattesi poetici ed enigmatici
Rimanda all'Africa, all'arte primitiva che i surrealisti amavano perché sovversiva, aliena rispetto alle regole dell'arte occidentale, ma anche ai riti per cui era utilizzata: evoca anch' essa il sogno, la magia, il mistero.

Sappiamo che la modella della foto è una cantante Alice Prin o Kiki de Montparnasse, compagna di Man Ray e al centro di una fitta rete di rapporti con gli intellettuali e gli artisti parigini da Utrillo a Jean Cocteau. 
Sappiamo che la maschera, di tipo Baoulé , tipica della Costa d'Avorio, proviene forse da una di quelle collezioni d'arte africana che allora erano alla moda. 
Sappiamo che la foto fu commissionata da una rivista, Vogue.

Possiamo, però, ignorare questi dati: quello che conta è la suggestione dell'immagine, la bellezza dei due volti contrapposti, l'idea del positivo e del negativo, del dialogo con la differenza, con l'Altro, del confronto tra la tecnica moderna della fotografia e un'arte primitiva, ancestrale.

Il nero e il bianco.






mercoledì 23 febbraio 2011

La finestra di Giotto





Devo fare una lezione su Giotto, qui, in Belgio, alla Facoltà di Filologia romanza per studenti che sanno poco o nulla di storia dell'arte. 
Di Giotto, poi, non conoscono nemmeno il nome. 
Non hanno mai disegnato con le "matite Giotto", non hanno mai sentito l'espressione l'“O di Giotto”, non hanno mai letto alle elementari l'aneddoto del pastorello scoperto a disegnare- e benissimo-  una pecora. 
Tanto meno, sanno della citazione di Dante nella Divina Commedia.

Mi sto preparando su monografie e libri di storia dell'arte:  mi perdo in argomentazioni colte, in discussioni sull'autografia o sulla datazione. 
Finalmente, trovo in  Rinascimento e rinascenze, un grande libro di uno straordinario storico dell'arte, Erwin Panofsky, due citazioni che valgono di più di mille parole.

Come spiegare la novità della concretezza di Giotto,  la diversità  del suo sguardo verso l'esterno, l'innovazione di una maniera di dipingere che si oppone all'astrazione della precedente  pittura "bizantina"? 
Come chiarire  il suo nuovo rivoluzionario  concetto di spazio ?

Ecco: "uscendo dal mondo bizantino ed entrando in Giotto è come se scendessimo da una barca e mettessimo piede sulla terra ferma". 
E, poi, ancora, riprendendo una metafora che risale a Leon Battista Alberti: " è come se Giotto, con la sua pittura, aprisse una finestra sul mondo, che non verrà più richiusa"
Sì, è davvero così,  ma la "finestra di Giotto" non è solo una metafora. 

Per me è questa:

Ai lati dell'arco trionfale della cappella degli Scrovegni a Padova, interamente affrescata, ci sono due zone rimaste vuote. 
Giotto sceglie di non inserirvi altre Storie. 
Dipinge, invece, a trompe-l'oeil, due piccole sagrestie e c'è chi dice che così voglia alludere alle cappelle funerarie  dei  due committenti. 
Sono le "'cappelle segrete " o  "coretti".

Per la prima volta, nell'arte occidentale  c'è uno spazio senza figure. 
Con una architettura dipinta che riprende, senza interromperla,  la decorazione della cappella Giotto "buca" il muro e crea un ambiente illusorio, prospettico: una volta a crociera da cui pende  un lampadario  metallico con i sostegni per i ceri, tipico dell'epoca e, in primo piano, una balaustra di marmo. 
Dietro la balaustra, un vano chiuso da una parete in cui si apre  una bifora,  che imita quelle  vere della cappella e da cui  si intravede un pezzo di cielo.

Non è il cielo astratto e  metafisico della tradizione, dipinto in oro oppure col blu oltremare  uniforme e compatto.  
Giotto crea, finalmente,  un cielo vero, atmosferico e ritrova quella luce celeste chiarissima che si direbbe di certi giorni di primavera, delle  mattine più luminose  di marzo.
Un cielo in cui non ci si stupirebbe di vedere passare delle rondini.

È qui la "finestra di Giotto".
La novità di  un artista che scopre che la pittura può raffigurare quello che l'occhio vede, senza preoccuparsi di  soggetti, di simboli o di figure sacre, senza raccontare una storia.

E la novità dello spazio:  non  quello fittizio e convenzionale degli affreschi,  utile ad ambientare le narrazioni e nemmeno  lo sfondo astratto e stilizzato della pittura bizantina. 
È uno spazio reale che sembra ampliare  quello vero della cappella.
Uno spazio, dove irrompe, per la prima volta, il mondo esterno: una finestra e uno spicchio di cielo.


Siamo nei primi anni del 1300. 
E forse, mentre Giotto dipinge, fuori  è davvero primavera.






domenica 20 febbraio 2011

Lorenzo Lotto, Venere e Cupido




"Solo, senza fidel governo et molto inquieto nella mente" cosí si definisce Lorenzo Lotto ( 1480-1556) nel suo testamento. 
Sono parole a suggello di una vita trascorsa per lo più da solo, irrequieto e isolato. 
Era nato e si era formato come pittore a Venezia.
Ma era stato troppo difficile per lui rimanere in città, tanto si sentiva schiacciato dalla fama di Tiziano che incarnava, per i suoi contemporanei, il meglio della pittura veneziana.

Era troppo inquieto, Lotto,  per star fermo e con la mente sempre in subbuglio. 
Di una fede religiosa profonda e travagliata- lo si sospettava di simpatie luterane- amava l'esoterismo, i rebus, i simboli di cui riempiva i suoi dipinti sacri e profani. 
I suoi colori accesi e discordanti, le sue figure tormentate erano lontane dall' ideale di classico equilibrio del Rinascimento veneziano. 

La sua impossibilità a integrarsi lo costrinse ad una vita errabonda e a lavorare fuori da grandi centri, a Treviso, a Bergamo e, soprattutto, nelle Marche, condannandolo a una carriera modesta e marginale e con continue difficoltà materiali,  fino alla fine.



La Venere e Cupido risale probabilmente al periodo in cui Lotto, alla ricerca affannosa di commissioni, rientra a Venezia intorno al 1540. 
Il soggetto era molto diffuso per dipinti usati come dono di nozze e destinati ad adornare la camera degli sposi. 
Una specie di illustrazione di un epitalamio: la poesia che celebrava il matrimonio tipica della tradizione classica.

Stupisce perché Lotto non era, per carattere, adatto ai soggetti mitologici e, infatti, di lui se ne conoscono pochissimi.
Probabilmente fu la richiesta di un amico che- insieme alla consueta mancanza di denaro- contribuì a fargli accettare il lavoro. 
Una volta acconsentito, quasi per senso di sfida, il suo carattere bizzarro e audace lo spinse a forzare la rappresentazione tradizionale, fino ai limiti della decenza.

Una grande tenda rossa domina il dipinto e si apre, come un sipario di teatro, a mostrare una Venere nuda, opulenta, semi sdraiata su un drappo blu, in una posa tipica nella pittura veneta. 
Porta in testa il diadema con il velo delle spose e degli orecchini con perle destinati, secondo le norme veneziane, solo alle donne "oneste" o maritate.
Rappresenta, allo stesso tempo, la dea dell'amore e la futura sposa, tanto che, mentre il corpo è idealizzato, il viso, dai tratti marcati, potrebbe essere un ritratto.

Lotto dissemina letteralmente il dipinto di tutti gli emblemi possibili che riportino all'amore: dall'edera- passione eterna, ai petali di rosa, fiore di Venere per eccellenza, alla conchiglia che ricorda la nascita della dea.
Venere sostiene un nastro da cui pende una ghirlanda di mirto, una pianta legata all'eros, cui è sospeso un incensiere, anche questo allusivo alla celebrazione dei misteri d'amore. 
Sul drappo blu, in primo piano, un bastone e un serpente mettono in guardia contro le insidie amorose.

Ma, siccome si tratta di un quadro per un matrimonio, ecco che - come nelle canzoni allusive e sboccate che si intonavano nei banchetti - Lotto introduce un elemento trasgressivo e irridente del tutto inconsueto: il Cupido, coronato di mirto, che fa pipì centrando la ghirlanda fino al ventre di Venere. 
È ovviamente un chiaro simbolo di fertilità, ma anche un gioco di libertà e d'amore.

Solo un pittore eccentrico e anticonformista poteva trasformare una rappresentazione, all'epoca ormai codificata, in una delle opere più aperte e audaci del Cinquecento, dove il mito classico diventa carnalità e umanità allo stato puro.
Talmente e gioiosamente erotica da essere libera e innocente.



Anche per questo dipinto ho richiesto uno sguardo diverso dal mio, uno sguardo maschile che raccontasse sensazioni e pensieri che un'opera come questa può provocare


Saper guardare quest'immagine richiede una piacevolissima e dolce fatica.
Quella di riconoscersi, per chi sta vivendo quella scena e quella di ricordarla, per chi non è su quel proscenio. Perché implica il saper tornare con la mente davanti al nucleo semplice e potente dell'amore umano; quello concreto, vero, fatto dalla mente e dal corpo degli uomini e delle donne. 
Significa guardare un nucleo della passione di cui spesso si resta inconsapevoli, ma che è anche il più vero.
Eppure ad uno sguardo distratto potrebbe non sembrare. Bisogna scovarlo e lasciarsene sorprendere. 
In questo dipinto di certo c'è.

C'è un fondo rosso che somiglia al fondale di una scena teatrale, perché di uno spettacolo recitato a beneficio dei soli attori si tratta. C'è una conchiglia che richiama sussurri misteriosi, fascinosi e lontani. C'è la morbidezza di una donna, Venere, la più bella delle donne, quella che ama e che è felice di esporsi, che si accarezza un seno con la dolcezza che non conosce l'offesa implicita nel pudore.

Ha il viso della resa serena e felice che chiede la complicità e la comprensione di chi guarda. Porge l'anello glorioso e agognato, premio e strumento insieme del gioco più bello e più ed antico. E' cosparsa di petali di fiori che richiamano i meccanismi segreti della procreazione, ma anche profumi ineffabili. Sono l'omaggio tributato alla bellezza fertile, che ha scelto di mettersi in gioco nella recita dell'amore.

A giocare con lei è un bambino. Perché l'amore umano intanto è un gioco teatrale, "uno spettacolo d'arte varia". E poi è un gioco teatrale specialissimo, in cui i protagonisti sono sempre e comunque dei bambini: i bambini che ci portiamo dentro e che trovano in quella recita la possibilità di tornare finalmente a giocare insieme, col permesso degli adulti e degli Dei. 

È un bambino felice Cupido. Alato e felice. 
E non potrebbe essere diversamente. Guarda con un sorriso di gioia compiaciuta, dispettosa e trasgressiva il suo oggetto così sorprendentemente disponibile, accogliente, complice.
E cosa fa per condividere questa gioia? Qui è il dettaglio centrale, quello che più ci ha colpito, quel nucleo semplice, meraviglioso e tutto terreno della passione umana, che stavamo cercando.
Cosa fa Cupido per sperimentare questa complicità con la donna splendida che ama?

Fa una cosa comunemente intesa come immonda: la "sporca", ecco che fa! Perché "sporcarsi" a vicenda è il piacere supremo di ogni gioco. Trasformare quel che è comunemente inteso come carnale, degradato e degradante in un un dono da scambiarsi,in uno strumento per riconoscersi, in un estremo segno dell'accoglienza attraverso il quale ci è concessa l'illusione di completarci e perpetuarci: questo è il miracolo vero e completo ed esclusivo dell'umana passione.

E questo vale per i corpi e vale per le menti: la condivisone dell'amore implica indispensabilmente il bisogno di esporre e condividere anche gli umori più oscuri, i pensieri più inconfessabili, le debolezze più estreme. E vederli compresi e trasformati con lo stupore di un bambino in un oggetto di piacere, accolti come un regalo prezioso, come petali di fiori.
Gil






venerdì 18 febbraio 2011

L'aradio della nonna




«Quando io uso una parola», disse Humpty Dumpty in tono d’alterigia, «essa significa ciò che appunto voglio che significhi: né più né meno».«Si tratta di sapere», disse Alice, «se voi potete dare alle parole tanti diversi significati».«Si tratta di sapere», disse Humpty Dumpty, «chi ha da essere il padrone… Questo è tutto».
(Attraverso lo specchio, Lewis Carroll)


"Fede d'Isarca" diceva mia nonna recitando, dopo il Rosario, le litanie alla Madonna.
"E chi era Isarca?" “Un amico della Madonna" rispondeva sicura, tagliando corto e dimostrando di ignorare completamente le sottigliezze teologiche dell'originale: Foederis Arca (Arca dell'alleanza). 
E per me Isarca diventava subito un personaggio a pieno diritto, potevo immaginarlo, ricrearlo, giocarci.

La nonna Maria, quella che mi aveva salvato dal Limbo (ne parlo qui), era una donna di solide quanto approssimative certezze.
Una volta diventata padrona di un concetto, di una parola, sia pure sbagliata, la difendeva a spada estratta - come avrebbe detto - e chi dice che le sue interpretazioni non fossero più sensate di quelle esatte ?

La parola pirata non l'aveva mai convita. "Il pirato - diceva quando giocavamo all'Isola del tesoro – sarebbe meglio: perché è un uomo, il pirato !"
E io che ho vissuto con lei, nei miei primi anni, sono cresciuta parlando un linguaggio a volte impreciso, ma forse più evocativo di quello vero.

L'Aradio (plurale gli Aradi) era l'apparecchio radio che trasmetteva in cucina. E a me quell'Aradio piaceva perché mi pareva un nome tondo, liscio, sonoro, più adatto dello scabro e tronco "radio" che al mio orecchio suonava troppo poco musicale.
Oppure canticchiando il Trovatore (vengo da una famiglia di solida fede verdiana) " Ah d'amor, d'amore, un dardo" al posto dell' '"l'amore ond' ardo" originale. E non era anche questo meglio, non era più chiaro: il dardo d'amore ?



La nonna è la prima che mi ha insegnato che non bisogna avere paura delle parole e che la lingua può diventare un gioco, un gran bel gioco.


Ma è vero che occorre apprenderle, impadronirsene, perché bisogna saperle - e bene - le parole per ritrovare la libertà e la felicità di accendere l'aradio e ascoltare il conte di Luna invocare, cantando, il dardo d'amore.









lunedì 14 febbraio 2011

Georges de La Tour, Le nouveau-né


Una nascita


Ho provato disagio leggendo la biografia di Georges de La Tour (1593-1652).

I documenti ci restituiscono la vita di un pittore affermato, di un figlio di artigiani che si era elevato fino a diventare un signorotto borghese nella Lorena del pieno Seicento. 
Narrano di un uomo arrogante, duro. 
Uno di quelli che amano ostentare i propri privilegi, incuranti dell'opinione pubblica e abituati a usare le maniere forti.

È una biografia in apparente contrasto con i suoi dipinti, con i suoi soggetti, con le scene da osteria,  allora diffuse, ma, soprattutto, con le rappresentazioni degli umili, dei contadini e anche con i suoi "Notturni".

Difficile, ad esempio, immaginarlo autore di un quadro come questo, eseguito intorno al 1650. 
Ma, come sempre, l’opera d'arte esprime più di quello che il pittore si propone. 
E allora bisogna cercare di comprenderne il senso con altri strumenti che non siano solo quelli dello storico dell'arte.

G.de La Tour,Le nouveau-né, Rennes, Musèe des Beaux Arts 

Due donne, raffigurate in primo piano e illuminate da una candela, contemplano un bambino in fasce. 
Tutto è calma e silenzio. 
Nessuna espressione, nessuna emozione, nessun gesto. 
I loro abiti sono semplici, modesti, con colori tra l'ocra e il rosso spento.
Dietro, c'è solo l'oscurità dello sfondo: nessuna ambientazione e nessun arredo.
La luce è quella drammatica dei dipinti di Caravaggio, conosciuti a Roma, ma diventata astratta, metafisica, tanto è nitida e uniforme. 
Le forme sono stilizzate e di una monumentalità che- è stato detto- sta a metà strada tra Giotto e Cézanne.

Ma qual è veramente il soggetto del dipinto: è una scena sacra o è un episodio di vita familiare?
Potrebbe trattarsi di un'"Adorazione del Bambino" con la Madonna e la levatrice, che compare citata  nei Vangeli apocrifi. 
Non c'è, però, alcun elemento che permetta una sicura identificazione: mancano le aureole ed è assente ogni particolare narrativo che faccia pensare alla Natività.
Oppure sono semplicemente due donne che, nell'intimità di una stanza, si occupano di un bambino.
La madre tiene tra le braccia un neonato, raffigurato con una verità che non ha precedenti nella storia della pittura. 
Ha la bocca socchiusa; è senza capelli e con quella pelle lucida che hanno, a volte, i bambini nati da poco. 
È illuminato da una candela, la cui fiamma pare vincere il buio intorno.

Anche se fosse un soggetto profano, c'è, nel dipinto, qualcosa di mistico, c'è un senso profondo di sacralità e di mistero;
Lo stesso che avvolge la nascita di ogni bambino.



Per afferrarlo davvero,questo “mistero”, è necessario affidarsi a uno sguardo diverso. 
Occorre unire all'osservazione l'interpretazione delle sensazioni che ci suscita.


Il sentimento più forte che coglie chi osserva il dipinto è quello dell'esclusione e dell'esclusività: suscita una sorta di ritrosia intrudere con lo sguardo in un'atmosfera di così profonda riservatezza.
L'esclusività d’altronde rimanda ad un soggetto che la implica quasi necessariamente: la coppia madre-figlio, la diade per eccellenza. Poi, c’è un terzo che li osserva. Il resto del mondo è ingoiato nel nero assoluto che le circonda. Gli esclusi siamo noi, gli spettatori di una scena che, chissà, forse non doveva essere vista.
Guardare questo dipinto è come l'aprire una porta all’improvviso e cogliere un'intimità che doveva restare preservata.
La luce, vero cuore pulsante del quadro, è netta. Ed è quella che marca il limite invalicabile tra "loro tre e il resto del mondo".
C'è poi un dettaglio, il "dettaglio interpretante", una piccola cosa che però è centrale. E’ la mano della terza donna: una mano che non ripara tanto la luce abbagliante dagli occhi del bambino, ma piuttosto sembra voler riparare quel loro legame dall'esterno. É evidente un intento tracciante un confine.
Gli altri, al massimo possono occhieggiare, curiosare, ma non partecipare!
Perchè c'è questa esigenza di demarcazione?
Ecco, è qui forse la traccia seguendo la quale è possibile scovare il senso profondo di questo dipinto.
E la risposta forse sta in due elementi decisivi: lo sguardo della madre e le sue mani.

Lo sguardo della madre non è rivolto al bambino. Sembra lo sguardo sospeso di chi sta ad ascoltare. Ascolta le parole di quella che è a sua volta la propria Madre. Siamo davanti alla rappresentazione della "costellazione materna": di quel legame specialissimo e nutriente, fatto di emozioni, fantasmi, parole che legano le generazioni, con una potenza che non verrà mai più eguagliata.
Noi sappiamo che solo il riconoscimento del debito che si ha nei confronti della generazione che ci ha preceduto, solo un rapporto pacificato che consente la condivisione e il sostegno permettono lo sviluppo delle funzioni materne (e paterne), prive di risentimento e pronte ad accogliere il figlio.
Lo sguardo assorto ma anche attento della madre fa pensare proprio che le parole della propria, di madre, siano ascoltate, accolte e pronte ad essere ripensate e rielaborate. Perché solo così possono essere trasmesse alla generazione successiva, quella dei propri figli. 

L'altro elemento forse decisivo riguarda la posizione delle mani e delle braccia che tengono il bambino. Sono mani di una madre giovane e spaventata; dunque poco accoglienti, ancora acerbe. Le mani delle madri hanno una grande funzione: devono sapere toccare, carezzare, curare il corpo del figlio, comunicare con lui più e meglio della voce. Sono mani che possono accogliere o mani che rifiutano; mani che possono dare piacere o mani che allontanano. Sono mani che comunque disegnano le mappe di una mente, i percorsi delle emozioni che verranno.

Questa madre, che pure ha partorito il figlio, non sembra ancora in grado di sentirsi madre. Il percorso dell’attaccamento, dell’adozione materna autentica si sta avviando, ma non è ancora avvenuto: quel bambino non è ancora del tutto figlio "suo". È un momento delicato questo. Il suo esito non è scontato. Richiede che ci siano le condizioni giuste: una protezione, un ambiente che ne permetta lo svolgimento naturale.
In questo momento la generazione precedente ha un ruolo determinante. Deve sostenere e invece potrebbe impedire o distruggere quella naturale ed eppure miracolosa simbiosi madre- figlio.
Il pittore è riuscito a trasmetterci e farci vivere il momento magico in cui le generazioni si saldano e si sostengono per creare il luogo segreto e luminoso e caldo della crescita del bambino.
Un bambino che continuerà a vivere in noi finché vivremo, fatto di attese, speranze e desideri. 
Questo è  il momento sacro della vera, umana generatività.
Roberta






sabato 12 febbraio 2011

L'endocosmo di Fosco Maraini.





Quante parole ha inventato Fosco Maraini !

Uno per cui le parole erano “un tesoro e una bomba ", ma, soprattutto, “una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendone fiumi di sapori e di delizie".

Ecco uno come lui, scrittore, viaggiatore, esperto di lingue e culture orientali, uno che ha scritto poesie come quelle della "Gnosi delle fànfole" (i miei amici ne parlano qui e qui) non poteva che inventare parole, anche quando si trattava di raccontare di sé nella sua autobiografia.

Perché - diceva lui e me lo immagino mentre lo spiegava con il suo bell'accento toscano - esiste un mondo di fuori, l' “esocosmo” - e tutti capiscono cos'è e poi esiste l'”endocosmo”, la proiezione del mondo di fuori dentro di noi. Che è quello che ci forma, quello che bisogna raccontare.

Occorreva davvero inventare una parola per questo? Sì, perché per definire la stessa cosa c'era solo un "termine difficile, una specie di ingombrante mobilone tedesco : Weltanschauung

E chi mai potrebbe usare una parolona simile al posto di “endocosmo”? Ecco com'era Maraini: se una parola non c'è la si inventa, che problema c'è?




E il mio mondo, il mio “endocosmo”, Maraini l'ha influenzato, eccome.

Ho già parlato, commentando un suo libro, del mio incontro con lui, una ventina di anni fa, quando decisi di fare un viaggio da sola in Giappone.
Nello zaino avevo portato due libri: la Guida della Lonely Planet e il libro di Maraini, Ore giapponesi, un testo di cinquecento pagine che pesava come un macigno.
Non l'ho mai rimpianto.

Era gennaio e non era facile affrontare la solitudine nelle camere glaciali dei ryokan di Kioto o di Nara.

Allora mi sedevo sul pavimento (nell'arredo tradizionale giapponese sedie non ce ne sono) e mi dicevo "Leggiamo cosa mi racconta Fosco ".
E Fosco mi trasportava nel suo Giappone infinitamente più bello e intatto del mio, mi raccontava di un paese difficile da comprendere, della mentalità, della storia giapponese, ma  mi diceva anche molto di sé, del suo “endocosmo”, della sua curiosità, del suo spirito toscano beffardo e dissacratorio. 

Raccontava anche episodi gravi, della guerra, ma tutto con un una leggerezza e con un garbo che erano già, di per se stessi, una lezione di vita.
Forse non è riuscito a farmi amare il Giappone, di sicuro è stato un esempio di come accettare la vita: con levità, con distacco ironico, con disincanto, con curiosità, con attenzione verso gli altri e con la voglia e la prontezza di rimettersi in gioco, sempre.

Quando, nel 2004, sono andata a rendere l'ultimo omaggio al “grande Fosco” a Firenze in Palazzo Vecchio mi sono stupita- ma non più di tanto- nel vedere il Salone dei Cinquecento pieno di persone per cui era diventato un amico, un compagno di vita.

Ci aveva cambiato l'"endocosmo" a tutti e sono sicura che lo sapeva.






Fosco Maraini recita " Il giorno ad urlapicchio"
http://www.youtube.com/watch?v=aVdndkjsoyk&feature=player_embedded



martedì 8 febbraio 2011

Le caramelle alascane di Paolo Conte




Alla fine l'ha dovuto ammettere Paolo Conte che le "caramelle alascane" se l'era inventate.

Ma, prima, quante ipotesi, quante ricerche, quante richieste, senza risposta nelle drogherie vecchiotte, quelle d'una volta, quelle che quasi non esistono più.
Banditi ovviamente i supermercati dove- si supponeva- Paolo Conte non sarebbe mai entrato in cerca d'ispirazione.
E i filologi a riflettere, a ipotizzare sull'origine della parola (alascane da Alaska, caramelle ghiacciate, da grande freddo?) e i più poetici, invece, ad associarle con gli occhi da lupa della cassiera, a supporre una voce arrochita dal fumo delle troppe sigarette e a presumere un bisogno di pasticche lenitive, là nel buio claustrofobico della pista da ballo, dove le luci saettavano e il ventilatore da soffitto ronzava, immenso.

L'altra, la cassiera con il volto da pechinese, non masticava caramelle.
No, lei fumava al mentolo.
Le "caramelle alascane" evidentemente si consumavano più tardi, quando la stanchezza arrivava più greve e il rumore dei sax continuava implacabile sempre più forte, mentre i due rimasti là, soli, sulla pista, non avevano bisogno né d'attenzione, né di consigli.

Quante ipotesi, quante fantasie sulla cassiera, con i suoi occhi divoranti da lupa, la donna che resta nell'ombra, in silenzio, masticando lentamente caramelle: le caramelle alascane.
Una parola che evoca la menta, l'eucalipto, un gusto ghiacciato, che la trasporta lontano dal buio di una sala da ballo di periferia.

"Uso un lessico di mia invenzione.... mi è sempre piaciuta l'enigmistica": dice Paolo Conte in un'intervista.
Ogni parola di ogni sua canzone lascia immaginare un mondo. 
Poco importa se le parole esistano davvero o no.

E chi ha creduto, chi ha cercato le caramelle, chi ha scritto perfino all'Ambrosoli o alla Dufour per avere chiarimenti?  
È stato un equivoco.
Con i mondi dei poeti a volte succede.


Paolo, Conte, Boogie

Due note e il ritornello era già nella pelle di quei due

il corpo di lei mandava vampate africane, lui sembrava un coccodrillo...
i sax spingevano a fondo come ciclisti gregari in fuga
e la canzone andava avanti sempre più affondata nell’aria..
quei due continuavano, da lei saliva afrore di coloniali
che giungevano a lui come da una di quelle drogherie di una volta
che tenevano la porta aperta davanti alla primavera…
qualcuno nei paraggi cominciava a starnutire,
il ventilatore ronzava immenso dal soffitto esausto
i sax, ipnotizzati… dai movimenti di lei si spandevano
rumori di gomma e di vernice, da lui di cuoio…
le luci saettavano sul volto pechinese della cassiera
che fumava al mentolo, altri sternutivano senza malizia
e la canzone andava elegante, l’orchestra era partita, decollava...
i musicisti, un tutt’uno col soffitto e il pavimento,
solo il batterista nell’ombra guardava con sguardi cattivi....
quei due danzavano bravi, una nuova cassiera sostituiva la prima,
questa qui aveva gli occhi da lupa e masticava caramelle alascane
quella musica continuava, era una canzone che diceva e non diceva
l’orchestra si dondolava come un palmizio davanti a un mare venerato
quei due sapevano a memoria dove volevano arrivare....
un quinto personaggio esitò
prima di sternutire,
poi si rifugiò nel nulla...
era un mondo adulto,
si sbagliava da professionisti


http://www.youtube.com/watch?v=FUxrJAM9px0&feature=kp


sabato 5 febbraio 2011

Fernand Khnopff, Ritratto di Marguerite







Una donna, giovane, vestita di bianco, sullo sfondo di una porta chiusa. 
È vista di fronte e non sembra poggiare per terra, perché l'immagine è volutamente tagliata in basso, in modo che non si vedano i piedi.
È completamente vestita: anche le mani sono coperte dai guanti.
Porta un corpetto stretto, chiuso al centro da una cucitura evidente, il colletto dell'abito è rialzato, i capelli sono raccolti.
Ci appare avvolta nel vestito come in una corazza, algida e inaccessibile. 
Niente di lei si intravede se non il volto, girato di tre quarti, che sembra voglia sfuggire al nostro sguardo.
Immobile e statica, in una posa che la irrigidisce, è completamente assorta nei suoi pensieri.

È il ritratto di Marguerite Khnopff. 
La data è il 1887. 
Il pittore è il fratello, Fernand, uno degli esponenti più noti del Simbolismo belga.
Quello che Khnopff e i pittori simbolisti vogliono esprimere nei ritratti non è l'apparenza, ma lo spirito della persona, tanto da definirli dei veri e propri paesaggi dell'anima. 
Per loro i simboli devono essere espliciti: la porta chiusa, il corpetto stretto, cucito, l'abito bianco evocano una purezza inviolabile e inviolata. 

È così che Khnopff vuole rappresentate la figura ideale di una donna disincarnata, “angelica”, asessuata: uno dei tipi femminili dell'immaginario degli artisti simbolisti, insieme e in contrasto, con quello della “femme fatale”, attraente e pericolosa.

Ma, come succede con tutti i capolavori, il dipinto rivela molto di più di quello che il pittore si era proposto.
Fin dalla prima volta che l'ho visto, al Museo di Bruxelles, mi è parso che la donna rappresentata, Marguerite, nascondesse una sofferenza inespressa, un dolore tacito.
Suggestione, forse, perché quando si legge la storia di Fernard Khnopff si apprende del legame ossessivo che lo lega alla sorella. 
È lei che ritrae sempre anche nella veste di personaggi storici o mitici.
È lei che raffigura nei disegni e che riprende nelle fotografie. 
È con lei che stabilisce una relazione morbosa, così stretta da escludere il resto del mondo.

La pesantezza di questo legame la si avverte nella malinconia e nella sensazione di un silenzio obbligato, di un riserbo imposto che avvolge la figura.
Certo il pittore cerca di depurare, quasi di censurare,  il groviglio di sentimenti in un'immagine raffinata, studiata.
Cita il precedente della “Dama in bianco” di Wishtler nella figura femminile che contrasta con lo sfondo geometrico delle porte sovrapposte o nel gioco sottile delle tonalità grigie e bianche, appena ravvivate da pochi tocchi di beige e dall'oro del medaglione a lato della porta.

Ma, al di là dei riferimenti, quello che si percepisce è la sensazione di un'ambiguità, di un disagio, per cui sentiamo nella donna del ritratto, qualcosa che tocca la nostra sensibilità, i nostri sentimenti, che supera la nostra indifferenza di spettatori e ci colpisce nel vivo, dritto al cuore.



….e quando il cuore viene colpito, si cerca il conforto di un'amica capace di leggere dentro il volto, dietro le parole, oltre quella porta chiusa. Inaspettato e sorprendente, ecco cosa mi ha raccontato:


Cara amica,
il silenzio obbligato, il riserbo imposto e l'ambiguità: questo vedo nella splendida raffigurazione che mi stai donando. Sono per me gli aspetti decisivi attorno a cui il pittore si muove, delineando un ritratto che fa emergere sensi solo apparentemente convergenti.

Il colore bianco simboleggia la purezza ma può essere anche il non-colore espressione di un vuoto da riempire di fantasie, emozioni o paure. La luce pervade il dipinto, ma lo sguardo della ragazza ci racconta di un pensiero cupo, di qualcosa che succede al di là del visibile.
È un racconto per assenza, più che un racconto per presenza. La porta è chiusa, ma che mondo nasconde quella porta? Il vestito bianco ed accollato copre quello che si intuisce un corpo snello, due seni adolescenziali. Quale il mondo sotto il vestito?

Il braccio infilato dietro la schiena, la posizione ingessata e statica, l'assenza anche di un'ipotesi di movimento mette la giovane in una sorta di 'esposizione' alla vista dell'altro. Un manichino esibito a cui è stata tolta l’anima. Ben diversa da quella “Dama in bianco” di Wishtler con i capelli sciolti, le braccia mollemente affiancate ad un corpo su cui poggia un vestito bianco e che esprime nello sguardo limpido un senso di pace.

Il vestito di Marguerite pare invece ‘ scolpito’ su un corpo sequestrato. Il senso del sequestro lo dà quello sguardo privo di speranza. Fosse triste, farebbe pensare al rimpianto di qualcosa che poteva essere e non è stato, pare invece uno sguardo vuoto di chi non può immaginare nient’altro che la prigionia.
E chi è il carceriere se non il fratello/pittore/padrone che si è impossessato dell’anima e dell’eros di Marguerite?

La scelta di infilarle lunghi guanti di pelle, così arbitraria e provocatoria in questo dipinto, pare essere stato il modo di sequestrare anche la più piccola parte di pelle della sorella. Pelle di animale al posto della pelle di un corpo vivo.
E sul viso, unica parte scoperta, un “burqa” psichico: l’immobilità e la disperanza.
Come se il pittore volesse dire: il corpo vero, quello vivo, lo conosco e lo possiedo solo io. Gli altri ne ammirino il simulacro!
Incesto? Probabilmente, no! L’agito del fantasma incestuoso fa scorrere distruttività ma anche energia, a cui ci si può sottrarre con un grido disperato proveniente dal profondo del corpo. Se d’incesto si trattasse con ogni probabilità il dipinto avrebbe tradito una forza erotica che qui è completamente assente.
Più probabilmente un clima incestuale, dove il fantasma rimane tale, non viene agito ma tutta la relazione è invasa e parassitata dall'ombra del dominio del fratello che in nome del possesso sequestra l’anima.
Roberta





mercoledì 2 febbraio 2011

I punti- premio.




Come il Gregor Samsa di Kafka, o il dottor Jekill di Stevenson, anch'io sento che  dentro di me è  in atto una metamorfosi.



Tutto è cominciato  appena rientrata in Belgio, quando mio marito mi ha detto: "Ancora cinquecento punti del supermercato e riusciremo ad avere una pentola a pressione”. 
È stato l'inizio. 
Ho  sentito subito che quella pentola doveva essere mia, a ogni costo. 
So che non la userò mai, so bene che per averla occorreranno spese per almeno tremila euro, ma il richiamo dei punti premio è irresistibile.

È un virus: mi ha contagiato, qualche anno fa, quando, mangiando innumerevoli pacchi di "Frollini" e di "Morbidi abbracci", arrivai ad aggiudicarmi un raffinato quanto inutile set da colazione- compreso di fornetto scalda brioches- del Mulino Bianco.

L'uomo nasce cacciatore e raccoglitore, lo dicono gli antropologi. 
E quello della raccolta deve essere davvero un istinto primordiale, se si dice che perfino l'austera Marguerite Yourcenar dedicasse le pause della scrittura a riempire album di bollini.

Pullulano i mercatini, virtuali, destinati a favorire gli scambi di punti, dove gli annunci- sintetici e abbreviati- acquistano per i non addetti ai lavori un sapore surreale. 
Agli ignari di Friskies e punti Total lo scambio "Cibo gatto per benzina" può provocare l'improvvisa visione di felini motorizzati, mentre quello di "Centrale latte con Mulino" arriva ad evocare piani di riconversioni nel settore agro-alimentare. 
Meglio non indagare, poi, da  quali insondabili pulsioni derivi il ”Cedesi Pampers per Pizza Hut

Devo ammettere che ho sempre cercato di oppormi con tenacia a ogni richiamo dei punti.
Conosco bene la frenesia e la smania che mi prende. 
Temo che per accumulare bollini sarei capace di qualsiasi bassezza.
Però so, per antica esperienza, che le parole "punti premio", una volta pronunciate, si insinuano subdolamente dentro di me e fanno riemergere alla superficie l'istinto primitivo e mai sopito della "caccia".

La metamorfosi è irreversibile
Ho già selezionato i prodotti che danno più punti: sono disposta a comprare salse tandoori preparate in Belgio, formaggi "feta" danesi e perfino corrosivi yogurt bulgari.
La preda è là. Lo so, mi aspetta. 

Sono pronta.