giovedì 27 agosto 2015

I colori degli uccelli: "The Birds of America" di John James Audubon




Due girifalchi bianchi su uno sfondo di cielo blu in questo acquerello (cm 95x64) conservato alla New York historical society: un'immagine vivida e potente, sospesa tra accuratezza scientifica e poesia.


L'autore, John James Audubon (1785-1851), è di quelli che hanno dietro una storia. Ed è una gran bella storia.
Nato ad Haiti, figlio illegittimo di un ufficiale della marina, si trasferisce col padre in Francia, dove apprende i primi rudimenti di pittura nell'atelier di Jacques-Louis David. 
Ma la sua passione è un'altra: forse memore delle teorie di Rousseau del ritorno alla natura ma, soprattutto, grande camminatore, si inoltra tutti i giorni nelle campagne e nei boschi, col suo taccuino di schizzi, per osservare il mondo degli uccelli, un mondo che lo appassiona sempre di più, fino a diventare per lui una sorta di ossessione.
Nel 1803, appena diciottenne, si imbarca per Stati Uniti per evitare l'arruolamento nell'esercito napoleonico. 
I primi tempi nel suo nuovo paese non sono facili: il mondo degli affari non è fatto per lui, tanto che inanella una serie di fallimenti che culminano in un soggiorno in carcere per debiti. 
Ne esce  solo con quello che ha indosso, ma con i suoi pennelli e i suoi album da disegno. 
Ed ecco che, con l'aiuto della moglie, concepisce un progetto che tenga conto della sua abilità di disegnatore e della sua passione per gli uccelli.

Decide di illustrare, in un modo più preciso e attento al naturale di quanto si fosse fatto fino ad allora, tutti gli uccelli viventi del Nord America e, in più, a grandezza reale: un compito immenso che, da allora in poi, occuperà gran parte della sua vita.
Nel 1820 sale su una barca sul fiume Ohio per dirigersi verso il Western Kentucky, la "frontiera" di allora, e parte per la sua grande avventura. 
I pittori che fino ad allora avevano raffigurato gli uccelli dipingevano per lo più i loro soggetti impagliati  e montati su trespoli. 
Anche Audubon, in caso di necessità, non ha scrupoli a uccidere e impagliare uccelli per sezionarli e studiarli.  Ma non è ciò che vuole: la sua idea è piuttosto quella di raffigurare le sue amate creature dei cieli dal vivo, cogliendole nel momento in cui sono in azione, mentre cercano il cibo, cacciano o si dispongono per il volo. 
Un progetto non facile che esige, oltre a un grande talento, ore e ore di osservazione da vicino (il binocolo farà la sua comparsa solo intorno al 1850) e lunghi appostamenti e  che gli impone, da allora in poi, una vita da nomade. 
Percorre, dunque, con nient'altro che i suoi materiali di artista e, beninteso, il suo fucile, un territorio sterminato dall'Ohio alla Florida alla Louisiana, seguendo il corso dei fiumi con la piroga, camminando o cavalcando tra  boschi e praterie, dalle montagne alla costa.
La sua idea è quella di ritrarre gli uccelli, in acquarelli enormi (che arrivano fino a un metro per sessantacinque). Li farà poi incidere su lastre di rame  e stampare sui fogli più grandi prodotti all'epoca, ritoccandone i colori a mano.
Finanziare una simile impresa non è facile: Audubon, dopo aver cercato invano di trovare fondi negli Stati Uniti, parte nel 1826 per l'Inghilterra.
Là, con la sua aria spavalda riesce ad affascinare un paese dove l'ultimo libro di James  Fenimore Cooper sui "Pionieri" va a ruba e  dove i più lo vedono come un romantico eroe da romanzo. 
Con la sua giacca di pelle di daino e i capelli lunghi fino alle spalle sembra l'incarnazione dell'America selvaggia. 
Nelle sue conferenze delizia  il pubblico con i suoi racconti  che vengono riproposti a puntate sui quotidiani. 
Quegli inglesi abituati alla città o a campagne ridisegnate dall'uomo si stupiscono di fronte a quelle avventure di viaggio, alla narrazioni di lotte con i lupi, di duelli con gli indiani di notti all'addiaccio, ma anche di incontri con cacciatori, con legnaioli o con balenieri.
Ma soprattutto restano ammaliati da quelle immagini di uccelli strani e bellissimi che sembravano usciti da un mondo selvaggio e alieno. 
Come questo "Pink Flamingo":


Insomma, la trasferta inglese è un successo: là raccoglie i fondi che gli consentono di arrivare, dopo quasi vent'anni di lavoro, a pubblicare, nel 1830, "The Birds of America":  quattro volumi con ben 453 tavole con la raffigurazione quasi cinquecento specie nell'inusuale formato  di 100x70.
Ed ecco che in quella, che è subito definita come la più grande enciclopedia ornitologica illustrata, aironi, girifalchi, gru, pappagalli colorati, cigni o picchi  sembrano riprendere vita. 


Audubon è stato capace di cogliere la natura di ognuno di loro e di catturarne qualsiasi azione, si tratti di un'aquila che piomba in volo su una lepre, di un colibrì che succhia il nettare di un fiore o di un gruppo di colorati pappagalli appollaiati sui rami.



Con la sua abilità ha trasformato l'illustrazione ornitologica in una sorta di ritratti di uccelli. Lavorando sulla luce e sulle velature dell'acquerello, usando pastelli, pigmenti metallici e inchiostri differenti, è riuscito a fissare per sempre brevi istanti della vita di quelle creature libere e fragili. 
"La mia scuola furono i campi e le foreste": sostiene Audubon, ma intanto, si mostra informato sulle ultime tendenze artistiche, tanto che il taglio asimmetrico di qualche sua immagine sembra addirittura  tener conto di quelle stampe giapponesi che cominciano a circolare in Europa.
Al confine tra scienza e arte, le sue  tavole, dai colori intensi e luminosi, con i corpi di uccelli impregnati da quella che Audubon chiama "la dolcezza del piumaggio", formano una sorta di poema figurato.
Un poema che oggi ripercorriamo col rimpianto per un tempo, in cui non si immaginava che buona parte di quelle specie si sarebbero estinta, in cui i cieli, i boschi e le campagne erano percorsi dai voli  e risuonavano di cinguettii e in cui la natura, anche se iniziava a subire le prime offese, era ancora in gran parte intatta.





Gli acquerelli di Audubon, che ho conosciuto grazie al blog di un'amica (qui), sono conservati  alla New York Historical Society of America. I 119 esemplari della prima edizione del suo libro per lo più sono conservati in istituzioni pubbliche: qui è un link dove se ne possono scorrere le illustrazioni. 
I rari che sono sul mercato hanno raggiunto quotazioni altissime: uno è stato battuto in asta per 11,5 milioni di dollari qualificandosi come il libro più caro al mondo (qui). La  National Audubon Socitey (qui) creata dopo la sua morte, è diventata un pilastro della difesa del territorio


lunedì 10 agosto 2015

Tra luce e colore: il viaggio di Delacroix in Marocco




L'11 gennaio del 1832 una spedizione diplomatica guidata dal conte de Marny parte da Tolone a bordo della nave "La Perle" alla volta del Marocco: la Francia ha appena conquistato l'Algeria e il re Luigi Filippo vuole intrattenere col Sultano marocchino rapporti di buon vicinato.
Alla missione partecipa un giovane che non ha niente a che fare con la diplomazia: è un pittore di trentaquattro anni,  già considerato come uno dei principali esponenti del movimento romantico e che solo due anni prima ha fatto discutere tutta Parigi con la presentazione del suo dipinto "La libertà che guida il popolo". 
È Eugène Delacroix (1798-1863)


Quel giovane dagli occhi e dai capelli neri, che si ritrae con un'aria da avventuriero, viene descritto dai suoi compagni di viaggio come "qualcuno che ha del talento, dello spirito e un eccellente carattere
In realtà, dietro quell'aspetto un po' sfrontato, si nasconde un temperamento di ferro, "una passione immensa, raddoppiata da una volontà formidabile", come dirà di lui, qualche anno dopo, Charles Baudelaire.
Delacroix, approfittando di qualche conoscenza, si è imbarcato in quella spedizione con un grande entusiasmo: da un po' di tempo aveva voglia di lasciare Parigi e - lui che in genere preferisce la vita casalinga e il lavoro nel suo studio - ha deciso di intraprendere quel viaggio per visitare quello che chiama "l'Oriente mediterraneo" di cui sognava da anni.

Fin dal loro sbarco a Tangeri, i diplomatici e il loro seguito sono accolti con un susseguirsi di ricevimenti, di cerimonie o di spettacoli equestri. 
Gli spostamenti, però, non sono di tutto riposo: si viaggia in carovana a cavallo a a dorso di cammello e spesso ci si deve accampare dove capita.
Delacroix non si lamenta mai dei disagi: è di una curiosità insaziabile e tutto per lui è fonte di meraviglia.
Appena arrivato, appunta nel suo diario:"Mi sento stordito da quello che vedo: è come se stessi sognando". 
Quel favoloso Oriente, che tante volte aveva immaginato, si rivela ora ai suoi occhi come un mondo di incanti: "il pittoresco qui abbonda - racconta - è un luogo fatto per i pittori...La bellezza è dappertutto, non la bellezza raffigurata nei quadri alla moda, ma qualcosa di più semplice e primordiale".
Le sensazioni che prova sono tante e, da pittore qual è, non ha altro modo per fermarle che riempire, uno dopo l'altro, i piccoli taccuini che ha portato con sé e che non abbandona mai.



In quei piccoli quadernetti (il più grande è alto circa 20 cm) disegna tutto quello che vede e consegna, giorno per giorno, le sue impressioni, descrivendo i paesaggi, le strade sassose, l'abbigliamento degli uomini e delle donne o i particolari delle architetture delle case.
Disegna dappertutto in pagine confuse, in cui accumula piccoli schizzi e scritte che integrano i disegni, in un disordine che tradisce tutta la sua eccitazione.
A volte lascia una pagina bianca, a volte riempie anche i margini, a volte gli capita di tenere il taccuino al contrario.



Non smette di disegnare nemmeno quando è a cavallo: ha trovato la maniera di fissare il taccuino alla sella e, in quella scomoda posizione, continua a scrivere, anche se con una scrittura un po' tremolante e a eseguire i suoi schizzi con la paura di lasciarsi sfuggire anche un solo particolare e il timore che qualcosa, comunque, resti fuori: "Come potrò rendere - scrive- questa strana sinfonia di profumi, questi sentori d'ambra, di chiodi di garofano e di spezie, queste fragranze che si sovrappongono?".
La sera, con calma, completa gli schizzi, dà una risposta alle domande sui nomi o sui luoghi che si era appuntato e colora i disegni ad acquerello.
Oppure traccia su fogli di album più grandi qualche scena che vuole riprodurre con maggior cura, come le corse con i cavalli che lo appassionano e che considera una manifestazione di coraggio e di vitalità


  
Gli abitanti di quei luoghi, con i loro caffettani o i loro turbanti lo esaltano per la loro bellezza pura e senza affettazioni, per la loro fierezza e per la loro dignità. Tanto che gli sembra di riscoprire tra la gente che incontra per strada, più vera e autentica, l'essenza stessa della classicità;
"Qui è bello come ai tempi di Omero - spiega -...Roma è qui" e aggiunge: "mentre camminano per le strade, questi uomini hanno l'aria di consoli romani, di Catone o di Bruto e non gli manca nemmeno l'aria sdegnosa degli antichi padroni del mondo"




Delle donne ammira la bellezza ombrosa e, quando può, disegna i loro voliti, gli abiti o i gioielli



Ma quello che , soprattutto, lo impressiona è la luce, una luce nitida e chiara a cui non era abituato, una luce che rivela la natura dura e aspra del paesaggio del deserto, dove "perfino l'ombra prende dei riflessi turchesi"



Cinque mesi dura il viaggio e sette sono i taccuini che Delacroix riempe (di questi ne sopravvivono ora solo quattro: uno al Musée Condé a Chantilly e gli altri tre al Louvre).
Quando torna a Parigi, teme che i suoi schizzi, spontanei e frettolosi, saranno "come alberi sradicati dal terreno che occupano" e che finiranno per diventare solo l'eco di un ricordo.



Si inganna. Il futuro lo smentirà, perché proprio in quei taccuini troverà, da allora in poi, la sua fonte di ispirazione: in quei mesi passati in Marocco la sua visione dell'arte è profondamente cambiata. 
Prima di lui l'Oriente, pur tanto alla moda, era trattato nei dipinti del tempo come un decoro da teatro. 
Grazie ai suoi schizzi Delacroix crea un nuovo vocabolario che conferisce alle sue ambientazioni un nuovo spessore e una profondità fatta di osservazioni di vita vissuta.



E, poi, ci sarà un'altra importante conseguenza: la luce e il colore entreranno prepotentemente nelle sue opere.
Fin dai primi giorni del viaggio, quello che chiamava "il piacere dell'aria e della luce" lo aveva obbligato, già nei suoi schizzi, a schiarire la tavolozza e a inserire il colore. Non tornerà più indietro.
Com'è stato notato, dopo il suo soggiorno in Marocco, nei suoi quadri "il sole caccia, una volta per tutte, le ombre fumose del romanticismo"
Il suo destino d'artista sarà, dunque,  legato a quella luce abbagliante e a quei colori intensi, che studierà nei loro effetti ottici e che cercherà costantemente di riprodurre.
Saranno quei colori che lo faranno diventare, come afferma Cézanne, "la più bella tavolozza di Francia", rendendogli, da pittore a pittore, uno degli omaggi più sentiti e ammettendo che "noi dipingiamo tutti grazie a lui".




sabato 1 agosto 2015

I Mesi degli Arazzi Trivulzio. agosto



Dopo un mese intero di assenza torno a scrivere sul blog, giusto in tempo per non perdere l’abitudine di vedere cosa ci riserva il mese che sta per cominciare nella serie dei dodici grandi arazzi con il Ciclo dei mesi attualmente conservati al Castello Sforzesco di Milano.
Commissionati agli inizi del Cinquecento da Gian Giacomo Trivulzio, allora governatore di Milano, i grandi arazzi di circa cinque metri di lato, furono eseguiti dalla manifattura di Vigevano su disegno di Bartolomeo Suardi detto il Bramantino (1465 ca-1530).
Ed ecco qui il mese di Agosto 


La scena, come al solito, è inquadrata da una cornice con gli stemmi dei Trivulzio e delle famiglie ad esse imparentate ed è sormontata, in alto al centro, dal grande stemma dei Trivulzio. 
Ai lati, compaiono le raffigurazioni del Sole e della Vergine, segno zodiacale del Mese, rappresentata come un angelo che tiene tra le mani il caduceo, il bastone alato con i due serpenti attorcigliati, legato alla rappresentazione del dio Ermes o Mercurio e simbolo di pace e di prosperità. 
Sullo sfondo di una grande piazza rinascimentale, Agosto è raffigurato al centro, seduto su un trono, vestito all'antica e incoronato di pampini e foglie di vite. Nella mano destra tiene un cratere, il grande vaso che, nell'antichità, serviva a mescere il vino nei banchetti e poggia i piedi su due meloni, la frutta tipica della stagione adatta, a quanto si dice, a dissetare dalla calura.
Nel gradino del trono si legge "Bacchi sacris vindemiam / Augustus augurat, terit / milium novisque fructibus/ mero et calorem temperat: Agosto trae auspici di vendemmia con i riti di Bacco, sgrana il miglio e tempera la calura con i frutti freschi e col vino"

È indubbio, a questo punto, che tutta la scena sia dedicata al vino.
A destra, in effetti, è rappresentata la fabbricazione delle botti destinate a contenere il vino nuovo.
Mentre, in alto, i buoi ancora aggiogati hanno probabilmente appena terminato la trebbiatura del miglio, alcuni giovani, vestiti con corte tuniche, preparano i cerchi con cui verranno chiuse le doghe delle botti e i vincastri, i rami di salice che verranno usati per legarli. 
In primo piano, un ragazzo, seduto sopra i cerchi già pronti raffigurati con uno di quegli arditi scorci prospettici cari a Bramantino, guarda verso lo spettatore.

A sinistra la scena è di tutt'altro genere. 
Qui, nessuna attività agricola, solo ozio.
Sulla tavola ci sono ancora i resti di un frugale pasto a base di meloni, ma abbondantemente innaffiato dal vino. 
Un uomo in piedi versa il vino rimasto nel fiasco capovolto che tiene tra le mani sulla schiena di un giovane addormentato con la testa reclinata sul tavolo, mentre i due personaggi sullo sfondo si affrontano con gesti concitati. 
Ubriacatura, indolenza, rissosità: ce n'è abbastanza per leggere nella scena un’esortazione a non abusare del vino, ma anche, forse, a non concedersi troppe pause dal lavoro dei campi.
Anche il vecchio seduto con una fiasca in mano e il giovane nudo addormentato, rappresentati in primo piano ai piedi del trono d'Agosto, sembrano mettere in guardia da un uso eccessivo del vino. 


In basso al centro, su un tappeto a rombi colorati, una natura morta di uva, fichi e meloni disposti a terra o su due vassoi riconcilia con la stagione, in cui la frutta matura al sole e il freddo e il buio dell’inverno sono ancora lontani










Un approfondimento delle vicende storiche e dell'iconografia degli arazzi è in G.Agosti e J.Stoppa, I Mesi del Bramantino, ed. Officina libraria 2012