venerdì 30 marzo 2012

Il mal d'amore: il "Ritratto di flautista" di Savoldo




Oggi, a Bologna, in una via del centro.

Su una panchina, un ragazzo con un maglione nero, completamente assorto, ascolta  della musica.
I capelli lunghi gli coprono gli occhi, lasciandoli un po' in ombra.
Improvvisamente spegne l'iPod, alza la testa e guarda le persone che passano con uno sguardo ferito e malinconico, che lo rende più maturo della sua età.
Quando l'ho visto, mi ha comunicato da subito una sensazione di grande tristezza. 

Un ritratto, datato intorno al 1530 e ora alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia:



Una stanza spoglia e un tavolo, su cui posa un leggio con un libro aperto.
La luce radente evidenzia pochi oggetti: i libri nella nicchia e uno spartito appeso al muro.
Un ragazzo, con una veste di velluto nero e una sopraveste grigia foderata di pelliccia, che lo infagotta, come se fosse troppo grande per lui, si volta verso di noi tenendo un flauto tra le mani, come se fosse stato appena distolto dalla musica.
Gli occhi, sotto il cappello nero a tesa larga che gli ombreggia il viso, sembrano febbricitanti.
Appare completamente chiuso in se stesso e dà l'idea di una profonda malinconia.
Quali siano i suoi pensieri lo si può scoprire, se si guarda meglio il foglio da musica attaccato alla parete.
Là si legge, oltre alla firma dell’artista, un brano musicale che è stato identificato con una composizione del padovano Francesco Patavino.
Il pezzo – uno dei rari profani del musicista - è il lamento di un innamorato deluso.

Allora non è solo malinconia quella del ragazzo: è mal d'amore.
Difficile, davvero, raffigurare la sofferenza amorosa, senza ricorrere a tutto l'armamentario mitologico di Veneri, Cupidi, frecce e cuori trafitti.
Eppure, l'autore, il bresciano Giovan Gerolamo Savoldo ( 1480/1485- dopo il 1548), c'è riuscito, unendo un chiaroscuro che ricorda quello di Leonardo con l’atmosfera di certi dipinti di Giorgione e dando al dipinto un tono sospeso e sognante.

Come avviene per molti artisti tra Veneto e Lombardia, la sua è una pittura diversa, sia da quella del manierismo toscano, che dall'esaltazione del colore veneziana. È una  pittura vicina alla realtà, attenta ai sentimenti e alle cose di tutti i giorni.
Non è mai retorica o gridata.
Questo, poi, non è un ritratto in posa, fatto per sottolineare la ricchezza o uno status sociale elevato.
Forse, non è nemmeno un ritratto vero e proprio.
È, piuttosto, una rappresentazione emotiva, che sa cogliere, più che l'esattezza delle fattezze, le sfumature di uno stato d'animo. E che è capace di ricreare un momento d'emozione che unisce il giovane a chi lo guarda.

Il suo sguardo è talmente  intenso che, se ci si  scorda dell’abbigliamento cinquecentesco e si coglie solo la sensazione che trasmette, si ritrova la stessa sofferenza del ragazzo di oggi, a Bologna.
Due adolescenti che hanno negli occhi la medesima espressione.
Distanti cinque secoli, eppure simili.
La pittura del Cinquecento non è poi così lontana, quando i sentimenti rappresentati hanno questa intensità e questa forza.

Il mal d'amore non cambia con i secoli.


 



lunedì 26 marzo 2012

Il vizio di Degas





A Parigi, nel Museo d'Orsay, c'è una bella mostra su "Degas e il nudo"(qui è il link).
Uno dei dipinti esposti è questo:




È un  pastello, datato intorno al 1880: sullo sfondo di un vivace colore arancio, una giovane donna nuda, voltata di spalle, seduta su un telo bianco, si sta pettinando. 
È talmente concentrata su se stessa che, guardandola, si ha l'impressione di violare qualcosa di intimo. Di rubare un momento privato.

In realtà non è così.
È una messa in scena. Per ottenere l'effetto di una pittura "in presa diretta", Edgar Degas (1834- 1917) ha fatto infinite prove e non ha lasciato nulla al caso.
Ha costruito, nel suo atelier, una vera e propria scenografia, con  una vasca da bagno di zinco e candidi asciugamani e ha fatto posare la modella negli atteggiamenti che lui stesso ha suggerito. Come un regista in un teatro.
La sua idea è quella di rappresentare, come se "fossero spiate, di nascosto, dal buco della serratura", donne che compiono  normali gesti di toilette quotidiana.
E così quella del dipinto non dà affatto l'idea di essere una modella professionista e neanche di essere  in posa.
Sembra una donna qualsiasi, che si è appena svestita, del tutto inconsapevole della presenza del pittore.
Degas ha raggiunto il risultato che desiderava: l'artificio è diventato vita vera. 

Da un po' di tempo sta cercando di  rinnovare il tema tradizionale del nudo.
Basta con la mitologia, le Veneri, le Ninfe o i soggetti tratti dalla Bibbia: Degas è d'accordo con Manet e gli artisti del suo tempo nel pensare che la pittura debba rappresentare la realtà contemporanea.
"Cent'anni fa - afferma - avrei dipinto delle Susanne al bagno, ora dipingo donne che si lavano in una tinozza".

Da sempre la sua passione, il  vizio di cui non riesce a fare a meno- lo dice più volte - è quello della pittura.
Per lui ogni vero pittore deve essere un voyeur, un guardone: uno che spia, che osserva, che è capace di catturare  la vita e di trasmetterla nei suoi dipinti.
Non gli interessa nulla della natura, né di lavorare all'aperto, come fanno gli impressionisti, anzi.
"Bisognerebbe fucilare chiunque pianti  il cavalletto en plein air": ripete spesso.

I soli paesaggi che lo attirano sono quelli interiori, quelli dell'anima.
Vuole che nei suoi dipinti ci siano persone.
Gli ambienti intorno non sono che accessori.

Il suo bisogno di dipingere,  esplorando ogni momento e ogni gesto, del quotidiano, lo porta all'osservazione ostinata e quasi maniacale di un universo che, insieme, lo attrae e lo respinge, quello delle donne. Per lui, conoscerlo, spiarlo attraverso la pittura, è diventata un'ossessione.
Di pastelli con "Donne alla toilette" ne farà almeno trecento. Ma, per lo più, rimarranno accatastati e invenduti nel suo atelier, quasi li avesse dipinti solo per se stesso.

Scoprire il mistero femminile ed entrare in un mondo che gli è estraneo, non deve essere stato facile per uno scapolo incallito come lui.
La sua diffidenza nei confronti delle donne deve essere nota, se uno come Van Gogh, che pure qualche problema di relazione ce l'ha, arriva a dire:  "Degas?  È una specie di triste e solitario notaio che non conosce la gioia delle nozze
Molti lo accusano apertamente di misoginia.
Certamente non è molto amato dalle donne, ma, per dir la verità,  nemmeno dagli uomini.
Amici e nemici sono d'accordo nel dire che ha un pessimo carattere: è  scontroso, sarcastico e di una supponenza insopportabile. Le opinini degli altri non lo interessano e lo fa capire.
"Il n'est capable d'aimer un femme, ni même de lui dire, ni de rien faire: Non è capace di amare una donna, né di dirglielo, né di fare nulla": - dice di lui Berthe Morisot, che è tra i pochi a essergli realmente affezionata.

Si sussurra che, come molti della sua generazione, da Baudelaire a Manet, sia stato vittima di quella che tutti chiamano semplicemente "la malattia", la sifilide. E che, obbligato a prendere distanza dal corpo delle donne, sia rimasto, comunque, affascinato dalla loro segreta intimità.


Nel corso della sua carriera ha studiato il movimento dei cavalli e dei fantini a Longchamps o le attitudini delle piccole ballerine dell'Opera. Ora, con lo stesso apparente distacco, osserva  donne colte nei loro momenti più privati. Come questa, immersa nell'acqua di una vasca da bagno.







O questa, resa in un atteggiamento così naturale, da superare ogni accomodamento, ogni finzione.


Come sempre, il volto,  è nascosto, o coperto dalla massa dei capelli.








C'è, comunque, in tutti i dipinti della serie,  una straordinaria mescolanza di dolcezza e timidezza.
Niente di sensuale, né di malizioso: le morbide sfumature gialle,  rosse, verdi o malva dei pastelli, che usa con una straordinaria maestria, cancellano ogni crudezza.

Si ha l'impressione che, mano a mano che li dipinge e al di là di ogni sua aspettativa, scopra quello che, all'inizio, non si era nemmeno immaginato:  che la verità del corpo, così come la rappresenta, non è mai né oscena, né degradante.

È la bellezza pura della vita, senza filtri e senza orpelli.
"E se la grazia fosse nascosta proprio nelle cose più ordinarie ?": si chiedeva, anni prima.
Forse, nei suoi nudi di donne, ha trovato la risposta.



 

 

mercoledì 21 marzo 2012

"Tintin nel paese dei Belgi"




Secondo Wikipedia, nel Belgio attualmente ci sono 10.998.201 abitanti.
10.998.201 lettori appassionati di Tintin. Più uno: io

E pensare che quando sono arrivata a Bruxelles, Tintin nemmeno lo conoscevo! Invece, da quando sono qui, dove i fumetti sono la passione nazionale, l'avventuroso  reporter col ciuffo, il cane Milou, il capitano Haddock e tutti i personaggi di Hergé (1907- 1983) sono entrati a far parte della mia vita. Ben prima che Steven Spielberg li scoprisse e ci facesse un film.


Georges Remi -lo pseudonimo Hergé nasce dalle iniziali RG - da ragazzo era poco dotato per gli studi, inquieto, sognatore e, a detta di molti,  "insupportable, sauf quand il a un crayon à la main: insopportabile, salvo che con una matita in mano".
Ha appena ventun anni, quando crea Tintin. E fin dall'inizio è un successo clamoroso, dovuto, in gran parte,  alla novità del suo linguaggio grafico. Un tratto netto e preciso, colori nitidi, stesi in maniera uniforme e contorni ben definiti:  la cosiddetta "linea chiara", di cui Hergé è considerato l'ideatore. Un linguaggio che lo ha  reso, da subito, un caposcuola.

Si dice che, insieme a Simenon e a Magritte, sia, ormai,  il belga più famoso nel mondo. E i 230 milioni di fumetti venduti e tradotti in ottanta lingue, lo confermano.
Di padre fiammingo e madre vallone, nato in pieno centro di Bruxelles, belga lo è davvero e fin nel profondo dell'anima, tanto che questo paese lui non lo ha mai lasciato, nemmeno per un viaggio.

I luoghi, dove ambienta le sue avventure, la Russia, il Congo, il Perù, l'Egitto, il Tibet.. non li ha mai visti. 
Per cercare ispirazione gli è bastato guardare l'Atlante e leggere giornali e riviste scientifiche nel chiuso della sua casa,  frequentare musei d'arte e di storia naturale, oppure, semplicemente, sognare, naso in aria, per le strade di Bruxelles.

Bruxelles, onnipresente nella sua vita,  si trasforma, nei suoi disegni, in tutte le città che Tintin percorre a caccia di avventure.



Tanto che ci si può divertire a ritrovarla  e a identificare luoghi conosciuti.
Per esempio, la via, dove, qui, Tintin scorrazza in moto, altro non è che è una delle più  note  della città: Avenue Louise. 







Se Bruxelles compare in molti dei suoi fumetti, a volte, invece, è Tintin stesso, che esce dalle pagine stampate e se ne va  a zonzo per la città



Eccolo col Capitano Haddock, mentre si arrampica su una scala, in pieno centro, in rue Etuve, non lontano da quell'altra celebrità cittadina che è il Manneken pis (ne ho parlato qui)








Col fido Milou, troneggia, vicino alla Gare du Midi, sul tetto della sede delle Editions du Lombard, che pubblicarono i fumetti di Hergé, a partire dal 1946.




Se facciamo attenzione, lo scopriamo, mentre cerca di mimetizzarsi nel grande affresco in bianco e nero della Gare Bruxelles- Luxembourg.







Oppure mentre passa da un'avventura all'altra, nei 135 metri di affresco della stazione del Metro Stockel





Il razzo, che lo ha portato sulla luna, è parcheggiato all'ingresso del Centre belge de la Bande dessinée, dove non stona con la bella architettura art-nouveau di Victor Horta.






Insomma,  Tintin può sbucare, all'improvviso dappertutto.
Basta fare attenzione, quando si cammina per la città (qui è un link)

Da un po' di tempo, però, ha deciso di stabilirsi a una ventina di chilometri da Bruxelles, a Louvain- la- Neuve. E posto più adatto non lo poteva trovare.
È la città  più nuova del Belgio, nata nel 1968 per accogliere gli studenti francofoni, respinti dall'università fiamminga di Lovanio, dopo una delle consuete crisi tra le due comunità linguistiche.
Una città, dall'aria di uno scenario di cartapesta, con le  sue strade rettilinee e i suoi edifici tutti uguali. Perfetta per un fumetto.

A pochi metri dalla stazione, un cartello  indica "rue du Labrador 26": è l'indirizzo che Tintin dichiara nei suoi documenti.
Proprio lì - e dove altrimenti ?- c'è il Musée Hergé.
Un edificio nuovo, inaugurato nel 2009 e  progettato da un celebre architetto  che (per caso?) ha un nome che non sfigurerebbe in una storia a fumetti: Christian de Portzmparc

Chi ama Tintin si può perdere nei suoi  3.600   metri quadri, ripercorrendo, passo passo, la vita e l'attività di Hergé, oppure sostando  nelle sale, ognuna delle quali è dedicata a un  personaggio.
E vi compaiono tutti: dalla capricciosa cantante lirica Bianca Castafiore, ai due detectives  poco perspicaci,  sosia (e non gemelli), dai cognomi simili di  Dupont e Dupond. 



E tutto in  un'architettura di superfici chiare  e colori netti, la più simile alla "linea chiara" di Hergé che si possa immaginare.

Un fumetto di un reporter dal ciuffo ribelle, che invade i muri di Bruxelles.
Un autore che racconta solo di paesi stranieri e non si muove mai dal Belgio.
Un museo in una città che sembra finta e un architetto col  nome di un personaggio dei fumetti.
Stranezze ? No, una spiegazione c'è: Hergé e Tintin sono nati a Bruxelles.
È ovvio che siano stati contagiati da quel tocco di surrealismo e quel  petit grain de folie, che si respira in questo paese.
Anche in questo caso, non c'è da stupirsi:"c'est du belge"!



(Le parole in rosso sono link)

giovedì 15 marzo 2012

Il "Ramo di mandorlo" di Van Gogh: lo zio Vincent




Il mio nipotino più piccolo ha due anni. E mi ha fatto riscoprire quali emozioni bellissime e  profonde provochi l'essere zii, la ziitudine, come la chiamo (ne ho parlato qui).
Ne trattano film e libri;  mi sono ricordata, ora, che c'è anche un dipinto, uno dei più belli e più noti di van Gogh: il "Ramo di mandorlo":


È un quadro famoso, riprodotto infinite volte. È talmente banalizzato a motivo decorativo di carte da parati, foulards o ombrelli, che quasi ci si scorda la ragione, per cui fu fatto.
E si rischia di perdere qualcosa.

Il 31 gennaio del 1890 nasce il primo figlio di Johanna e Theo, il fratello del pittore, a cui è molto legato e con cui intrattiene una corrispondenza fittissima.
I due lo hanno scelto come padrino e hanno deciso di chiamarlo come lui, Vincent Willem.
Van Gogh scrive che avrebbe preferito che fosse battezzato col nome del padre, ma si capisce che, in fondo, ne è contento e, forse, lusingato.
Decide, allora, di regalare al bambino un suo quadro.
Che cosa altro potrebbe dargli? Dipingere è quello che sa fare meglio, è la cosa più importante, è la sua vita.

Il 15 febbraio scrive alla madre: "Ho iniziato subito una tela per il figlio di Theo, da appendere nella loro camera da letto, una tela azzurro cielo, sulla quale si stagliano grandi fiori di mandorlo bianchi".
I fiori di mandorlo van Gogh li può vedere nei campi, quasi sotto le sue finestre. Sono i primi a sbocciare, a febbraio, quando l'inverno non è ancora finito e gli appaiono come un segno di rinascita e di speranza.
Quale soggetto migliore per un bambino appena nato?

E chissà che anche lui non speri di uscire, finalmente, da quelle crisi di depressione che gli hanno segnato l'esistenza.
In quel periodo è in Provenza, a Saint Remy, nella Maison de Santé de Saint Paul- de- Mausole, un vecchio convento trasformato in ospedale psichiatrico. Stava così male, qualche mese prima, che i vicini hanno protestato per le sue crisi e ha dovuto prendere lui stesso la decisione di internarsi.
Ha scelto, insieme al fratello, un luogo dove può avere la possibilità di uscire e di dipingere.
Ha trentasette anni e, dietro di sé, una vita bruciata, in un continuo alternarsi di attività febbrile, momenti di sconforto e attacchi di follia. La nascita del nipotino, per un po', lo ha placato e, come al solito, usa i colori per esprimere le sue emozioni.

Il cielo è di un azzurro turchese molto acceso, i fiori bianchi, stesi in spesse pennellate, sono eseguiti con grande cura, uno a uno, e ravvivati da un tocco di rosso, il contorno dei rami è segnato da linee marcate verdi e marrone. Ogni senso dello spazio è annullato, la forma è creata solo attraverso il colore.
Nel dipingerlo si è ricordato, sicuramente, di quelle stampe giapponesi che ama tanto e che ha sempre appese ai muri della sua stanza.

Scrive alla madre: "il ramo di mandorlo è, forse, il dipinto migliore che ho fatto, quello a cui ho lavorato con più pazienza e con più calma".
È una pausa di quiete, ma non durerà a lungo.
Le crisi riprenderanno con più violenza di prima e la situazione precipiterà, nei mesi successivi, fino alla scelta finale del suicidio.
La serenità è stata effimera: è sfiorita velocemente, come i fiori di mandorlo. Lo dice lui stesso in una lettera al fratello.

Però mi piace pensare che questo dipinto sia stato legato a un momento, sia pur breve, di pace e di tranquillità e immaginare quel moto di orgoglio che anche van Gogh, come tutti gli zii, avrà provato, quando la cognata gli ha scritto: "al bambino piace guardare i quadri dello zio Vincent e sembra affascinato dal ramo di mandorlo in fiore, appeso sopra il suo lettino".

 





In questo sito (qui è il link) sono pubblicate tutte le lettere di Van Gogh, dirette ai familiari e agli amici.

domenica 11 marzo 2012

L'asparago di Manet





Perché proprio gli asparagi e non piuttosto le zucchine, i cetrioli o i cavoletti di Bruxelles, è difficile a spiegarsi. Eppure Luigi XIV, il Re Sole, li considerava, più che una prelibatezza, un vero e proprio invito all'amore. Eppure sono stati descritti, con parole ispirate, da Marcel Proust e, sia pure per paradosso, paragonati all'immortalità dell'anima da Achille Campanile.
Eppure anche il solitario asparago, protagonista del piccolo dipinto (16x20cm) di Edouard Manet, ora a Parigi, al Musée d'Orsay, ha una storia. Ed è una gran bella storia.




Siamo intorno al 1880. Il protagonista è Charles Ephrussi, banchiere, grande intenditore d'arte, collezionista di quadri impressionisti e direttore della "Gazette des Beaux Arts". Un uomo dal gusto sicuro e raffinato; uno dei modelli del personaggio di Swann nella "Recherche" di Proust.


Ephrussi commissiona a Manet una natura morta, un mazzo di asparagi (oggi al Walraf-Richartz Museum di Colonia).
Chiede il prezzo e Manet domanda ottocento franchi. Ephrussi gliene dà mille, dicendo che, per un dipinto, non è abituato a pagare di meno.
Come sdebitarsi in maniera elegante?
Manet è uomo di mondo, spiritoso, divertente, le sue battute ironiche fanno il giro di Parigi: la maniera la trova. Dipinge questo unico asparago e lo manda a Ephrussi con un biglietto "Il en manquait une à votre botte: Ne mancava uno al vostro mazzo".

Una battuta, una strizzatina d'occhio e ci consegna, come un cotillon, un piccolo capolavoro.

Nell'ultimo periodo della sua vita la natura morta diventa per Manet un soggetto privilegiato, un omaggio alla pittura degli artisti spagnoli che ama tanto, o a quella settecentesca di Chardin che ha nobilitato gli umili oggetti del quotidiano.

Di nature morte ne ha inserite sempre nei suoi dipinti, ma, ora, gli oggetti della vita di tutti i giorni, fiori, frutta, pesci diventano protagonisti.
E ne dipinge spesso, anche solo per se stesso. Invia un quadretto con un mazzo di viole a Berthe Morisot per scusarsi di aver venduto il suo ritratto. Oppure, quando è lontano da Parigi, inserisce piccoli acquerelli nelle lettere agli amici, dipingendo semplicemente quello che vede dalla finestra o nel giardino.

E di nature morte comincia ad esporne sempre più spesso, tanto che qualche detrattore - e ce ne sono - lo qualifica, ormai, di "eccellente ritrattista di meloni".

Nessun simbolismo, né teorie filosofiche. Manet ha sempre amato dipingere la vita di tutti i giorni: è quella che ha raffigurato nei suoi quadri e che, spesso, ha fatto scandalo. Una "Venere" ridotta a prostituta nell'"Olympia", il "Concerto campestre" di Giorgione e Tiziano che diventa una specie di pic -nic tra amici nel "Deujeuner sur l'herbe".
Ora, con le sue nature morte, è come se varcasse un'altra frontiera.
A questo punto, davvero, non è più il soggetto che conta. Quello che vale è la pittura in sé.

"Il vizio principale di Manet è una sorta di panteismo per cui, nella sua pittura, accorda la stessa importanza a una testa che a un paio di ciabatte e, a volte, si interessa di più a un mazzo di fiori che alla fisionomia di un viso": scrive, nel 1880, il critico d'arte di "Le Figaro".

"La natura morta è la pietra di paragone del vero pittore" e "Un pittore può dire tutto con i frutti, i fiori, o anche soltanto con le nuvole": replica Manet.

Si, ma tra fiori, frutta, nuvole e asparagi ce ne corre.
Non è così: per Manet non c'è alcuna gerarchia. È capace di trasformare in pittura tutto quello che vede



Magari, quando Charles Ephrussi gli ha richiesto una natura morta, lo sguardo gli è caduto  su un bel mazzo di asparagi, che era lì, in cucina, appena comprato al mercato.

E allora perché non dipingerlo? Così, di getto. Tanto quello che conta è la luce, il variare dei verdi, il giallo dorato delle cordicelle, il tocco di violetto delle punte, o il marrone dello sfondo. 





Così, dipingere un solo asparago, per saldare il suo debito con Ephrussi, gli deve esser sembrata una nuova sfida. Le sottili sfumature del bianco su bianco, il gambo che diventa quasi diafano in confronto  alla superficie del tavolo, le pennellate ora spesse ora sottili, e, perfino, la firma ridotta a elemento decorativo, quasi un ideogramma giapponese, ci dicono che quella sfida  l'ha vinta.

Un comune ortaggio è diventato un'opera d'arte.





mercoledì 7 marzo 2012

"Giove e Io" di Correggio: la nuvola innamorata




Tutto è cominciato con le nuvole di Constable (ne ho parlato qui), perché è guardando i suoi schizzi che mi sono appassionata alla raffigurazione di queste capricciose abitanti del cielo.

Proprio in questi giorni, mi sono messa a caccia dei pittori "innamorati delle nuvole", quelli, cioè, capaci di vedere, appena nascoste sotto la loro morbida superficie, le immagini più sorprendenti: città, castelli, animali, volti umani.
Oggi, cercando nuvole "animate", mi è capitato di imbattermi nella madre, o per meglio dire, nel padre di tutte le nubi.
Niente di meno che Giove, in un dipinto, ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna: "Giove e Io"



Che Giove amasse le donne è noto. Il suo problema era la gelosia della legittima moglie, la temibile Giunone. Non per nulla, però, era il padre degli dei: aveva un'immaginazione senza limiti e il potere di trasformarsi in tutti i modi possibili. Le sue metamorfosi in toro, cigno, aquila o pioggia dorata dimostrano che non arretrava di fronte a nulla, pur di portare a termine le sue conquiste.

La seduzione di Io, ninfa e sacerdotessa di Giunone, aveva richiesto prudenza e fantasia. Per vincere la sua ritrosia e, soprattutto, per non essere colto in flagrante dalla moglie, aveva deciso di celarsi dietro una nuvola, o più precisamente, come racconta Ovidio nelle "Metamorfosi", dietro una fitta nebbia che aveva fatto calare sulla terra.

Anche, il committente del dipinto, Federico II Gonzaga, amava le donne e anche lui doveva nascondersi, non da una moglie, ma dall'occhiuta sorveglianza della madre, Isabella d'Este, che voleva per lui un matrimonio all'altezza delle sue ambizioni.
Si dice che per trovare una sede appartata, dove  celare il suo amore per la bellissima amante, priva di sangue blu e sgradita alla madre, avesse fatto progettare dall'architetto di corte, Giulio Romano, il favoloso palazzo Te, appena fuori del centro di Mantova.

Libero da ogni controllo, in un'atmosfera di segreti, di lusso e di passione amorosa, Federico doveva sentirsi un po' come il signore di un suo Olimpo privato.
Ed è proprio per Palazzo Te che, intorno al 1531, commissiona quattro dipinti con le storie degli "Amori di Giove", destinandoli, probabilmente, a decorare le pareti del suo studiolo.

Come pittore aveva scelto Correggio (1489-1534), all'epoca noto per le sue tenere immagini di Madonne col Bambino e, soprattutto, per i grandi affreschi eseguiti per le cupole della chiesa di san Giovanni Battista e della cattedrale di Parma, vere apoteosi di paffuti angioletti e di morbide nuvole

Correggio era un artista raffinatissimo. Sapeva unire le più diverse influenze, da Raffaello, a Michelangelo a Leonardo e interpretarle con uno stile fluido, lieve e luminoso.
La sua maniera di dipingere, morbida e sfumata, dal leggero chiaroscuro e dal "colorito di dolce aria", come lo definisce Vasari, si poteva prestare perfettamente a raffigurare le avventure amorose del padre degli dei.

Federico Gonzaga lo aveva capito e Correggio non lo deluse.
Le storie degli amori e dei travestimenti  di Giove si dispiegano, nei suoi dipinti, con una morbida sensualità: Leda e il cigno, Danae e la pioggia dorata, Ganimede rapito dall'aquila, Io e la nuvola.
Ed è, appunto, in questo soggetto, fino ad allora mai rappresentato nella pittura italiana, che Correggio elabora l'invenzione più straordinaria.

La scena della seduzione si svolge nell'atmosfera crepuscolare di un bosco ombroso, dove le foglie degli alberi hanno i colori dorati dell'autunno.
Per la posa di Io, vista di schiena, Correggio si ispira a un modello classico, mentre il grande vaso, da cui scaturisce il ruscello limpidissimo in primo piano allude al padre di Io, il fiume Inaco.

Al centro della scena domina la stupefacente apparizione della nuvola, di un colore cangiante dal grigio al viola, che sembra materializzarsi misteriosamente nel luogo segreto dell'appuntamento.


Giove, qui, non si nasconde dietro le nubi e non arriva neppure celato dietro una nebbia.

Giove è la nuvola.

Un errore di traduzione della poesia di Ovidio o, più probabilmente, l'immaginazione del pittore, fa sì che le fattezze del dio dell'Olimpo si mescolino, fino a fondersi, nella morbida e soffice superficie della nube.



Occorre solo un po' d'attenzione per intravedere l'eterea materia della mano che abbraccia la ninfa o il volto che si china a baciarla in un'atmosfera tra sogno e veglia, apparizione e fantasticheria.
Mistero e sensualità sono il fascino del dipinto che sembra "fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni", anzi, della sostanza volatile e leggera, di cui sono costituite le nubi.

Un artista capace di creare una nuvola innamorata e di dissolvere  il padre degli dei in una nebbia amorosa.
Per la mia "caccia alle nubi" non potevo immaginare un inizio migliore.





venerdì 2 marzo 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Marzo



Il tempo passa velocemente ed è già il momento di staccare il terzo foglio del calendario delle "Très Riches Heures du Duc de Berry ":

 


È Marzo, non fa più freddo e la primavera è nell'aria.
Brilla un sole chiaro e il tepore della bella stagione ha, finalmente, sciolto la neve di febbraio (ne ho parlato qui). Nelle campagne del duca di Berry, possono iniziare i lavori di sistemazione e preparazione delle colture.


Nella lunetta in alto, il sole transita con il suo carro celeste, sotto i segni zodiacali dell'Acquario e dell'Ariete. Al di sopra, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.
Sullo sfondo di un grande castello, circondato da poderose cerchie di mura, iniziano i lavori nelle vigne. Due contadini sono intenti a potare e concimare le viti, mentre dall'altra parte, in un campo recintato, un uomo si china su un sacco per prenderne delle sementi.
In basso un contadino con la barba bianca guida un aratro condotto da due buoi.

Marzo, si sa, è pazzzerello, ora come sei secoli fa, e il cielo può cambiare rapidamente dall'azzurro al grigio.
Se ne accorge bene il pastore, che, visto il bel tempo, aveva deciso di portare fuori le pecore. Ora, invece, deve scappare velocemente, perché, sopra di lui, si sta scatenando una tempesta di grandine.

Davvero nel cielo di marzo può succedere di tutto. Così può anche capitare di vedere volteggiare un drago alato, del colore dell'oro, sopra la torre del castello.



L'apparizione è meno strana di quello che si potrebbe pensare, perche quel drago dorato è  legato alla storia del duca di Berry.
È niente di meno che la fata Melusina, protagonista di un'antica favola che si svolge nel castello sullo sfondo, quello di Lusignano, nel Poitou.
L'ha riadattata da poco il poeta di corte, Jean d'Arras, nel suo Roman de Mélusine, per celebrare la dinastia, da cui discende il Duca.

Il racconto, all'epoca, lo conoscevano tutti. Melusina è una fata bellissima che, per amore, aveva accetto di sposare Raimondino di Lusignano e di concedergli ogni beneficio, purché lui rispettasse un patto: quello di non vederla mai di sabato.
Come sempre succede nelle favole, le proibizioni sembrano fatte apposta per essere trasgredite. Raimondino teme che la moglie lo inganni e, un sabato, si apposta per spiarla da un buco del muro. Scopre così che ha le sembianze ibride di una donna e di un serpente. Rimane atterrito, mentre lei fugge, piangendo, per ritornare nel regno delle acque. Non tornerà mai più, ma riapparirà ogni volta che una disgrazia incomberà sulla famiglia e i suoi discendenti daranno lustro alla stirpe.


Nella miniatura due mondi si uniscono. La realtà assomiglia a una favola, col primo sole di primavera che illumina una campagna, dove sembra assente ogni fatica, ordinata e simmetrica come un giardino. La fantasia entra nella realtà, con il drago-Melusina che vola sul castello di Lusignano, il preferito dal duca. 
È il centro nevralgico del Ducato ed è fedelmente rappresentato, come un vero e proprio "ritratto d'architettura", con le sue torri e i suoi tetti di ardesia.
Siamo  ai primi del Quattrocento: il Medioevo vive il suo sfolgorante tramonto  nel mondo dorato di una corte del Nord.
I romanzi cavallereschi si recitano a memoria. Cavalieri, banchetti e tornei fanno parte del quotidiano.
Il passato si ammanta di un alone leggendario, tanto che il duca di Berry può vantarsi di discendere, non da un eroe classico, ma da una fata.
Sogni e realtà si mescolano nell'ambiente prezioso e ovattato della corte.


È questa l'atmosfera, in cui sono immersi anche miniatori al servizio del duca: i fratelli Limbourg e i loro collaboratori. Sono loro a trasfigurare la realtà con le loro immagini. Grazie alla loro capacità di guardare il mondo con uno stupore infantile riescono a rappresentare, con la stessa meraviglia, fenomeni metereologici e visioni  fantastiche. Possono, così, far convivere, nei loro cieli di lapislazzuli, le nuvole cariche di grandine e l'apparizione di un  drago dorato, stilizzato come un simbolo araldico.
E l'incanto si  trasmette, miracolosamente,  fino a noi.