mercoledì 27 giugno 2012

Dopo il terremoto: con una dedica






Volevo scrivere uno dei miei soliti post con piccole storie d'arte, ma mi sono accorta che, in questi giorni, non ci riesco. Ho la testa altrove.
Sono tornata, da poco, al lavoro alla Soprintendenza ai beni artistici e storici, alle Belle Arti, come si diceva un tempo. 
Mi era difficile continuare a restare lontana, a Bruxelles, in part-time, con le notizie del terremoto, che arrivavano e che si sovrapponevano a tutte le altre.
Sono toscana, ma per anni ho lavorato, occupandomi del territorio tra Bologna e Ferrara. Per questo conosco bene le zone, che sono state colpite.
Il primo pensiero è stato, ovviamente, per i danni alle persone, alle case, alla vita di tutti i giorni.
Poi- per il mestiere che faccio- è stato inevitabile pensare al patrimonio d'arte, ai dipinti, agli oggetti, agli arredi delle chiese, dei musei  e dei palazzi, che sono stati colpiti.
Un patrimonio da controllare, da proteggere o da trasferire e ricoverare altrove.

I miei colleghi hanno fatto, in tutto questo mese, un lavoro straordinario.
Quando sono rientrata in ufficio, ho letto tutti documenti, le relazioni, i messaggi email che si susseguivano subito dopo il sisma e che formavano una sorta di "diario", una cronistoria, a volte affannosa, a volte più distesa.
Mi sono  quasi commossa- lo devo dire-  vedendo quanto era stato fatto, quanti sopralluoghi, quanti controlli, in centri storici, pinacoteche, chiese o palazzi.
E tutto senza grandi mezzi, semplicemente, lavorando, mettendo, però, nel lavoro non solo il cuore, ma anche le mani, le gambe e il fegato (nel senso di quel pizzico di coraggio che occorre per entrare in edifici lesionati). 
Sempre in sicurezza e  senza inutili eroismi, preceduti o accompagnati dai Vigili del fuoco, ovviamente.

- Ma non è più importante provvedere alle persone?- ci viene chiesto spesso.
Ovviamente, lo è. Anche se, in realtà, questa non è da porsi come un'alternativa
Il patrimonio artistico è la storia, la memoria di una comunità. 
Senza di esso, si cancellano il nostro passato, i nostri ricordi collettivi. 
In qualche modo, è come se si perdesse l'anima.
Mai avrei immaginato, per esempio, che mi sarebbero mancate tanto le campane.
Si cammina in paesi, in centri storici, transennati e silenziosi: né voci umane, né auto, né il rumore dei motorini ma, soprattutto,  nessun suono di campane. Ci si accorge, allora, di quanto si era abituati a scandire il tempo con i loro rintocchi. E così ci si era abituati, nella pianura, a intravedere di lontano, la sagoma di una chiesa o di un campanile. O, entrando in un edificio sacro, credenti o non credenti poco importa, si era preparati  alla vista, non solo delle grandi opere d'arte, ma della decorazione e degli arredi più comuni dei tessuti, dei mobili, perfino dei candelieri.

Ecco,  il nostro lavoro è stato ed è questo: salvaguardare, restaurare e riportare al loro posto, una volta che gli edifici saranno ricostruiti o consolidati, tutto questo patrimonio. E non c'è niente che faccia più male che svuotare una chiesa o un museo, sperando, pur sempre, che sia per poco tempo.
Lo so che questo blog è, fin dal titolo, "senza dedica", ma, per una volta, vorrei fare un'eccezione  e dedicare questo post, non solo a chi ha subito il terremoto, ma anche a tutti quelli che, come i miei colleghi, hanno lavorato e lavorano per rendere le perdite meno gravi e le ferite meno dolorose.

Il video che ho pubblicato parla da solo. 
I vigili del fuoco prelevano, dalla chiesa pericolante di Pieve di Cento, l'Assunta, di Guido Reni.  
L'applauso che l'accoglie è la dimostrazione di quanto il patrimonio artistico non appartenga solo a pochi studiosi o addetti ai lavori, ma alla comunità intera, a tutti noi. 
 
 
 
 

mercoledì 20 giugno 2012

Il pittore, il fotografo e il bassotto





Una mattina di primavera del 1957 a "La Californie", una villa sulle colline di Cannes, si incontrano un artista spagnolo di settantasei anni e un bassotto tedesco di otto mesi.
Il bassotto si chiama Lump, "Birba" in italiano ed è stato portato là dal suo padrone, un fotografo famoso. Quando arriva dimostra subito una grande eccitazione: forse sente che quel giorno, gli cambierà la vita. Gli è bastato entrare in quelle stanze, piene di mobili e di strani oggetti, per avere l'impressione di conoscerle da sempre.
Senza alcuna soggezione annusa dappertutto, fa pipi contro una scultura, gioca, corre e salta su un divano. Quel posto gli piace e gli piace, soprattutto, il proprietario, un uomo magro e abbronzato con due occhi scuri, vivi e intelligenti. Nel suo cuore Lump ha deciso: vuole rimanere lì. Non intende tornare alla vita di prima, né convivere di nuovo con quell'antipatico levriero afgano- Kublai Khan si chiama- che lo tiranneggia e a cui il suo padrone dedica fin troppe attenzioni.

Al momento del rientro è impossibile convincerlo. Si impunta e non accenna a muoversi.
Al fotografo non resta che rassegnarsi, risalire in macchina e ripartire senza di lui. Il pittore ne è felice: anche per lui, quel giorno, è scoccata la scintilla.
Lump, da allora in poi, diventerà il cane di Pablo Picasso.



Il suo vecchio padrone, David Douglas Duncan, glielo ha ceduto con piacere. Li conosce tutt'e due e sa quanto siano determinati. Lump lo ha acquistato lui stesso, qualche mese prima, in un allevamento vicino a Stoccarda. Con Picasso, invece, si frequentano da un anno e sono diventati amici.
Il loro incontro è stato imprevedibile.

Quando Duncan è andato per la prima volta a conoscere Picasso, ha da poco compiuto quarant'anni e può vantare  una brillante carriera. Lavora per riviste prestigiose, come il National Geographic e Life, è stato, per anni fotografo di guerra e le sue immagini del conflitto in Corea hanno fatto il giro del mondo. Suona alla porta e lo accompagnano subito da Picasso che lo aspetta  immerso in una vasca da bagno.
Lo vuole sorprendere: è la sua maniera di metterlo alla prova. Duncan reagisce subito e, senza nemmeno pensarci, comincia a scattare fotografie. Era quello che Picasso voleva: ha superato l'esame.
Duncan diventerà una presenza costante nella vita dell'artista e lo fotograferà nei suoi momenti più privati. Dei nove libri, in cui raccoglierà le sue immagini, uno sarà dedicato interamente a Lump.

Anche quella che nasce tra Picasso e il bassotto è un'amicizia.
I due si intendono a meraviglia. Sono molto simili: autonomi, intelligenti vivaci e pieni di temperamento.
Il bassotto non ha soggezione e tratta l'artista da pari a pari.





Con gli anni imporrà le sue abitudini.
Occuperà, poco a poco, tutte le stanze, continuerà a far pipi sempre vicino alla stessa scultura, l'"Homme au mouton", il bronzo alto più di due metri che domina il giardino, sonnecchierà sul medesimo divano, mangerà (o cercherà di mangiare) al tavolo dei padroni.








Il bassotto è allegro, divertente  e ha un vero talento per adeguarsi, prontamente, agli umori del padrone: il rapporto si fa sempre più complice e affettuoso.






Quando Picasso è in vena coccole si lascia tenere in braccio, senza protestare. Sa che è un privilegio che non viene concesso a nessun altro degli animali che frequentano la casa.
Il boxer Yan e la capra Esmeralda non hanno mai raggiunto questo grado di confidenza.

















Se si lascia andare al gioco, è incontenibile. Eccolo che distrugge, per divertimento, un coniglio di carta realizzato per lui e che avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi mercante d'arte.











Nei momenti di calma si presta, cortesemente, a far da  modello per un ritratto, come questo, dove una sottile linea nera tratteggia, con vigore, la sua compatta silhouette








Oppure posa per il piatto, dove ha imparato a mangiare con signorilità e che è stato creato apposta per lui il giorno stesso del loro incontro.







Lump non lo sa, ma il suo padrone è considerato uno dei più grandi artisti del novecento. E anche lui saprà farsi una sua reputazione in campo artistico, comparendo in ben quindici dei quarantaquattro studi della serie "Las Meninas", ispirata al capolavoro di Diego Velazquez


Come qui dove sostituisce, disinvoltamente, il regale e dignitoso cane dell'originale





O qui, dove, "travestito"  in perfetto stile cubista, spicca,  in primo piano: un piccolo "cammeo" da consumato professionista, non c'è che dire. 









Sei anni gloriosi, che finiranno nel 1963, quando Lump comincerà a soffrire di uno di quei problemi alla spina dorsale che spesso affliggono i bassotti.
Il veterinario di Cannes si dichiara impotente ed è pronto ad abbatterlo. Duncan, che per tutto questo tempo non lo ha mai perso di vista, interviene e convince Picasso a farlo curare in Germania. Lo porterà lui e lo seguirà per un anno intero.
Lump guarisce, ma rimane paralizzato alle zampe posteriori. Qualcosa nel suo animo di bassotto indipendente e orgoglioso  cambierà per sempre.
Quando Duncan lo riporta alla villa, si rifiuta di entrare; abbaia, guaisce e fa resistenza. Come era successo al primo incontro, è lui che decide e, ora, ha stabilito di rompere i rapporti. Non cederà nemmeno stavolta. Sarà un taglio netto: con Picasso non si vedranno più.

Qualcosa del legame che li aveva uniti, comunque, rimarrà, tanto che, nell'aprile del 1973, moriranno a una settimana di distanza l'uno dall'altro.
I giornali di tutto il mondo pubblicheranno innumerevoli parole di commemorazione del grande artista.
A ricordare il tenero e ostinato bassotto basterà una frase.
"Lump, non è un cane e nemmeno un piccolo uomo. È qualcos'altro"- aveva detto Picasso.

 
 
 
 
 
QUI è il link con il libro "Picasso & Lump", pubblicato da David Douglas Duncan nel 2006. Le foto, che ho trovato nel web, sono tratte da lì. 


venerdì 15 giugno 2012

"Les Footballeurs": la partita di Nicolas de Staël





"... tra cielo e terra, sull'erba rossa o blu, un mucchio di muscoli volteggia in pieno oblio di sé..."





Negli Europei di calcio del 2012 si sono incontrate  Francia e Svezia. Non era la prima volta. Una partita di tanti anni fa tra le due squadre, é entrata, se non nella storia del calcio, almeno in quella della pittura.

Il 26 marzo del 1952, a Parigi, allo stadio del Parc des Princes, si gioca un'amichevole tra Francia e Svezia. Dopo un primo tempo piuttosto fiacco, la Svezia vince per 1-0.
Sarebbe stata una serata normale, se non fosse stata la prima partita in notturna giocata in quello stadio, illuminato a giorno da un nuovo sistema di riflettori.
Sarebbe stata una serata normale, se tra i trentasettemila spettatori, nel freddo gelido di quella notte, non ci fosse stato un artista, un grande artista: Nicolas de Staël (1914-1955).

Sono anni che il pittore, un aristocratico sfuggito con la famiglia alla rivoluzione russa, si è stabilito a Parigi. La sua vita, tra miserie e dolori (la perdita della prima moglie, morta di stenti durante la guerra) e decisioni avventate (l'arruolamento nella Legione straniera) ha un solo punto fermo, divorante e ossessivo: la pittura.
È un artista straordinario. La sua carriera se l'è giocata tutta, correndo su una corda tesa, cercando un possibile equilibrio tra pittura astratta e figurativa. Per lui è un problema fondamentale, una continua ricerca, uno sforzo che gli costerà, letteralmente, la vita (ne ho parlato QUI).

Il 1952 si è aperto con una delusione: la mostra che ha tenuto in una Galleria di Londra è stata un fiasco e, ora, dubita di se stesso e della strada che ha scelto.
Ma quella sera cambierà idea.

Quella sera, ha deciso di andare allo stadio con la moglie.
Forse non è tra i tifosi più sfegatati della nazionale francese. Forse non è il più esperto di tattiche, strategie e schemi di gioco. Di certo, è uno degli spettatori più coinvolti e più emozionati. Ma non per i gol o i rigori. Nicolas de Staël è, soprattutto, un pittore e lo è fino alla cima dei capelli.
Quello a cui assiste, per lui, non è soltanto un incontro di calcio.
Al di là della partita, quelli che vede, illuminati dalla luce cruda e abbagliante dei riflettori sono i colori e il movimento. Sono i blu, i rossi, e i gialli, delle maglie; è il nero dei pantaloncini dei giocatori, che contrasta con il verde dell'erba; sono le linee bianche orizzontali sul terreno di gioco e quelle verticali dei pali delle porte.

"Quando tornerai andremo a vedere delle partite insieme. È assolutamente meraviglioso- scriverà all'amico poeta René Char- ....tra cielo e terra, sull'erba rossa e blu, un mucchio di muscoli volteggia in pieno oblio di sé... Che gioia, René, che gioia..."
Esce dallo stadio quasi stordito. Durante la notte lavora nel suo studio, come un forsennato e comincia a dipingere, con i pennelli o con la spatola, su tele o cartoni di dimensioni differenti, una straordinaria serie di dipinti, più di una ventina, ora divisi tra musei e collezioni private.
Sono tutti dedicati ai calciatori, ai "Footballeurs".

Saranno opere che faranno scandalo presso i difensori accaniti della pittura astratta: "la gang de l'abstraction", come lui stesso la definisce, ma  che lo convinceranno di aver trovato la via giusta.
Finalmente, dopo anni di ricerche, ha raggiunto quello che voleva.
È un equilibrio, talmente fragile da essere sempre sul punto di infrangersi. Ma è la realizzazione della sua volontà "di essere nè troppo vicino, nè troppo lontano dal soggetto".





Nei suoi schizzi si abbandona completamente alla sua passione e esplora ogni possibilità della rappresentazione del movimento.













Blu, bianco, nero delineano i corpi che spiccano su un fondo rosso e nero, accentuati dai contrasti dei colori.












Come un fotogramma bloccato di una pellicola, ogni schizzo restituisce la forza delle emozioni e riproduce un momento effimero, un gesto bloccato.











Una settimana dopo, la frenesia si è placata.
A mente più fredda, termina un grande quadro di tre metri e cinquanta per due (il primo per lui di queste dimensioni) il "Parc de Princes", ora alla Fondazione Gianadda a Montigny:



Vi rappresenta ancora la scena della partita. Adesso, però, il movimento e la confusione dei corpi  sono tradotti in colori e in figure geometriche semplici: quadrati, rettangoli, masse colorate. Sono bloccati e fissati in una sintesi talmente perfetta che ha fatto pensare alla "Battaglia di san Romano" di Paolo Ucello.

Sarà l'ultimo quadro della serie: ormai ha riversato nei suoi dipinti tutte le sensazioni di quella serata.
È stanco, come un calciatore dopo un incontro spossante, ma assapora, finalmente, il gusto della vittoria. 
Sa che ce l'ha fatta, sa che ha vinto la sua partita.  

 
 
 
 
 

lunedì 11 giugno 2012

"La buona ventura" di Georges de La Tour: una parola di troppo








Un giovane elegante si sta facendo leggere la mano, la "buona ventura", da una vecchia zingara. Evidentemente è più ingenuo di quello che vorrebbe far credere: non si accorge, che, nel frattempo, due giovani donne lo stanno derubando. Una gli sta staccando la pesante e appariscente medaglia d'oro che porta legata a una catena, l'altra gli sta rubando il portafoglio.
Tutto si svolge in silenzio, in uno spazio ristretto e compresso. La truffa, l’imbroglio, è affidato solo al gioco delle mani e degli sguardi.

Una luce chiara, quasi spietata, illumina ogni particolare, dando alla scena un tono insieme realistico e astratto.
In alto a destra c'è la firma “G.Delatour fecit Lunevillae Lothar”, con l'indicazione precisa dell’autore e del luogo, Lunéville in Lorena, dove il dipinto fu eseguito.

Un pittore pieno di misteri il lorenese Georges De La Tour (1593-1652). Quasi ignoto per secoli, è diventato famoso al grande pubblico solo in tempi recenti.
La sua formazione è ancora da chiarire. Che sia stato influenzato dai dipinti di Caravaggio è sicuro. Non si sa, però, se li abbia conosciuti a Roma, oppure tramite i pittori olandesi e francesi che avevano soggiornato in Italia.
Nei documenti dell'epoca compare citato più spesso per il suo carattere arrogante che per la sua attività di pittore (ne ho parlato QUI)
Di lui si conoscono appena una quarantina di opere, generalmente scene notturne o al lume di candela.
Questo è uno dei rari dipinti che si svolgono in pieno giorno

Fu una sopresa per tutti, quando fu presentato, nel 1960, dal Metropolitan Museum di New York, che lo aveva appena acquistato e- si diceva-  a carissimo prezzo.
Alla notizia la stampa francese si era scatenata: come poteva un quadro simile aver lasciato la Francia?
L'allora ministro della cultura, un personaggio del calibro di André Malraux, dovette risponderne in Parlamento. Venne fuori che a concedere il visto all'esportazione era stato, addirittura, il conservatore del Louvre e che il dipinto era stato scoperto, in maniera avventurosa, solo una ventina d’anni prima.

Nel 1942, negli anni più  cupi della seconda seconda guerra, un prigioniero francese in Germania  si trova- non si sa come - a sfogliare una monografia di La Tour. Le riproduzioni gli riportano alla mente un quadro, che ha visto nel castello di suo zio.
Dopo la guerra, torna in patria e  ha la conferma della sua intuizione: non solo il quadro è ancora là, ma un amico di famiglia, un abate domenicano esperto di La Tour, gli assicura che è di grandissimo valore. La fama del pittore sta crescendo sempre di più: è il momento giusto per approfittarne e per venderlo, magari a un museo importante come il Louvre.
Le trattative, tenute segrete, andranno avanti a lungo. Alla fine, però, non sarà il museo ad acquistarlo, ma il mercante d'arte Wildenstein, che lo comprerà per una cifra da capogiro, lo porterà negli Stati Uniti e lo venderà al Metropolitan Museum.

Un capolavoro sconosciuto che ritorna improvvisamente alla luce, le vicende della guerra, un castello francese e perfino un abate domenicano: gli elementi per una storia romanzesca ci sono tutti.
Fin troppi, per alcuni studiosi.
Per uno, specialmente, Cristopher Wright, che ha scritto da poco una monografia  su La Tour e che comincia a nutrire qualche sospetto.


Alcuni particolari non lo persuadono.
Per esempio, la giubba di pelle che il ragazzo indossa e che non corrisponde affatto all’abbigliamento del tempo.

Nemmeno il mantello che la vecchia zingara porta sulle spalle lo convince: se si guarda bene si vede che nel retro, il disegno non è lo stesso che davanti. È un particolare che non si confà allo stile preciso e minuzioso di La Tour. Oltretutto, il motivo decorativo è uguale spiccicato a quello del tappeto che orna il pavimento della Madonna col Bambino, del pittore fiammingo Joos van de Cleve, un dipinto che La Tour, sicuramente, non conosceva.



È vero che il dipinto può esser messo a confronto con altri due quadri "diurni" di La Tour, due versioni di uno stesso soggetto, "I giocatori di carte", una al Kimbell Museum e l'altra al Louvre. Ma anche sull'autografia di questi, qualche dubbio c'è.
Insomma, per Wright, in tutta la faccenda c'è qualcosa che non torna, che puzza, starei per dire.
La tela viene analizzata centimetro per centimetro e, alla fine, salta fuori una sorpresa. E che sorpresa!


Sullo scialle della giovane con le treccine, dipinta in giallo, in mezzo ai ricami, c'è la più imprevedible delle parole, anzi delle parolacce, quella resa famosa dal generale Cambronne,  sì, proprio quella: "merde".
Il senso è chiaro, la traduzione inutile.
Ma che ci fa una parola simile nel quadro ?
Che sia stato La Tour? Improbabile. Un artista come lui, descritto nei documenti come un signorotto provinciale  pieno di boria, difficilmente si sarebbe lasciato andare a una simile volgarità.

E allora?
Forse si tratta davvero di un falso.
E Wright, da vero Sherlock Holmes, ha trovato anche il colpevole: il falsario altri non sarebbe che un pittore- restauratore, esperto di arte francese e fiamminga, che lavora spesso per Waldenstein: Emile Delobre (1875-1956).
La parola “merde”, visibile e nascosta allo stesso tempo, potrebbe essere uno sberleffo destinato agli studiosi. 

Un falso, secondo Wright, spiegherebbe anche l’abbandono delle trattative e la concessione del visto da parte del funzionario del Louvre, che, evidentemente, sull'affare, non ci vedeva troppo chiaro.

Tutto torna? Non proprio.
Resta il fatto che la qualità del dipinto è davvero alta.
Quale falsario avrebbe potuto dipingere così ?
Gli studiosi di La Tour e gli specialisti consultati dal Metropolitan Museum affermano, con forza, che il dipinto è autentico. 
La spiegazione- dicono- l'hanno trovata ed è tutt'altra: la parola è stata aggiunta da qualche restauratore burlone che ha lavorato sulla tela.
Uno scherzo di pessimo gusto: tutto qui. 
Tutti concordano sul fatto che il dipinto è un vero capolavoro ed è un'opera fondamentale di La Tour. Nessun dubbio: la qualità fa fede.

E la scritta?  Magari analizzarla, vedere con quale tipo di colori sia stata dipinta... 

No, la scritta non c'è più.
Al Metropolitan Museum, nell'ultimo restauro, l'hanno cancellata.






QUI è il link al libro di Cristopher Wright, The art of the forger, G.Fraser 1984 e QUI alla voce di Wikipedia in inglese, che racconta tutta la storia.

giovedì 7 giugno 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Giugno






Il tempo, che passa troppo velocemente e i tanti difficili momenti di questo periodo, mi avevano fatto dimenticare di staccare, come faccio ogni mese quest'anno, il consueto foglio del calendario delle "Très riches heures du duc de Berry". Ma, ora, mi è venuta voglia di scoprire l'immagine del mese di giugno.
Ed eccola qui:




C'è un sottile legame, che unisce i mesi primaverili delle miniature dei fratelli di Limbourg e dei loro collaboratori. E non è un filo rosso, ma verde: il verde nuovo, che comincia timidamente ad apparire nei campi di marzo, quello caldo e brillante, che fa da sfondo alla coppia amorosa del mese di aprile e quello elegante delle vesti delle dame, che celebrano il mese di maggio.
Anche a giugno il verde è il colore dominante.

Come al solito, la scena è sormontata da una lunetta, dove sono raffigurati il carro dei sole e i segni del mese, Gemelli e Cancro, mentre, nei cerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.

I nobili cavalieri e le belle principesse delle raffigurazioni precedenti cedono il passo ai contadini, intenti ai lavori stagionali.
Niente fidanzamenti aristocratici o cortei eleganti, stavolta il tema è quello della fienagione, con cinque contadini, donne e uomini, occupati nel lavoro dei campi. La minuzia della raffigurazione e l'attenzione al colore, al verde, è tale che si può distinguere l'erba tagliata e già quasi secca da quella, ancora da falciare, di una tinta più viva e più intensa.

È quasi estate, il sole batte forte e a poco valgono a proteggersi i cappelli o i copricapi improvvisati.
Gli uomini, con corte tuniche dai lembi rialzati e con i piedi nudi, falciano il fieno, formando dei solchi.
Delle due donne, una rastrella il fieno e l'altra lo dispone in covoni con un forcone. Sono i gesti tradizionali di un'attività tipicamente femminile, ripetuti fino all'avvento delle macchine, in tempi recenti. L'erba veniva sparpagliata con le mani o con i rastrelli sul campo, per essiccarla nelle ore centrali della giornata. La sera veniva radunata in mucchi regolari e paralleli, per evitare l'umidità della notte.
Gesti di dura fatica che sembrano diventare, qui, le movenze aggraziate di un balletto.


Siamo sulla riva sinistra della Senna ed è come se guardassimo dalla finestra dell' Hotel de Nesle, una delle proprietà del duca di Berry.
Dall'altra parte del fiume si stende la Parigi gotica, una vista inabituale per chi, come noi, ha negli occhi il profilo inconfondibile della città moderna. Domina su tutto la grande mole del Palais de la Cité, con- da destra a sinistra- il giardino, le torri, la "Grande salle" e, infine, la sagoma elegante della Sainte Chapelle.
Il Palais de la Cité, distrutto da un incendio nel 1871, era sede dell'amministrazione finanziaria e giudiziaria del re, e, dunque, il simbolo più evidente del potere dello stato sovrano.

Il committente del manoscritto, il duca di Berry, guardando dalle sue finestre, aveva di fronte, in qualche modo, l'emblema stesso dell'organizzazione della società dell'epoca, tutta basata sulla grande proprietà terriera. In basso, il popolo, rappresentato solo dai contadini, in alto, gli aristocratici e il re.

Il duca, fratello di Carlo V, aveva ammassato un'immensa fortuna ed era diventato uno degli uomini più ricchi di Francia, grazie all'opulenza delle sue terre, ma, soprattutto, alle gravosissime tasse che imponeva ai suoi sudditi. Grande collezionista e raccoglitore d'arte e di curiosità, aveva radunato, nelle sue dimore, un'infinita quantità di oggetti. Cammei, arazzi, gioielli, orologi, ma anche reliquie, come un'improbabile goccia del latte della Madonna, o presunti ricordi storici, come uno dei denti di Carlo Magno.

Manteneva un serraglio di animali esotici, mute di cani da caccia e falchi ben addestrati. Possedeva un guardaroba lussuoso con vesti intessute d'oro e di gemme; offriva banchetti e feste leggendarie, come quella raffigurata nel mese di gennaio. Pensava di passare alla posterità, grazie alla magnificenza della sua corte e delle sue fastose residenze, due a Parigi e ben diciassette nei suoi ducati di Auvergne e di Berry.
Non poteva immaginare che la grande epidemia di peste del 1416, insieme alla sua vita e a quella degli artisti al suo servizio, avrebbe spazzato via  i suoi progetti e le sue ambizioni. Anche i suoi castelli sarebbero stati distrutti o riedificati da altri.
Il suo nome, più che ai grandi edifici e alla fama della sua ricchezza, sarebbe rimasto legato a un piccolo libro di preghiere e al suo calendario miniato. Qui non ci sarebbe stata alcuna interruzione ma, dopo la morte dei fratelli de Limbourg, sarebbe stato ripreso da miniatori che ne avrebbero continuato lo stile.
E che ci avrebbero consegnato le immagini cristallizzate e senza tempo di un sogno, come questa scena, sospesa tra architetture fiabesche di castelli e lavori quotidiani dei campi, in un'assolata giornata di giugno.





Le parole in rosso sono link.
Ne aggiungo QUI uno al libro di Johan Huzinga L'autunno del Medioevo, di cui ho già parlatoche rimane per me fondamentale per capire la storia di quella parte d'Europa, tra Fiandre e Francia, che fa da sfondo alle "Très riches heures".

domenica 3 giugno 2012

L'oro e il tridente: il furto della saliera di Cellini (fine)





Per chi non ha la pazienza di leggere il primo episodio nel post precedente (e, comunque, QUI è il link) ecco un breve riassunto: la preziosissima saliera d’oro, eseguita intorno al 1540 da Benvenuto Cellini per il re Francesco I di Francia, una delle opere più famose della storia dell’arte, è stata rubata al Kunsthistorisches Museum di Vienna, nella notte dell’11 maggio 2003.
"Il furto del secolo": così è stato definito. 
E questa, giusto per ricordarla, è l'immagine:



Le indagini cominciano subito. La "scena del crimine" è presto ricostruita.
Forse è un furto  su commissione, magari ben progettato da una  banda organizzata, ma il ladro non ha avuto bisogno né dell’inventiva di Arsenio Lupin, né, tanto meno, dell’agilità dell’Uomo ragno.
Rubare la saliera, insomma, non era difficile.

Per arrivare al primo piano del museo, si è arrampicato sull’impalcatura, montata, qualche mese prima, per restaurare la facciata dell'ala ovest, dove si trova la sala.
Per entrare ha rotto il vetro della finestra, che affaccia sul ponteggio.

Ma come è riuscito a evitare i sensori e gli allarmi esterni? Semplice: non hanno funzionato.
E l’allarme interno? Come avrà fatto a disinserirlo?
Si dice che sia un congegno complicatissimo ed estremamente sensibile.
Forse troppo. Nei giorni precedenti aveva suonato spesso per un nonnulla.
I custodi, quella notte, hanno pensato a un  ennesimo falso allarme e si sono limitati a staccarlo, senza fare alcun giro di controllo.

Dunque, fin qui una spiegazione c'è.
Ma come ha potuto forzare la teca e uscire dal museo chiuso e con l’allarme reinserito ?
Semplice!  La sirena ha suonato per 25 secondi; per disinserire l'allarme ne sono occorsi 29, in tutto 54, quasi un minuto. Un tempo sufficiente per rompere la teca, che non era di vetro anti-effrazione e uscire dalla finestra, da cui  era entrato, portandosi via il piccolo e prezioso oggetto.
No, decisamente non c’era bisogno dell’Uomo ragno.

Ora non resta che aspettare che il ladro prenda contatto e che chieda un riscatto.
In effetti alla compagnia di assicurazione è arrivata una lettera, ma, poi, i contatti si sono interrotti.
Il rischio è che la preziosa saliera sia fusa. 
Per il patrimonio artistico sarebbe una perdita incalcolabile. Per l’assicurazione, invece, è calcolabilissima. 
E sarebbe di tutto rispetto: 50 milioni di euro. A meno di non accettare la proposta di restituzione, in cambio di 10 milioni. Un bel risparmio, non c’è che dire.

Bisognerà riallacciare i contatti.
Ma come? L’idea è quella di aprire un sito web, dal titolo, poco  fantasioso, ma chiaro, "thesaliera.com" e di pubblicare sui giornali un enigmatico annuncio.
L'inserzione comincia con  "Sara, per favore, torna... C'è un indirizzo solo per te..."e continua con delle indicazioni, che solo il ladro può capire.
Il tutto è firmato Rossi. Un nome qualsiasi, si può pensare.
Niente affatto: è un'allusione a Monsignor De Rossi, un amico di Benvenuto Cellini, con cui l'artista racconta di aver passato qualche giorno in prigione. Evidentemente i poliziotti hanno letto bene l'autobiografia dello scultore.
Ma, probabilmente, anche il ladro, tanto che coglie l'allusione e  riprende i contatti.

La lettera inviata era in inglese. Forse è  una conferma dell'ipotesi che si tratti di una banda internazionale.
Non proprio. L'inglese –lo si appura velocemente- è maccheronico e chi scrive sembra, piuttosto, di madrelingua tedesca.

Intanto più di un anno è passato e, a questo punto, si decide di chiedere la prova che il ladro sia sempre in possesso della saliera. 
La prova viene offerta,  non su un piatto d’argento, come si usa dire, ma in un sacchetto per surgelati.
Un elemento della saliera è amovibile: il tridente d’oro che Nettuno tiene in una mano.
Il ladro lo estrae con cura, lo nasconde in un parco di Vienna dentro un sacchetto per surgelati e lo fa ritrovare alla polizia.

La saliera ce l’ha davvero, ma il difficile è  capire dove la possa tenere. Probabilmente  sarà ben nascosta nel caveau di una banca, chissà dove.
Trovarla è impossibile: bisogna continuare a trattare, tanto più che il ladro sembra averci preso gusto. Da qualche tempo tempesta la polizia e la compagnia di assicurazioni di messaggini, sì, proprio di SMS, costringendo gli agenti a una vera a propria caccia al tesoro per tutta Vienna.


Nessuno capisce a che gioco stia giocando: vuole logorare i nervi o prendere in giro ?
In realtà, proprio quei messaggini saranno la sua rovina.

Quelli che indagano non saranno i super-esperti americani di C.S.I, ma appartengono, pur sempre, alla polizia viennese, che- lo ricordiamo- per anni ha risolto casi  complicatissimi, grazie al fiuto di Rex, il cane lupo protagonista di una interminabile serie di telefilm.
E, poi, qui non c’è bisogno nemmeno di Rex. 

Il ladro si è messo in trappola da solo. Non è difficile risalire al negozio, dove ha comprato il telefonino, tramite  i registri delle vendite. Vengono fuori perfino l’ora e il minuto dell’acquisto. 
E nel negozio, proprio in quel momento, era in azione la telecamera di sorveglianza: il ladro, dunque, è stato filmato.



È il 22 gennaio del 2006. La polizia  pubblica la sua foto su tutti i giornali: ormai lo ha smascherato.  
E lui capisce che è  sconfitto e, il giorno dopo, si consegna e fa ritrovare  la saliera. Anche stavolta ha  risparmiato  sul contenitore: l'ha sotterrata in un bosco vicino a Vienna in una banale scatola da scarpe.

Poi confessa tutto: nessuna richiesta da parte di un ricco collezionista, nessuna banda organizzata.
La storia del furto, casuale e un po’ abborracciata, non sarebbe dispiaciuta a quell' amante dell’avventura, un po' gradasso, che era Benvenuto Cellini. 
Il ladro è  un cinquantenne, senza precedenti penali e appena divorziato.

Quella sera era in piena crisi sentimentale e aveva bevuto, anzi -lo ammette- era ubriaco. Ha visto l’impalcatura di fronte al museo, è salito, ha preso la saliera ed è uscito. È stato un impulso, dirà, tutto qui.

Solo dopo ha pensato di ricavarci dei soldi. 
Gli è andata male. Verrà processato e condannato a quattro anni di prigione.

Rimane da sciogliere l’ultimo enigma sul nascondiglio della saliera.
Macché enigma! La teneva a casa sua, sotto il letto, in una valigia chiusa. Aveva, perfino, impostato la  combinazione del lucchetto con i numeri   "1105", quelli del giorno e il mese in cui l’aveva rubata.
Non era difficile. 
No. Decisamente, non era Arsenio Lupin.

La saliera è stata restaurata.  Da poco tempo, è tornata nel museo  e con tutti gli onori.
Questa volta, però, protetta da un sistema d’allarme  sicuro e in una robusta  teca anti-effrazione.



(Fine)


Per chi volesse leggere l'autobiografia di Bevenuto Cellini QUI è il link al benemerito sito di Liberliber, da cui si può scaricare in pdf.
Per la ricostruzione del furto moltissime informazioni sono  QUI