sabato 28 gennaio 2012

Sargent e Madame X




Nel maggio 1884, a Parigi, la folla si accalca di fronte a questo dipinto:




L'autore è John Singer Sargent (1856-1925). 
Ventotto anni, di origine americana, ma nato a Firenze, è arrivato a Parigi per fare il pittore. Ammira senza riserve le opere di Manet e degli impressionisti, ma si rifà anche ai grandi maestri del passato, da Velazquez a Franz Hals.
Il suo stile piace molto e lui spera che, esponendo nella prestigiosa sede del Salon, riuscirà ad avere la sua consacrazione ufficiale.

La modella del ritratto è la bellissima Virginie Amélie Avegno (1859-1915).
Ha ventiquattro anni e anche lei è americana: viene dalla Louisiana, dove la famiglia possedeva una piantagione e il padre era stato un eroe della guerra di Secessione.
Si è trasferita da poco in Europa e ha sposato il ricco banchiere parigino Pierre Gautreau. È molto elegante e  si dice che abbia un guardaroba da sogno.
La sua ambizione è quella di emergere e per riuscirci  usa ogni mezzo: molti le rimproverano di aver puntato tutto sulla bellezza e di tenere una condotta non proprio irreprensibile.
Nei salotti, si sussurra delle sue numerose infedeltà e di una eccessiva libertà di comportamento.

John Sargent ha insistito a lungo per poterla ritrarre e si è assoggettato a tutti i suoi capricci: Virginie ha poco tempo per posare e preferisce seguire i suoi molti impegni mondani
È riuscito, comunque, a eseguire una serie di studi, anche se è difficile rendere in pittura il fascino poco convenzionale di quella “donna-pavone”, come l’ha definita in una lettera.
Ma, alla fine, dopo un anno, realizza il suo dipinto.

Nella tela di grandi dimensioni, circa due metri e mezzo per poco più di un metro, su uno sfondo marrone, emerge la silhouette della donna, imponente e statuaria. 
È in posa, in piedi, con il volto di profilo e la mano sinistra appoggiata a un tavolo.
Ha un vestito di raso nero con una scollatura che ne evidenzia il décolleté.
Tra lo scuro del fondo, l’abito nero e la pelle bianca, quasi perlacea, delle spalle e del collo il contrasto è netto. Il pallore, all'epoca, è alla moda e lei lo ha accentuato, usando uno spesso strato di cipria chiarissima.
Se la si guarda da lontano, la bianchezza della pelle lattea dà una sensazione di nudità. 
Ne traspare una sensualità algida, ma ostentata e cosciente di sé.
È una donna libera che conduce il gioco della seduzione e che si propone, con orgoglio, agli sguardi dei visitatori.

Quando si apre la sala 31, dove il dipinto è esposto, è subito scandalo.
E non per la novità della pittura, come era avvenuto, qualche anno prima, per i quadri impressionisti. 
Stavolta è uno scandalo sociale.
La modella del ritratto non è anonima; è quella Madame Gautreau, che tutti conoscono, almeno di nome e che molti hanno intravisto alle feste o nei salotti alla moda.
Non è né una cantante né una balleria, ma una delle esponenti più in vista dell’alta società parigina. 
E si mette in mostra sfrontatamente.
È vero che nella tradizione passata e recente della pittura  c'erano stati dipinti ben più erotici, ma il travestimento mitologico o l'ambientazione storica ne avevano "mascherato" la suggestione sensuale.
Qui, invece,  Virginie, giocando "a carte scoperte", infrange il codice di comportamento della "Parigi bene". E questo per molti è intollerabile.
Il pubblico elegante del "tout Paris" entra nella sala ridacchiando o commentando con riprovazione. 
La notizia passa di bocca in bocca.
I giornali riportano le reazioni della famiglia di Virginie. I parenti sono sconcertati: la madre, indignata, pretende spiegazioni e fa una sfuriata pubblica a Sargent.


Un dettaglio, soprattutto, ha fatto scalpore:  una delle spalline dell’abito è scivolata, come appare nella foto della prima versione del dipinto.
Un solo movimento e potrebbe rimanere nuda”: scrive, con qualche esagerazione, "Le Figaro".
La sola vista della spallina, insomma,  ha turbato e stuzzicato i visitatori.

Approfittando della chiusura del Salon, Sargent, sconvolto dalle reazioni inattese, cerca di rimediare: rialza la spallina e cambia il titolo del dipinto.
Toglie il nome di Virginie e lo intitola Madame X.
L'intento è di sottrarla al gossip, ma anche di far pensare che non sia un ritratto specifico, ma un simbolo generico di erotismo femminile.
Tutto inutile. Lo scandalo non si placa.
Quella spallina  non se la scordano più.

Il dipinto sarà ritirato immediatamente.
Altro che successo! Anche a Parigi con i benpensanti non si scherza.
Sargent è costretto a trasferirsi a Londra, e per lui sarà una fortuna perché là, sotto l’egida dello scrittore Henry James, diventerà quel ritrattista alla moda che ha sempre sognato. 
Quando venderà il dipinto al Metropolitan Museum di New York per mille dollari ammetterà che è la cosa più bella che abbia mai fatto.
Virginie, invece, dovrà ritirarsi e condurre una vita quasi monastica prima di essere riammessa in società. 
Dal punto di vista mondano per lei è finita. 
Le porte dei salotti dell'aristocrazia si sono chiuse per sempre.

I tempi, però, cambiano e il ritratto oggi non scandalizza più nessuno. Anzi.
Un ultimo sussulto di suggestione osé il dipinto, a ogni modo,  ce l'ha avuto.
Nel 1946, quando, per un film, si tratta di abbigliare Rita Hayworth come una femme fatale, il costumista si ricorderà del contrasto dell’abito di raso nero con la pelle bianca di Madame X. 
Aggiungerà i guanti lunghi, toglierà del tutto le spalline e sarà una delle icone sensuali più straordinarie della storia del  cinema: sarà "Gilda".





La storia del dipinto è riassunta in un libro di D.Davis: Strapless: John Singer Sargent and the fall of Madame X. Una mostra su "Americani a Firenze. Sargent e gli impressionisti del Nuovo Mondo",si aprirà a Firenze a Palazzo Strozzi. dal 3 marzo al 15 luglio 2012.


domenica 22 gennaio 2012

Cacciatori d'immagini: Jules Renard e Henri Toulouse Lautrec




"Il cacciatore d'immagini parte soltanto se ha la mente lucida, il cuore puro e il corpo leggero, come un abito estivo. Lascia a casa le armi e si accontenta di aprire bene gli occhi. Gli occhi servono da reticelle, dove le immagini si imprigionano da sole" (Jules Renard, Prefazione alle Histoires naturelles)

Due cacciatori d'immagini: Jules Renard e Henri Toulouse Lautrec. Uno scrittore e un pittore.
Li unisce un libricino, che ho trovato l'altro ieri in libreria, a un prezzo irresistibile, minuscolo e quasi sperso tra  ponderosi volumi di storia dell'arte. L'ho comprato subito. 
E mi ha incantato.



Ben poco sembra accomunare i due artisti, quando si incontrano, a Parigi, nel 1896. Sono coetanei e hanno, allora, poco più di trent'anni. 
Renard, lo scrittore, arrivato da poco dalla provincia, conduce una vita monacale e sta finalmente assaporando il successo. 
Con l'uscita del suo racconto, "Pel di carota",  ha commosso i lettori, narrando, con tenerezza e partecipazione, la storia di un'infanzia incompresa. 
Lautrec, il pittore, il  “nanerottolo”, come lo hanno crudelmente soprannominato a causa del suo fisico deforme, vive  per lo più di notte tra case chiuse e cabaret e cerca di guarire la sua malinconia tra bicchieri di assenzio e fumo di sigari. Ha dipinto ritratti di ballerine e cantanti alla moda ed è diventato famoso, disegnando per i giornali e facendo stampare  una serie di "affiches" che hanno fatto furore.
"È talmente basso che mi dà le vertigini" è la battuta che circola nei  salotti su di lui e  che Renard annota perfidamente nel suo diario. Ma poi si pente e scrive di averlo trovato “vivace, gentile e con una grandissima voglia di chiacchierare e di comunicare, perfino con i gesti".

Renard, al contrario, è silenzioso e poco espansivo. Un uomo alto, robusto e compassato, con un'aria di distacco e di freddezza.
“Sembra  che abbia ingoiato un ghiacciolo”: dicono di lui le malelingue.
Apparentemente i due non potrebbero essere più diversi.
Le premesse non sembrano affatto favorevoli, ma, invece, l'incontro va benissimo.
Qualcosa in comune ce l'hanno ed è importante. 
Tutt'e due hanno la capacità di catturare piccoli brani di realtà e fermare, con le  parole o in pittura, ogni evento del quotidiano; sono attenti a quello che succede intorno a loro e sanno coglierlo con immediatezza.
Hanno una sensibilità acuta e una grande capacità di vedere oltre le apparenze e, soprattutto, amano  gli animali.

Renard ha osservato i più umili e comuni, quelli da cortile,  nella sua casa natale in piena campagna  e ne ha schizzato dei piccoli ritratti in un libro, da poco uscito, che ha intitolato "Histoires naturelles, Storie naturali". 
Il titolo è tratto dal famoso testo naturalistico di Buffon. Ma qui non c'è  alcun intento scientifico o classificatorio, né  tanto meno di ammaestramento morale, come nella tradizione delle favole, da Esopo a La Fontaine.
Il suo scopo è solo di "essere gradito agli animali..." e, anzi, vorrebbe  "se essi lo potessero leggere ...farli sorridere, almeno un po'".
Lautrec gli propone di illustrare i suoi racconti. 
Gli piace il modo con cui   Renard parla degli animali.
Da tempo anche lui ama frequentare, nelle sue brevi giornate parigine, il Jardin d'acclimatation, dove si incanta a  guardare i falchi, i cormorani  e, soprattutto, i pinguini perché - dice con amara ironia-  gli pare camminino come lui. 
Ma non sono gli unici che gli interessano.
Quando lavorerà al libro arriverà a farsi spedire, in una cappelliera da modista, un rospo che terrà, con cura e affetto, nel suo studio, fino alla fuga mortale dell'animale nell'affollata Avenue Foche.

Scrittore e pittore si accordano per scegliere  ventidue racconti e  pubblicarli in un'edizione di soli cento  esemplari, da far uscire nel 1899.
Durante il lavoro la stima e l'affetto tra i due crescono.
La sintonia è totale. 
Lautrec trasporta nel libro la sua capacità di rendere l'istante, di ricreare un carattere, attraverso pochi tratti incisivi ed essenziali e con una sintesi  che deve moltissimo alle stampe giapponesi.
Nel frontespizio stilizza una volpe nera, quasi un ideogramma, che allude al cognome dello scrittore (volpe, in francese).
Nelle  illustrazioni al testo  riesce a rendere  perfettamente le caratteristiche di ogni animale, cogliendo l'essenziale della descrizione di Renard.



La pazienza dei buoi aggiogati  che, tornando a sera dal lavoro dei campi, “trascinano a passi lenti, per il prato, l'erpice leggero della propria ombra".










La mole tozza del maiale, sempre sdraiato a terra, “panciuto come un chicco d’uvaspina, la pelle chiara e la coda a ricciolino”








La massa compatta del toro che, indifferente a tutto, ogni tanto "muggisce di languore e si ascolta muggire".







L'umiltà del cane di casa che, a rischio di scottarsi al fuoco del camino, non abbandona di un centimetro i padroni e li"guarda con occhi così dolci che a stento lo si tollera".









E, perfino, l'eleganza aliena del ragno, “una piccola mano nera e pelosa... che per tutta la notte, in nome della luna, appone i suoi sigilli"








Ma sono tante le storie e tante le immagini ironiche e tenere che, sfogliando il libricino, "restano impigliate nelle reticelle" dei nostri occhi.
Sono quelle stesse che conquistarono Maurice Ravel che ne scelse cinque e, nel 1907, le musicò per voce con accompagnamento di pianoforte   (qui è il link).
Sono quelle che ancora ci affascinano.
Basta aprire il libro ed è magia.
Questa volta, però, non siamo noi i cacciatori. Sono le immagini che ci catturano e che arrivano fin nel profondo, tanto che, per tornare ancora a Renard: "ciascuna ne risveglia un'altra e il loro corteo fosforescente si  accresce di nuove venute, come tante pernici che, inseguite e divise per tutto il giorno, alla sera cantano, al sicuro dal pericolo, e si richiamano dal cavo dei solchi".






domenica 15 gennaio 2012

Lo scultore e il doganiere: il caso Brancusi.





Nel settembre del 1926 sbarcano nel porto di New York due artisti; sono due amici, appena arrivati dalla Francia. Uno è il poliedrico Marcel Duchamp, l’altro lo scultore di origine rumena Constantin Brancusi (1876-1957).
Brancusi si è stabilito da tempo a Parigi e, dopo aver collaborato con Auguste Rodin, ha cominciato a frequentare artisti come Henri Matisse, Amedeo Modigliani o Fernand Léger, avvicinandosi alla corrente del "primitivismo.
L’amicizia con Duchamp lo ha condotto ad accostarsi al movimento Dada, dissacratore e provocatorio.
Duchamp lo apprezza molto ed è intenzionato a promuovere la sua scultura. Non è la prima volta che Brancusi espone in America, ma è importante che partecipi alla mostra che di lì a poco si terrà  a New York in una galleria d’avanguardia, la Brummer.

Arrivati alla dogana, i due capitano nelle mani di un funzionario particolarmente zelante. I controlli sono accuratissimi.
Si aprono valigie e bauli. In quelli di Brancusi si scoprono misteriosi dischi, uova di legno e strani oggetti di metallo e di marmo.
Uno, specialmente, attira l'attenzione. È di bronzo ed è posato su un piedistallo:


"È un’opera d’arte" - dichiara subito Brancusi e, quindi, stando al regolamento americano, non deve pagare alcuna tassa doganale.
Anzi, è proprio l'opera destinata alla mostra ed è fondamentale.
Apre una nuova fase della sua attività: eliminando il superfluo e attraverso un'estrema stilizzazione  vuole arrivare all'essenza, a quella che chiama la "forma primordiale o genitrice".

Il doganiere è perplesso. Forse Brancusi non si sarà spiegato bene, ma cosa sia quell'oggetto lui proprio non  l'ha capito.
Che razza di opera è? È intitolata "Bird in the space" "Uccello nello spazio"
Ma quello non è un uccello. Manco per idea!
Cosa credono quei due, di prenderlo in giro? 
Lo guarda meglio e, finalmente, riesce a classificarlo: per lui può rientrare tra gli arnesi da cucina o i supporti da ospedale
Kitchen utensils and hospital supplies"
E la tassa va pagata, eccome. 
Sono 240 dollari (circa 2.400 dollari attuali).

I due artisti si indignano e protestano: a pagare non ci pensano nemmeno.
Duchamp, una decina d'anni prima, proprio sul concetto di arte, ha messo in atto la madre di tutte le provocazioni, esponendo un orinatoio in porcellana.
Figurarsi se si lascia intimidire da un doganiere !
Alla fine saranno costretti a cedere, ma hanno deciso: andranno in tribunale e presenteranno un ricorso.
Il mese successivo si apre il processo “Brancusi vs United States

Le due parti (dogana e artista), assistite da avvocati, presentano i loro testimoni e i loro esperti. Sono artisti, mercanti d’arte, giornalisti e direttori di musei: il "parterre de rois" della scena artistica newyorkese.
La scultura è diventata un elemento di prova, l'"Exibit 1".
La posta in gioco è alta.
C’è da stabilire cosa si intenda per opera d’arte e se esistano criteri oggettivi per definirla. E non sono chiacchiere da caffè o da aperitivo elegante.
Siamo in tribunale e, col tipico pragmatismo americano, si pensa che la legge possa definire che cos'è l'arte. Niente di meno.
Se ne discuterà a lungo e, mano a mano, alcuni punti si chiariranno.
Per essere "arte" bisogna che l’opera sia fatta a mano, direttamente dall’artista e che sia un esemplare originale e unico.
Fin qui, tutti d'accordo.

Poi i testimoni di Brancusi cominciano a citare la libertà dell'artista, l'astrazione e, perfino, la stilizzazione dell'arte egizia.
Tutto bene - sbotta l'avvocato della dogana- ma il fatto fondamentale è che la scultura dovrebbe  rassomigliare all’uccello che intende raffigurare.
Niente affatto. Non è così.
Questo è il punto chiave. E, in quell'aula di tribunale, si smonta una teoria vecchia di secoli: l'arte non è soltanto quella che imita la natura, non è solo "mimesis", verosimiglianza.
Anzi, il principio che emerge è totalmente diverso: la rassomiglianza può essere puramente soggettiva. L'opera può essere astratta.
La scultura evoca un uccello, suggerisce la leggerezza, l’impressione del volo e lo slancio. Sono quelle le sensazioni che vuole trasmettere.
È un’astrazione che solo un artista può compiere. Un artigiano, un operaio, potrebbe lavorare il bronzo con più maestria, ma soltanto un artista può concepire e realizzare un’idea come quella che sta dietro alla scultura.
La discussione si fa serrata. I verbali registrano ogni fase del dibattimento *.

Alla fine, nell'ottobre del 1928, i giudici emettono la sentenza.
Ed è un colpo di scena: "Bird in space è un oggetto bello, dal profilo simmetrico. Ci può essere qualche difficoltà ad associarla con un uccello, ma è piacevole da guardare ed è una produzione originale di uno scultore professionista”.
Brancusi ha vinto. Le tasse non le doveva pagare.
Altro che attrezzo da cucina e, men che meno, da ospedale!
La sua scultura è arte, è "duty free".
E con questo l'arte contemporanea è - letteralmente - sdoganata.

New York e gli Stati Uniti ne diventeranno il palcoscenico più accreditato con le gallerie e gli acquirenti più importanti.
Brancusi replicherà più volte il soggetto di "Bird in the space" e una scultura della serie raggiungerà, in un’asta recente (nel 2005), la quotazione da capogiro di 21.400 milioni di euro.

Tutto risolto?
Non proprio.
Il doganiere manterrà la sua posizione fino in fondo e insisterà a ribattere: "Se quella è arte, io sono un muratore".
E chissà quanti continueranno a pensarla come lui.


QUI si analizza il dibattito dal punto di vista giuridico e sociologico.

venerdì 6 gennaio 2012

Jean Gabriel Domergue, il pittore e il maggiordomo ovvero gli strani casi della vita






Il caso entra da subito nella vita di Jean Gabriel Domergue (1889-1962).
E non si può dire che non gli sia benevolo. È arrivato da poco dalla provincia a Parigi con la voglia di dipingere e un’esperienza da pittore di fiori e di paesaggi. L'incontro con un suo lontano cugino, Henri-Tolouse Lautrec, gli fa scoprire l’ambiente dei caffè e le notti turbolente del Moulin Rouge, tra ballerine e can-can.

Affitta uno studio e si ritrova, come vicino di pianerottolo, niente di meno che Edgar Degas.
È vero che all’inizio l’accoglienza è glaciale, ma poi Degas lo prende in simpatia. Prima però gli fa dipingere lo stesso soggetto (una porta) almeno venti volte, tanto per assicurarsi che la tecnica la conosca  davvero.

Ma l’incontro che gli cambia la vita (o almeno la carriera) è quello con Giovanni Boldini e i suoi ritratti di personaggi del bel mondo.
È seguendo Boldini che Domergue capisce  che quella è la sua strada: altro che paesaggi, fiori o porte… sono i ritratti che faranno la sua fortuna.

Comincia subito a lavorare, senza risparmiarsi.
È capace di dipingere fino a cinque tele al giorno e di ritrarre, con la stessa disinvoltura e con lo stesso impegno, contegnosi personaggi della politica e della finanza, esponenti dell'alta società o raffinati cani da compagnia.
La sua passione vera, però, è quella di dipingere le donne.


E quelle che ritrae sono sempre aggraziate, magre, eleganti, col vitino di vespa, la bocca a cuore e il nasino all’insù e, in più, quel pizzico di civetteria che le rende spumeggianti come un bicchiere di champagne.


Sono io che ho inventato la pin-up”: dirà di se stesso.
È lui che ha inventato la donna -calendario”: diranno i suoi detrattori.
Ripeterà lo stesso modello migliaia di volte e questa immagine, sospesa tra garbo e vanità, diventerà il suo "marchio" di fabbrica.



I quadri di Domergue fanno furore.
Sarà perché anche lui è un personaggio.
Spiritoso, divertente, creatore di memorabili feste in costume.
E poi è sempre alla moda, si veste benissimo e disegna lui stesso abiti e accessori.
Un uomo di mondo, un “animatore nato”, lo definisce la moglie: sempre con la battuta pronta, spiritoso e con un tocco di frivolezza.








Nel 1911 Domergue è pieno di impegni.
È giovane, ma lavora con frenesia, gli piace frequentare feste, teatri, caffè e ricevere nell’intimità del suo salotto.
Per fortuna per i lavori di casa ha trovato un domestico, un uomo di una quarantina d'anni con la fronte spaziosa e il pizzetto
È uno straniero, da poco in Francia, servizievole, educato e molto premuroso nei confronti del padrone.

La mia governante”: lo definisce Domergue con un misto di affetto e di condiscendenza.
Ogni tanto il domestico frequenta anche lui il “Café de la Rotonde” e si siede, serissimo e silenzioso, al tavolo di Domergue e dei suoi amici.
La sua riservatezza incuriosisce: sono in molti a chiedersi chi sia quel servitore tanto impeccabile.

Quando qualcuno gli chiede a che cosa si dedichi nel suo tempo libero 
A rovesciare il governo russo”- risponde. 
E’ più che un’ambizione.
Se qualcuno gli avesse chiesto il suo nome, avrebbe detto di chiamarsi Vladimir Ilic Uljanov, ma che, per motivi politici, aveva adottato  lo pseudonimo di Lenin.
Di lì a poco avrebbe cambiato la storia del mondo.

Di certo la storia non si fa con i "se".
Però è legittimo cedere alla tentazione di immaginare. Specie quando il caso mescola le carte e si diverte a unire, anche per poco tempo, vite e caratteri così diversi.

Cosa sarebbe stato di Domergue, se avesse prestato più attenzione alle teorie del suo compassato domestico ?
E cosa sarebbe stato della Russia e dell'Europa,  se il serio e severo Lenin si fosse lasciato contagiare dalla spumeggiante frivolezza del suo padrone?








lunedì 2 gennaio 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Gennaio





L'inizio dell'anno è il tempo dei calendari. Paesaggi esotici, immagini d'arte, teneri gattini, belle ragazze, fiori... ce n'è per tutti i gusti.
Per me il più bello rimane quello delle  "Très riches heures", lo straordinario libro d'ore del duca di Berry.  Un compendio di testi devozionali, salmi e preghiere, introdotti da un calendario. 
Ogni mese è illustrato da una miniatura (21x29cm) con una scena di vita quotidiana, dagli svaghi della corte, alle feste, alle attività agricole.
Basta guardarle ed è come essere trasportati - in un viaggio nel tempo- ai primi del Quattrocento e assistere all'avvicendarsi delle stagioni e agli eventi della vita di tutti i giorni.
E, siccome a me i viaggi piacciono, ogni mese ne "staccherò" un foglio.

Il  primo, ovviamente, è quello di gennaio.


Nella lunetta in alto, il cielo è percorso dal carro del sole e diviso dai segni zodiacali del Capricorno e dell'Acquario.
Passando sotto un'architrave, si entra nel chiuso di una sala sfarzosa e affollata. Basta mettersi in un angolo per osservare tutto quello che succede.

È il Capodanno del 1414, la festa della "etrenne", della strenna, il giorno dello scambio dei doni.
Fa un gran freddo: il camino è acceso e protetto da un ampio parafuoco.
Una stuoia di paglia difende dal gelo del pavimento.

Sulle pareti, per evitare gli spifferi, è appeso un prezioso arazzo.
Il soggetto classico, la guerra di Troia, prende la forma di un torneo cavalleresco e i guerrieri antichi sembrano invadere la scena e confondersi con gli ospiti in arrivo.


Gli invitati sono numerosi: è il giorno del ricevimento del duca e tutti vogliono rendergli omaggio.
Jean de Berry è seduto al tavolo con un'elegante sopravveste imbottita e ricamato d'oro e un berretto di pelliccia. Ha un gusto raffinato ed è molto attento alla moda: per il Capodanno ha scelto un abito del suo colore preferito, l'azzurro, il colore più in voga alla corte francese. 

La  fisionomia è resa con l'esattezza di un ritratto e, nel baldacchino rosso che lo sovrasta, sono raffigurati i suoi motivi araldici: i gigli d'oro su fondo azzurro dei reali francesi e gli orsi e i cigni, suoi emblemi personali.

Jean de Valois, duca di Berry (1340- 1416) figlio, fratello e zio dei re di Francia, vive in una delle corti più lussuose del Nord Europa. Il suo un fasto è già diventato una leggenda.
Poco propenso alla politica o all'attività militare, ha costruito la sua reputazione sulla passione per l'arte.
Ha sperperato un patrimonio per edificare i castelli e i palazzi, in cui trasferire la sua corte, a seconda delle stagioni, ed è  un collezionista accanito di arazzi, gioielli, quadri, antichità e monete ma, soprattutto, di libri miniati.
Grazie a un lauto compenso e a un contratto vincolante, è riuscito ad avere al suo esclusivo servizio i maestri riconosciuti della miniatura fiamminga, i fratelli Jean, Herman e Paul de Limbourg.

Sono loro a illustrare il manoscritto con l'eleganza, la raffinatezza e il gusto per la favola, tipici dello stile tardo-gotico.
La festa di Capodanno apre il calendario. Per questo usano, senza risparmio, i colori più preziosi (lapislazzuli, vermiglio, lacca rosa..) e stanno attenti a ogni dettaglio.

Nella sala i convitati e gli ospiti sono tutti uomini; le dame sono rimaste nelle loro stanze. Alla destra del duca, al posto d'onore, siede un prelato, una presenza immancabile in ogni cerimonia ufficiale. 
La scritta "Aproche, aproche", come un fumetto sopra la testa del ciambellano, esorta gli invitati ad avvicinarsi.

Bisogna davvero affrettarsi: il banchetto è già pronto, ma prima c'è la consegna dei regali. E non è cosa da poco.
Lo scambio dei doni fa parte di una vera e propria strategia diplomatica. Con i regali si cementano le relazioni sociali, si suggellano i patti e, soprattutto, si possono intessere le alleanze più opportune, nel pieno della lunga guerra che oppone la Francia all'Inghilterra, la Guerra dei Cento anni.
I funzionari della corte annotano scrupolosamente il nome del donatore e il valore del regalo. Nel 1414, Jean de Berry ne riceve 350, contro i 280 fatti: un bilancio attivo che testimonia l'importanza del suo ruolo.

Sulla tavola imbandita con una tovaglia bianca damascata e vassoi dorati scorrazzano, in barba a ogni norma igienica,  i suoi cagnolini prediletti. A loro è consentito tutto e non sono pochi a lamentarsi che siano viziati e amati più degli esseri umani. Sono cuccioli, hanno voglia di giocare e i pezzi di carne già predisposti per il banchetto li attraggono irresistibilmente.

Il menu è di quelli da fare  rabbrividire qualsiasi dietologo: tutto a base di carne, con il solo accompagnamento del pane tagliato dal panettiere a capotavola.
Per sfamare i convitati sono stati acquistati tre buoi, trenta pecore, centosessanta pernici e altrettante lepri.
Gli scalchi, incaricati del taglio delle carni, hanno il loro bel daffare; intanto i coppieri girano per la sala per servire un vino caldo e speziato.

A parte sono esposte le stoviglie d'oro: sono un'ostentazione di ricchezza, ma anche una garanzia.
Facili da trasportare tra una dimora e l'altra, senza rischi di rotture, possono essere fuse e utilizzate nei momenti di difficoltà.
D'oro è anche la gigantesca saliera a forma di barca che occupa gran parte del tavolo. Il sale è un genere di lusso e compare solo nelle mense dei ricchi.

L'anno si apre all'insegna della ricchezza e dello sfarzo.
Sembra, davvero, un mondo perfetto quello raffigurato dai Limbourg.
Anche allora, come ora, c'era bisogno di sognare.