venerdì 12 agosto 2011

La raffica di vento di Jeff Wall.




Mare? Montagna? 
Nessuno dei due, passo l'agosto a Bruxelles. 
E allora meglio andare a vedere la mostra* di un artista contemporaneo per scoprire che "niente è come  sembra”.

Jeff Wall  (nato nel 1946 in Canada)  è un  fotografo famoso, il primo che  abbia usato foto di grande formato (in media due metri e mezzo per tre) retro-illuminate  (inserite in light box), una tecnica che ha preso dalla pubblicità e che trasforma ogni sua immagine in un  punto d'attrazione, qualcosa a metà tra il cartellone pubblicitario, un fermo-immagine cinematografico e la pittura.
Come questa, per esempio:



In una campagna gelida, un'improvvisa raffica di vento fa volare, da una cartella, una serie di fogli  dattiloscritti  che si si spandono nell'aria.
Sullo sfondo- in cui si intravedono i fumi di una ciminiera, i pali della luce, capanne e oggetti in disuso- scorre un fiumiciattolo con le rive sporche  di rifiuti.

Si tratta di un'istantanea?  Niente affatto.

L'impressione che Jeff Wall vuole dare è quella di aver fissato  un  istante di vita quotidiana.
In realtà, per ottenere questo effetto, ha organizzato una messa in scena, durata giornate intere, con un vero e proprio set, un gruppo di attori, luci e costumi. Ha creato, insomma, una “fotografia cinematografica”, con una tecnica molto simile a quella delle  riprese di un film, trattando, poi,al computer, le centinaia di foto scattate, con un lavoro lungo e paziente, per circa un anno. 
La precisione dell'esecuzione– lo dice lui stesso- è paragonabile a quella dei pittori realisti dell'Ottocento, che dipingevano un quadro, attenti a ogni minimo dettaglio e con piccoli e successivi tocchi di colore.
Ecco, dunque, un primo livello di lettura: capire che dell'istantanea non c'è che l'apparenza. 
La foto è una messa in scena, che mescola la tecnica cinematografica, quella digitale e la pratica, più tradizionale, della pittura.

Poi, c'è un secondo livello.
La foto, sia pure accomodata, non ricostruisce affatto un evento reale. Reinterpreta,invece, un dipinto famoso: "La raffica di vento nella risaia di Ejiri", una stampa di uno dei più grandi artisti giapponesi, Hokusai (1760-1849).

Ma attenzione: non è finita qui!
È come un  gioco di scatole cinesi, perché c'è ancora un altro livello. L'ultimo, forse.
La citazione dalla stampa di Hokusai non è precisa: non è una sorta di tableau vivant fotografico.
Tutto è cambiato.


L'incantevole paesaggio alle pendici del Fujiyama, con i fogli bianchi che volano tra le risaie, è diventato un turbinio di documenti dattiloscritti in una  campagna degradata, tra immondizie e fumo di ciminiere.
I  contadini giapponesi, in chimono e cappelli di paglia, si sono trasformati in eleganti yuppies degli anni '80, con   cappotto  a doppio petto e pantaloni grigi o in un passante  con stivali e camicia  a scacchi. 
Solo gli alberi in primo piano, a sinistra, sopravvivono uguali.

Chi guarda la foto ha la sensazione che gli ricordi qualcosa, forse, addirittura, ha l'impressione  di rammentarsi dell’opera, da cui  è tratta, ma resta interdetto,  perché c’è uno scarto, che non riesce  a capire: lo schema è rimasto intatto, ma il contenuto è profondamente cambiato.
Ed è questo scarto che destabilizza, che inquieta.

Molte delle foto di Jeff Wall sono delle "messe in scena"di avvenimenti reali, di ricordi  d'infanzia, di testi letterari, ma,  soprattutto- forse per la sua formazione di storico dell'arte- di capolavori di pittura del passato, a volte, interamente ricreati, a volte, citati in qualche dettaglio, o  inseriti in situazioni di quotidianità contemporanea.
"Bisogna dipingere la vita moderna": era il programma di Baudelaire e di Manet, a cui si rifà Jeff Wall, che trasferisce, però, la Parigi dell'Ottocento nella Vancouver di oggi, scegliendo, come mezzo, non la pittura, ma la fotografia.



In "Picture for Women", la foto è ripresa da uno specchio, durante una seduta in uno studio: una donna, dallo sguardo assente, sembra assorta nei suoi pensieri. Dietro di lei, compare l'artista stesso, mentre la sta fotografando.






L'atteggiamento della donna è quello della bionda barista di "Un  Bar alle Folies- Bergères" di Manet, ma, questa volta, non è un cliente che la sta guardando, bensì l'obbiettivo della macchina fotografica che domina al centro della composizione. 
E, poi, dietro di lei non c'è lo specchio che riflette la folla del caffè, mentre le luci sono diventate quelle fredde di uno studio fotografico.







Un altro dipinto ispira un'altra fotografia.
La “Morte di Sardanapalo” di Eugène Delacroix, con la sua atmosfera romantica, mista di lussuria e gusto dell'esotico, è reinterpretata in maniera totalmente diversa.






In "Destroyed Room", solo lo schema compositivo rievoca il quadro ottocentesco.
Un materasso sventrato ha preso il posto del re morente, circondato dalle sue concubine. Qui non c'è più spazio per mollezze o compiacimenti morbosi. 
C'è soltanto la violenza di un atto vandalico che ha ridotto la camera di una donna a un ammasso di cassettiere aperte, vestiti, scarpe e gioielli ammucchiati per terra.




I quadri famosi sono trasferiti in situazioni attuali e perdono ogni "aura", reinterpretati e trasposti, come sono,  nella più banale realtà  quotidiana.
L'effetto è spiazzante: suscita sconcerto, curiosità e, soprattutto, la voglia di capire.
Ci si chiede cosa voglia dire, se la conoscenza dei dipinti, a cui si ispira, abbia o no importanza, o, addirittura, se sia una provocazione o un gioco ironico. 

Può darsi che l’intento  sia  quello di rivelare le "verità nascoste", il mistero che sta dietro l'apparenza delle cose,quello di farci  interrogare sul rapporto tra l'arte del passato e la vita presente, sulla nostra relazione con l'ambiente che ci circonda, sul valore dell'immagine e su cosa sia, davvero, un' opera d'arte.
Ma può darsi che ci siano ancora  altri e diversi livelli di lettura.
Le domande che le opere di Jeff Wall ci pongono sono tante: ma  è, appunto, per questo che cessano di essere "semplici" fotografie e diventano opere d'arte.







 *La mostra monografica su Jeff Wall, “The croocked path”, che si terrà al Bozar di Bruxelles fino al 10 settembre 2011, comprende  tutte le fasi dell’attività dell’artista e racconta dell’evolversi del suo processo creativo: i link sono qui  e qui.




17 commenti:

  1. Fai bene, cara, a lasciare il punto interrogativo finale.Il post è molto interessante,specialmente perchè tul'hai reso interessante ma io questo tipo di immagini non le capisco e ho sempre il sospetto che ci stiano prendendo in giro.Per esempio chi non è storico dell'arte e non capisce le derivazioni è escluso dalla comprensione ? Poi tutta questa messa in scena a me non convince.Però , come al solito, sei riuscita a incuriosirmi e per un pò ho giocato con le immagini come ad " Aguzzate la vista " della nostra cara Settimana Enigmistica. Buona giornata
    Marco

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  2. Grandissimo artista. Non lo conoscevo e ti sono grata per questo tuo bellissimo post. Ogni quadro, ops, ogni fotografia è una narrazione.
    Meravigliosa quella che hai scelto in apertura.Con o senza rimandi alle opere del passato rimane un capolavoro.
    Un bacio

    p.s.
    vedrai presto comparire sulla colonna destra del mio blog qualcosa di Jeff. Mi piace troppo.

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  3. Anche a me questo artista piace moltissimo per quello che leggo qui da te e nei links che hai messo.Trovo che il rapporto con le opere d'arte arricchisca moltissimo le sue foto e mi piace quando come qui le posso vedere in rapporto con gli originali. È una bella scoperta che ancora una volta ti devo.
    Sara

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  4. Sono in parte d'accordo con Marco: chi non coglie il rimando rimane di fronte a una foto che può risultare soltanto "assurda" o incomprensibile o semplicemente muta.
    Per fortuna che noi, qui, siamo dei privilegiati: abbiamo te, che racconti e spieghi tutto nel tuo solito meraviglioso modo.
    Saluti!

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  5. Trovo bellissima la foto che hai messo in primo piano, meno riuscite le altre. Forse perché c'è stato meno lavoro dietro?
    Chissà.
    Devo dire, però, cara Grazia, che il modo di lavorare di Jeff Wall ha un sapore antico: mi ricorda moltissimo le operazioni (allora davvero scandalose per il grande pubblico) che Manet aveva compiuto con i suoi rifacimenti modernizzati di capolavori antichi, come il celebre "Colazione sull'erba" o l'"Olympia". Qui cambia la tecnica, ma alla fine il concetto è lo stesso.
    Ma non importa: in fondo, c'è oggi la falsa idea che lo scopo principale dell'arte sia quello di scandalizzare, invece secondo me lo scopo dell'arte, anche quella attuale, è tutt'altro.
    La foto ispirata alla stampa di Hokusai è molto complessa, ricca di elementi integrati e sovrapposti, creando un piacevole senso di continua scoperta e invitando l'osservatore a osservare: che mi pare un grande risultato. Invece gli altri due sono, per me, troppo semplici; la citazione della cameriera di Monet è banale, per chi conosce l'opera, e noiosa, per chi non la conosce. Quanto al quadro di Delacroix rivisitato, l'originale era assai più ricco di sovrapposizioni, sensazioni, dramma, mentre la foto è come un triste guscio vuoto.

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  6. Premetto che non conoscevo l'opera di Jeff Wall e che l'ho scoperta grazie a te.A me piace molto, ma sono molto d'accordo con quello che dice Paola sul fatto che non ha inventato niente, anche se la sua pratica della messa in scena mi sembra nuova.Al contrario di Paola pero' a me piace molto l'ultima foto, quella che deriva da Delacroix , perché è come se il quadro avesse lasciato un "triste guscio vuoto", come dice Paola, ma se non ci fosse il quadro di riferimento perderemmo qualcosa.Non so se riesco a spiegarmi ma pensare che il re che muore con le concubine oggi diventi una stanza vandalizzata mi sembra che aggiunga qualcosa al quadro e alla foto.In ogni caso grazie per avermi fatto conoscere questo artista.
    Anna

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  7. La più bella delle foto è senza dubbio la prima e credo che non sia un caso.L'altra che mi piace è l'ultima.Mi domando per tutt'e due se il quadro da cui prendono ispirazione è dichiarato dall'artista nel titolo o nella didascalia oppure è lasciato alla cultura di chi lo guarda il riconoscerlo. A me non pare sia lo stesso anche se l'artista è in ogni modo di grande interesse. Bello il post
    Daniela

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  8. Cara Grazia, qui ho letto con attenzione anche tutti i commenti , d'accordo con Marco , Duck e Paola . Un'arte troppo complicata da capire si indirizza solo ai competenti , se non ha una presa immediata su chi ci si avvicina . Quindi si aprono gli eterni discorsi su cosa è arte , se debba essere immediata la comprensione, se il bello e la'rte coincidano (evidentemente no) . Voglio raccontarti una cosa. Comprammo questa casa in cui viviamo da una signora che in periodo faceva la gallerista e aveva in casa , qui , delle opere di artisti emergenti, che mi risultavano sconcertanti e banali . Parlando con lei glielo dissi che non piacevano quelle cose, rispose che se mi spiegavano averi capito . Era una donna ignorante che si era dedicata a queste cose con l'idea di fare un pò di soldi facili . Ricordo che pensai che se mi doveva essere spiegata perchè non aveva nessuna presa su di me , che arte era? Comunque la prima foto mi piace molto , anche se mai (ignorantissima) l'avrei ricollegata a Hokusai che pure ho visto tante volte .

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  9. E grazie perchè , me in particolare , mi porti per mano alla scoperta di queste cose . Ci sono moltissime cetonie ed hanno il colore verde preciso del soffitto della sala di Bruxelles , ogni volta che le vedo penso alla regina che incolla le ali iridescenti .

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  10. L'arte deve avere qualcosa che arriva in modo diretto, intuitivo; ma occorre avere delle informazioni per arrivare in fondo, e forse, come alla poesia, non si arriva mai davvero in fondo alle grandi opere d'arte.
    Ci sono, in tutti i linguaggi, elementi convenzionali che, se si ignorano le convenzioni, ci sfuggono fatalmente. D'altra parte, la nostra istruzione pubblica punta soprattutto sulle opere d'arte basate sulla parola, per cui tutti gli italiani sanno cogliere un'allusione all'incipit della Divina Commedia o al Tanto gentile e tanto onesta pare, ma non conoscono opere visive altrettanto fondamentali per la storia della pittura. Ma, al di là di questo, esistono comunque elementi che invece appartengono a un sapere non accademico, ma esperienziale. La foto dei fogli che volano nel vento ci parla della scrittura (i fogli) che vola nel vento (verba volant) come le foglie della Pizia; queste sono evocazioni classiche, ma anche senza di esse l'immagine comunque ci parla della vanità della scrittura e del segno, perché gli esseri umani parlano col fiato, che è aria che si muove, è vento. Le parole si perdono nel paesaggio, e ne diventano parte; volano fra gli uomini, che a volte le raccolgono e a volte no. Questo è il destino della poesia e dell'arte, e quell'immagine ce lo dice in modo sia intuitivo che colto. L'immagine si legge in entrambi i modi, e così ci troviamo faccia a faccia con il senso stesso della vita di animali sociali come siamo, che hanno la parola e la scrittura per comunicare, eppure non sempre questo mezzo serve davvero al suo scopo. Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie: ecco un equivalente letterario italiano di questo eterno concetto comune a tutti gli uomini del mondo.

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  11. Proseguo la mia lunga tirata perché mi è venuta in mente una cosa a proposito della poesia di Ungaretti che ho citato. L'ho citata istintivamente, poi ho pensato che forse il confronto era inappropriato, perché Ungaretti parlava delle vite umane appese a un filo in trincea, in guerra. Poi però ho riflettuto ancora, e ho tratto la seguente conclusione: la poesia è grande quando ci dice molto con poco. Ungaretti ha usato 10 parole per dire la fragilità della vita e l'ineluttabilità della morte e del destino umano, legando l'uomo alla natura. Geniale. Ma in quell'immagine, a renderla corposa e intensa in modo subliminale, c'è per l'appunto anche un'allusione alla parola e alla poesia. Infatti le foglie che cadono portate dal vento dell'autunno sono, come ho detto prima a proposito della foto di Wall e del disegno di Hokusai, un'immagine perfetta della parola che esce dalle nostre bocche, dai nostri corpi, con l'aria e forma dei segni singoli, definiti, come sono singole e definite le foglie. Dunque nella poesia di Ungaretti c'è questo secondo livello di senso, che ci giunge istintivamente ma anche con la chiave più colta delle foglie della Pizia.

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  12. Quello che non mi piace nelle altre due immagini è l'impoverimento rispetto alla pluralità dei piani di lettura delle opere di riferimento. La cameriera nel quadro di Manet si vede due volte, di fronte e riflessa di spalle; il personaggio che le sta di fronte è solo riflesso, ma si capisce che è presente davanti a lei, nello spazio dello spettatore. Poi ci sono i molteplici, infiniti occhi della folla. Infine c'è lo sguardo del pittore, sottinteso ma essenziale.
    Invece nella foto c'è, al posto di tutti questi occhi che si inseguono e si rispondono, solo il freddo, unico occhio indifferente della camera fotografica. Trovo molto triste questa riduzione, e ingiusta nei confronti stessi della fotografia, che non è un occhio freddo e indifferente, monopolizzatore, ma al contrario è uno strumento sensibile che amplifica l'occhio del fotografo.

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  13. Che dire, poi, del quadro raffigurante Sardanapalo che assiste imperturbabile ai riti crudeli della sua propria morte?
    Un re rappresenta non solo se stesso, ma un insieme di moltissime cose: dei riti, delle leggi, delle usanze. Un re incarna l'identità di un popolo.
    Gli atti spaventosi di morte qui raffigurati non sono, in un certo senso, gratuiti, non raffigurano la follia del singolo, ma incarnano piuttosto l'eterno terrore della morte che, nel corso dei tempi e della storia, ha trovato i modi più antitetici ma in fondo ugualmente disperati di esorcizzarla.
    Invece la stanza sventrata e distrutta fa pensare a un gesto inconsulto di un personaggio uscito di scena, a qualcosa di gratuito e solo distruttivo; invece i riti di morte hanno sempre avuto, storicamente, la funzione di ricreare un ordine, per quanto con metodi a volte spaventosi, nell'orribile disordine della morte. Una bella differenza.

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  14. Mi fa piacere che l'opera di Wall abbia suscitato tanti pensieri.Le interpretazioni e le parole di Paola portano lontano. Il rapporto con Hokusai della prima foto arricchisce di significati quello che Paola dice benissimo sulle parole, la fragilità della vita e la poesia. Le altre due foto, forse, non hanno la stessa complessità ed è vero che semplificano le straordinarie risonanze dei dipinti originari. A me, pero',l'ultima con quella camera vuota e distrutta, con quei vestiti femminili sparsi a terra da un atto cieco di distruzione, con quella stanza dalle pareti rosse che sembra un teatro, mi emoziona, proprio per la sua gratuità, perché sembra che ormai oggi nessun "rito di morte" sia più possibile e rimanga solo lo squallore della violenza.

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  15. Concordo anch'io con Paola, i piani di lettura nella prima foto sono molto più elaborati che nelle altre. Come il quadro di Van Gogh, "campo di grano con corvi" (e tu, Grazia, sai di cosa parlo) anche la foto della raffica di vento, mi ha lasciato sgomenta. Ci leggo tutto l'impoverimento del nostro tempo, il grigiore della cosiddetta civiltà del cemento che incombe sulla natura e sull'ambiente. Impaurisce che il canale d'acqua, che potrebbe significare (positivamente) il panta rei, sia invece ritratto in primo piano "bloccato", mentre il candore dei fogli,(simbolicamente la cultura della verità), sembra divenire evanescente. Questo ci vedo io e, come ho scritto, mi lascia sgomenta. Non il pessimismo cosmico leopardiano, ma si sicuro un pessimismo terrestre del nostro oggi.

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  16. Sono solo di passaggio per un saluto. Ritorno presto.

    Buon Ferragosto :)

    Ciao Nou.

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