martedì 31 maggio 2011

Il "Ritratto" di Rogier van der Weyden : il martello di Francesco d'Este




A Bruxelles, nel 1444, nel favoloso  palazzo di Coudenberg, allora in corso di rinnovamento, tra gli ospiti della corte di Borgogna, c'è un giovane italiano, appena adolescente. 
È stato accolto molto  bene e il Duca Filippo il Buono, generosamente, ha deciso di farlo educare insieme a suo figlio, Carlo il Temerario. 
Con lui potrà impratichirsi nel mestiere delle armi e nelle sottili arti della diplomazia.
Per un ragazzo arrivare a Bruxelles, in uno dei palazzi di Filippo il Buono, è come entrare in uno di quei  racconti di cavalieri che accendono la fantasia: la corte di Borgogna è famosa per il lusso, l'eleganza, l'amore per i tornei e per i banchetti, insomma, per la magnificenza che esibisce in ogni manifestazione. 
Molte signorie italiane la considerano un modello inarrivabile.

Il ragazzo si chiama Francesco e, al momento del suo arrivo, ha, più o meno, quindici anni. Delle meraviglie della corte di Borgogna ha sicuramente sentito parlare a casa sua, alla corte degli Este.
È il figlio illegittimo del signore di Ferrara, Leonello (ne parlo qui) che lo ha inviato all'estero per sottrarlo ai maneggi e alle malevolenze della corte.
Anche Leonello è un figlio illegittimo ed è riuscito a succedere, nella signoria, al padre Niccolò.
Essere illegittimi nella Ferrara del Quattrocento è piuttosto frequente. 
Niccolò III ha avuto numerosi figli naturali, sparsi per  tutto il territorio ferrarese.
Di qua e di là dal Po sono tutti figli di Niccolò“: afferma un detto popolare. 
La leggenda gliene attribuisce ottocento, ma, più ragionevolmente– si fa per dire- gli storici hanno corretto il numero in trentanove.
La successione alla signoria, in questo modo è assicurata e per anni passa da un fratello all'altro.
Più morigerato del padre Leonello ha avuto un solo figlio naturale, nato intorno al 1430, da una relazione con una dama di corte, nel periodo di vedovanza tra il primo e il secondo matrimonio: Francesco, appunto.
Il giovane Este si ambienta bene alla corte di Borgogna, tanto che lo si trova citato nei documenti, incaricato, ogni tanto, di qualche missione diplomatica.
Verso il 1460 viene ritratto da Rogier Van Der Weyden, artista già celebre e ben noto in Italia,  dove gli Este sono stati tra i suoi primi collezionisti.

Il dipinto è a New York, Metropolitan Museum

Francesco è effigiato di tre quarti su uno sfondo bianco avorio:  l'abbigliamento non è  sfarzoso o colorato come si usa abitualmente in Italia, dove Leonello d’Este, cambia la tinta dell'abito ogni giorno, secondo i consigli dell'astronomo di corte.
La veste indossata da Francesco è nera.
Il nero, adottato  da Filippo il Buono, in lutto per la morte del padre, è diventato il colore di moda alla corte di Borgogna e il segno distintivo dell'eleganza "minimalista"  e sobria della vera aristocrazia.

Dal collo e dalle maniche si intravede il bianco della camicia e- a mala  pena visibile- una preziosa  collana d'oro; al dito mignolo porta un  anello.
Niente da eccepire: Francesco, raffinato e misurato, si è saputo trasformare in un vero gentiluomo borgognone.
Tra le dita  stringe un altro anello. Questa volta non si tratta di un ornamento, ma di un simbolo: il gioiello può alludere alla vittoria in un torneo oppure a un pegno d'amore.
Fin qui tutto torna: un giovane gentiluomo elegante, un anello e, chissà, una promessa amorosa.
Ma c'è un elemento incongruo che attira l'attenzione: è il martello a coda di rondine  che tiene tra le mani.
Per chiarirne il significato non resta che osservare meglio il quadro.  

Nel verso- ben  evidente su fondo nero- c’è lo stemma degli Este, sorretto da due linci.
Il cimiero che lo sovrasta è sormontato da un’altra lince, ma questa volta  bendata. 
La lince, simbolo di lungimiranza, è stata l'emblema di Niccolò d'Este. 
Leonello, alla morte del padre, ha scelto di bendarla in segno di lutto e di adottarla come sua insegna  personale.

C'è una scritta: v re tout  (interpretata come v(ost)re  tout: interamente vostro). 
È una  dedica: indica  che il ritratto è un dono, un regalo d'amicizia o, più facilmente, d'amore  da parte di Francesco. 
Poi ci sono, ripetute due volte,  le lettere m, e, (cioè m(archio) e(stensis), marchese d'Este) e, infine, il nome  francisque (Francesco).



Francesco, malgrado sia illegittimo, è pur sempre figlio del marchese Leonello d'Este.  
Il riferimento al padre è evidente nel simbolo della lince bendata; mentre le lettere m(archio) e(stensis), ripetute due volte, alludono al  rango paterno e al titolo, a cui Francesco sente di avere diritto.
Ed ecco, allora, che si spiega anche il martello.
Il martello, in italiano antico, è detto "marchio", la stessa parola usata  per marchese. 
Francesco  lo tiene  tra le mani in maniera ostentata e sembra, così, ribadire la legittimità della sua rivendicazione nobiliare, particolarmente importante in una corte attenta all'etichetta, come quella di Borgogna.
In più, il martello è un antico simbolo di potere e di forza e, forse, allude a una sua carica civile o militare.
Tutto il dipinto rappresenta, dunque, la riaffermazione orgogliosa  di uno status sociale. 
È il ritratto di una persona che, donandolo a qualcuno a cui tiene, vuol confermare la nobiltà delle sue origini e del suo casato, malgrado la sua nascita illegittima.

Non sappiamo se il dono fosse accettato, né se il messaggio fosse compreso.
Le notizie d'archivio ci dicono solo che Francesco svolse ancora qualche missione diplomatica tra la Borgogna e l'Italia. 
Rientrato definitivamente in patria, finì per diventare prete e vivere appartato, godendo dei  benefici ecclesiastici che la sua carica gli consentiva, fino alla morte, nel 1482.
A Ferrara, intanto, era diventato signore l'ultimo dei fratelli, un erede legittimo stavolta: Ercole I, figlio dell'ultima moglie di Niccolò III.
Gli Este erano riusciti a conquistare il traguardo nobiliare più ambito: il titolo di Duca.
La corte estense, ormai, era pronta a  rivaleggiare, per splendore, con quella di Borgogna.




La ricostruzione tornerebbe, ma c'è un dettaglio, per cui non riesco a trovare una spiegazione.
È come se mi fosse rimasto da collocare il  pezzo di un puzzle o non riuscissi a terminare uno di quei giochi della Settimana Enigmistica che amo tanto.
Perché il martello che  Francesco tiene tra le mani è a coda di rondine? Perché proprio questo tipo di martello?
È uno strumento troppo specifico per essere solo un simbolo. Che cosa può significare?
È un dubbio che lascio aperto. Qualcuno, forse, la soluzione la sa.

Le notizie su Francesco d'Este, sull'araldica estense e sul simbolo del martello sono in M.Torboli, Un Rinascimento singolare, cat.della mostra, 2004 pp.95-97.
Sul dipinto: questa è la scheda del Metropolitan Museum di New York.




venerdì 27 maggio 2011

….ma buona parte, sì.






"Non tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì".
Questa è la voce che circola, quando le truppe francesi, a partire dalla campagna del 1796, arrivano in Italia  a  diffondere i nuovi principi della Rivoluzione, ma  anche a trasferire in Francia- per ordine espresso di Napoleone- i capolavori d'arte italiana.
Si affermava pubblicamente che la Francia democratica era l'unico paese degno di conservarli; in realtà, tutti sapevano benissimo che erano  destinati ad arricchire il Louvre, ribattezzato nel 1803  Musée Napoléon, e a celebrare la gloria del condottiero.
Quelle opere sarebbero state "la più brillante conquista" del generale, sempre vittorioso.

Fu un saccheggio: carri e carri pieni di statue e dipinti lasciarono l'Italia con i funzionari francesi che controllavano e annotavano scrupolosamente il numero e  le condizioni delle opere. 
Dopo la sconfitta di Napoleone e le disposizioni del congresso di Vienna nel 1815, le opere d'arte sarebbero dovute  rientrate tutte in Italia. Invece, ne rientrò poco più della metà.
Intanto, quella confisca aveva indignato non solo gli uomini di cultura italiani, che, però per lo più, si limitarono a mugugnare, ma anche i più illuminati intellettuali francesi

E uno di loro non tacque.
Fu Antoine Quatremère de Quincy, architetto, filosofo e critico d'arte che, prendendo netta  posizione contro il trasferimento in Francia delle opere, scrive così al generale Francisco de  Miranda:

"Mille cause riunite hanno concorso a fare dell'Italia una specie di museo generale, un deposito completo di tutti gli oggetti che servono allo studio delle arti. Questo paese è il solo che possa godere di questo specifico privilegio …. Il vero museo di Roma, quello del quale io parlo, si compone, è vero, di statue, di templi, di colonne, … ma si compone altresì di luoghi, di paesaggi, di specifiche relazioni tra tutti i reperti, di memorie, di tradizioni locali, di paragoni e di raffronti che non possono farsi che sul posto"

È davvero così e sembra strano che sia stato uno straniero a pronunciare  quelle che sono tra le più belle parole mai scritte sui beni culturali  italiani.
Il patrimonio italiano  non è costituito solo da capolavori, ma da un territorio unico,  fatto di opere d'arte, ma anche  di paesaggio, di tradizioni, di rapporti. 
Non si può asportare un capolavoro, senza che l'ambiente circostante ne soffra e  non si può distruggere impunemente questo tessuto, senza privare le opere d'arte del contesto che le fa vivere.
E ora la situazione non è migliore di quella del periodo del saccheggio napoleonico, anzi.
Ormai  gran parte  dell'ambiente e delle relazioni che rendevano vivo questo tessuto  è distrutta: furti, degrado, mancanza di piani regolatori, condoni edilizi, abusivismo, speculazioni.
Molti partecipano a questo scempio.
Non tutti consapevolmente o per trarne un utile personale, ma buona parte sì.

Poche davvero le proteste e gran parte degli addetti ai lavori.
Cosa si possa fare non lo so.
"Conoscere per conservare" è uno dei concetti, in cui credo di più e che mi è stato trasmesso da uno dei più grandi storici dell'arte italiani, Andrea Emiliani, con cui ho avuto la fortuna di lavorare.
Per questo continuo, anche qui, a fare quello che faccio per mestiere. E a raccontare- per farle conoscere- le  piccole e le grandi storie dell'arte

Sperando che serva.




martedì 24 maggio 2011

"Il ritratto del conte Giovanni Secco Suardo" di Fra' Galgario: padrone e servitore





Da dove nasce il fascino di un dipinto ?
Perché un quadro, ma anche una scultura o un disegno, entra di prepotenza nei nostri pensieri e si impone alle nostre emozioni?

Me lo sono chiesta quando ho visto questo ritratto: "Il conte Giovanni Secco Suardo con il suo servitore"



Siamo intorno al 1720, a Bergamo, quando la città appartiene ancora  alla Repubblica di Venezia.

L’autore è, all'epoca, il ritrattista  più noto e più  richiesto: Giuseppe Vittore Ghislandi (1655-1743), detto Fra' Galgario, dal nome del convento dove passò, come frate laico, gli ultimi anni di vita. È un pittore colto, informato sulle novità della ritrattistica italiana ed europea, ma ammira anche i vecchi maestri: specialmente Tiziano e Rembrandt  per i suoi fondi scuri e gli improvvisi colpi di luce che accendono le figure.  
Con il suo sguardo impietoso e tagliente è capace di  restituire in pittura non solo le fattezze, ma il carattere, i vizi e le virtù dei suoi soggetti.
Sono uomini di lettere e di  chiesa, ricchi borghesi e, soprattutto, esponenti di un’aristocrazia di provincia in declino, priva di un reale potere, ma legata ai simboli esteriori del lusso e dell’apparenza

Come il conte Giovanni Secco Suardo, raffigurato qui in piedi, con una mano sul fianco, in un atteggiamento di una disinvoltura e di una  nonchalance, talmente esibita e studiata, da sfiorare l’arroganza.
Il volto, molle e privo di carattere, sembra tradire un'annoiata indifferenza.
L'atmosfera è intima, privata, tanto che il conte indossa una specie di sontuosa veste da camera con decorazioni dorate e, soprattutto, non porta la parrucca, accessorio indispensabile, nel Settecento, per ogni apparizione pubblica di un gentiluomo.
La stoffa preziosa è dipinta con quella straordinaria lacca rosso-marrone, «come sangue raggrumato », di cui Fra' Galgario deteneva il segreto (*).

Il servitore è in  posizione arretrata, al di là di un parapetto e di una colonna.
Ed è l’unico elemento che indichi una differenza di rango tra i due.
Il volto è quello di un uomo, segnato dagli anni e dall'esperienza, con un'espressione che rivela un' intelligenza meditata e consapevole.
Indossa un abito verde muschio, probabilmente una livrea. 
Ma la divisa non è abbottonata, come si converrebbe, e la camicia bianca è lasciata slacciata.

Siamo di fronte a un doppio ritratto, un genere di rappresentazione riservato, abitualmente, a persone unite da una relazione stretta:  genitori e figli,  coniugi, colleghi, maestro e allievo. A volte anche gentiluomini, e, soprattutto dame, accompagnati da un domestico, spesso in abbigliamento esotico e con la funzione di accentuare, per contrasto, l’eleganza e la raffinatezza del padrone.
Qui, invece, servitore e padrone sono protagonisti alla pari. 
E non è  facile capire perché il conte Secco Suardo abbia accettato di essere effigiato, insieme al suo domestico, con questa schiettezza e veridicità.

Qualcuno ha  avanzato  l'ipotesi  che il busto del servitore non  sia  un ritratto, ma la personificazione di una di quelle sculture di filosofi o di saggi dell’antichità, che servivano a dare un’impressione di sapienza e di cultura.
Non è così: la fisionomia è troppo caratterizzata per pensare che sia un simbolo. 
È, invece, una persona, viva e reale.
Anche se i due non si guardano e  sono rivolti entrambi verso lo spettatore, si intuisce che  sono legati da una relazione profonda. 
Ma quale?
Anche se fosse solo un rapporto tra padrone e servitore, qualcosa striderebbe: il contrasto tra la vuota arroganza del conte e l’enigmatica calma del domestico.
A meno che non si immagini uno scenario simile a quello dell’ inquietante film di Joseph Losey, The servant, (1963) con un servitore (uno straordinario Dirk Bogarde) che è riuscito a ribaltare il suo ruolo, arrivando a dominare un padrone ingenuo e superficiale.
Ma forse il volto del vecchio domestico esprime solo una stanca rassegnazione. 
E allora  si può immaginare tutt'altra storia.  
Ogni ipotesi è arbitraria e, dunque, possibile: da quella di una paternità celata, a una relazione precettore-allievo, a un rapporto amoroso, magari implicito e sfumato.

È un dipinto che suggerisce e suggestiona,  senza mai chiarire.
Il suo  fascino sta in questa ambiguità, nella possibilità di interpretazioni differenti e nella capacità di suscitare reazioni diverse.
Ed è per questo misterioso meccanismo, che consente una molteplicità di letture e di significati, che  immagini come questa  entrano a far parte del nostro universo, riescono a superare l’ambito di una pura raffigurazione e diventano altro.

Diventano opera d’arte, capolavoro.


(• ) La mostra Fra’ Galgario e il segreto della lacca si è tenuta a
Bergamo, Palazzo della Provincia, Spazio Viterbi
7 maggio - 19 giugno 2011



venerdì 20 maggio 2011

Seggiano, Monte Amiata: il giardino di Daniel Spoerri.





Un giardino? Di più
Una galleria di opere d'arte all'aperto? Di più
Un pezzo di campagna toscana? Di più


È il giardino di Daniel Spoerri.
Uno di quei posti magici in cui mi è capitato di imbattermi per caso (ammesso che il caso esista), mentre stavo cercando un altro giardino in Maremma.
Più di 15 ettari di campagna toscana, sul monte Amiata, vicino a Seggiano, in cui Daniel Spoerri ha creato un parco-museo, con un percorso di opere d'arte (103 installazioni di 50 artisti) che si intreccia con un sentiero botanico, in uno dei paesaggi toscani più belli- e io che sono toscana, lo so- che sia dato di vedere.


Daniel Spoerri è un artista eclettico, noto per i suoi tableaux-piège, i quadri-trappola, in cui incolla su una tavola gli oggetti del vivere quotidiano, o per la Eat Art, in cui i resti di una colazione, di pranzo, di una cena, o le ricette di un ristorante diventano spiazzanti oggetti d'arte.
Il giardino, in cui accoglie le opere di amici artisti, è uno dei suoi capolavori.
Si può trovare di tutto.
Basta lasciarsi incantare.





Si entra nel giardino.











e, d'improvviso, si scopre un labirinto.













e  ci si meraviglia per il paesaggio di Seggiano, visto attraverso un cerchio magico.












Se si è stanchi, ci si può riposare su un divano erboso.
















salire  lentamente su una scala,













o seguire le oche, come dietro un pifferaio magico.











Tutto è possibile, basta solo lasciarsi andare.
E non si deve dimenticare che quattro o cinque ore- al minimo- di passeggiata, richiedono una sosta al ristorante.
O, almeno, un panino allo spaccio dell'ingresso- con finocchiona e pane toscano, per esempio- è necessario concederselo.
Tutto il resto è magia





Per tutte le informazioni pratiche basta cliccare qui.


lunedì 16 maggio 2011

Carpaccio, due dame, l'attesa. La fine di un giallo (forse)



Siamo a Roma, nel 1944. Un giovane architetto gira in bicicletta per la città semi-deserta. Malgrado la guerra, la vita quotidiana continua. Nella vetrina di un antiquario del centro gli capita di scorgere un dipinto che attira la sua attenzione per la singolarità del soggetto.
Guardato  da vicino, sotto la patina di sporco, gli  pare di gran  qualità
Se volesse azzardare un'ipotesi, potrebbe, addirittura, attribuirlo a Carpaccio.
Lo compra; anche perché il quadro costa poco. Troppo poco, anzi. 
Al punto che, quando l'attribuzione verrà confermata, il venditore  riuscirà a riprenderselo. Piu tardi, lo farà uscire dall'Italia- tra le polemiche- per raggiungere la Svizzera e, da lì, il  Getty Museum a Los Angeles.

Osserviamolo attentamente questo dipinto:


In una giornata limpida, in un paesaggio lagunare, sette  barche con il fondo basso scivolano sull'acqua. 
In ogni barca alcuni rematori e un arciere sono a caccia di uccelli acquatici, forse folaghe. L'arciere non tira frecce ma- come allora si usava- pallottole in argilla, per non sciupare il piumaggio degli uccelli.  
Sullo sfondo i tipici casoni dal tetto di paglia e le barriere di graticci e terra  di riporto, indispensabili per isolare le cosiddette valli, le riserve destinate all'allevamento dei pesci. 
Il cielo sembra appena schiarirsi alla luce dell'alba, mentre all'orizzonte  vola uno stormo di uccelli. L'atmosfera è quella di una scampagnata, una battuta di caccia tra amici che, lietamente, condividono una passione.

Il quadro, oggetto di tante discussioni e polemiche, fu esaminato e analizzato con  cura anche all'epoca.
L'attenzione si concentrò su un dettaglio, incongruo e del tutto incomprensibile: in basso a sinistra, c’è un grande giglio, del tutto fuori scala  rispetto alla composizione e con lo stelo troncato.
Cosa c'entra, il giglio con la scena di caccia ? 
Il giglio è un fiore tradizionalmente legato all'annuncio alla Madonna e simbolo di purezza e di candore femminile.
Perché appare tagliato così?
Che  il quadro non sia completo?
Che ne manchi una parte? Quella inferiore, per esempio, che giustifichi la presenza, le dimensioni e il taglio dello stelo.

Si comincia a cercare: esisterà pure, da qualche parte, un dipinto di Carpaccio, con cui la composizione possa essere riunita?
Ma certo che esiste!
È un quadro, dal soggetto misterioso, firmato sicuramente da Carpaccio in un biglietto in basso al centro e dove, sul parapetto di una terrazza, c'è un vaso in ceramica con  lo stelo di un fiore bruscamente tagliato;
Ecco: sono proprio  le" Due dame", l'oggetto al centro del nostro giallo.

I due dipinti si sovrappongono, si mettono insieme e il puzzle si ricompone.
Lo stelo tagliato nel vaso  è quello del giglio: non c'è alcun dubbio. Si adatta perfettamente.
Le  analisi e gli esami di laboratorio confermano.
Tutto torna, le misure sono le stesse; coincidono le venature e i nodi del legno e, perfino, le gallerie dei tarli.  E coincidono anche la preparazione delle tavole e il tipo di pigmenti.


C’è un solo particolare che non torna ed è il verso dei dipinti:  in quello del Getty c’è una raffigurazione  trompe-l’-œil  con un nastro che trattiene sette lettere aperte, in cui si distingue, a mala pena, il nome dei destinatari.

Il verso del dipinto con le "Due dame", invece, è coperto solo da uno strato di vernice nera.
Ma  una spiegazione c’è:
l’eventuale raffigurazione potrebbe essere  stata cancellata da un antico restauro, che ha assottigliato la tavola.


Comunque gli elementi comuni sono troppi  ed è  evidente che  le due tavole, all'origine, erano unite.
Così:


Ora, finalmente, il soggetto è chiaro.
Sono due gentildonne, annoiate dalla lunga  attesa, che attendono, in terrazza, il ritorno degli uomini, impegnati in un loro svago: la caccia in palude.
Pensano ai legami familiari che le uniscono ai coniugi lontani (sono questi i simboli presenti sul balcone e che rappresentano, in parte, la  proiezione dei loro pensieri) e, forse,  chissà, immaginano la scena della caccia, in cui gli uomini sono occupati.
È (o era) destino delle donne quello di aspettare!

C’è un elemento, poi, che unisce inequivocabilmente  le due scene: il paggio che sta avanzando verso di loro. 
Forse sta portando alle due dame come messaggio d’amore qualcuna delle lettere esibite sul verso  del dipinto. E, allora, il paggio rappresenterebbe il legame tra i due mondi,  quello femminile dell’inazione  e dell’attesa e quello maschile dell’attività, lontana dalle mura domestiche.

Tutto chiaro allora ? Non tutto.
I due  dipinti sovrapposti, come dimostra il gancio ancora presente nel dipinto veneziano, costituivano all'origine  l’anta di un armadio o di una finestra.
Dov'è, allora, l’altro sportello che, forse, completava tutta  la rappresentazione?
Perché il corpo del levriero, tenuto a bada da una delle due dame, è tagliato? Forse continuava nello sportello mancante, ma come ? 
E chi è il committente dei dipinti, che ha suggerito al pittore un soggetto così raro e così complesso, in cui sono possibili anche infiniti richiami letterari?

Tante domande, ma, per ora, nessuna risposta certa.
Il giallo è destinato a rimanere irrisolto.





* Tutta la vicenda è  riassunta in un libro  di G. Romanelli, Il mistero delle due dame, Skira  2011




martedì 10 maggio 2011

Carpaccio, due dame, l'attesa: un giallo (1)





Ci sono molti enigmi nella storia dell'arte.
A volte sono veri e propri gialli.





Nel caso delle "Due dame veneziane" l'unico elemento sicuro è l'autore, la cui firma, ormai illeggibile, è in basso a sinistra.
È Vittore Carpaccio (1455/60 - 1525/26): un grande narratore di storie, capace di creare, con uno stile facile e accattivante, dipinti ricchi di dettagli, di elementi esotici e di particolari tratti dalla vita quotidiana.
La data, invece, è incerta, ma, probabilmente, è collocabile  tra il 1496 e il '98.


L'enigma vero sta tutto nel soggetto.
Due donne sedute su una terrazza: una, più vecchia, che gioca con due cani e l'altra che tiene in mano un fazzoletto. 
Nessuna di loro guarda verso lo spettatore, ma tutt'e due sembrano assorte in un loro segreto e indecifrabile pensiero.
Hanno i capelli acconciati con una crocchia alla sommità e riccioli ai lati del viso.
Sono di quel "biondo veneziano", tanto apprezzato all'epoca, che richiedeva la pazienza di interminabili sedute al sole e apposite preparazioni schiarenti.
Anche l'abbigliamento è all'ultima moda: vesti a vita alta, con profonde scollature e maniche staccabili, unite all'abito da una serie di laccetti, che lasciano intravedere fini e bianchissime camicie.
Una delle due donne calza delle eleganti pantofole rivestite di velluto, mentre un paio di zoccoli rossi sono abbandonati a terra. Hanno altissime zeppe: sembrano  i "calcagnini" allora assai diffusi.

Il balcone appare quasi angusto, tanto è affollato: due cani, una pavoncella, un pappagallo e perfino un giovane paggio che si affaccia, a sinistra, dalla balaustra.
Sul parapetto, due tortore, un vaso in ceramica con un fiore troncato all'altezza del gambo, un'arancia e una pianta di mirto.
Le due donne sembrano in attesa, un' attesa lunga, monotona- si direbbe- per la posa oziosa, lo sguardo perso nel vuoto e l'aria trasognata e pigra.
Sono assenti, distaccate: nessuna guarda verso di noi.
In quali pensieri sono assorte ? Che cosa aspettano? Chi sono?

Due cortigiane che, in un ambiente di mollezza e di pigra voluttà, attendono i loro clienti: questa l'interpretazione che, per lungo tempo, ha acceso la fantasia di scrittori e storici dell'arte.
Un'interpretazione suggestiva, forse anche troppo: meglio non fidarsi.
Le due donne, intanto, sono molto eleganti.
Il loro abbigliamento non è da  cortigiane. È, invece, del tipo riservato alle dame di alto rango, secondo le norme sul vestiario emanate dalle autorità veneziane: le perle che ornano le vesti erano destinate solo alle donne "oneste", così come le collane a uno o due fili.

E gli zoccoli ? È vero che erano indossati soprattutto dalle prostitute, ma quelli raffigurati, in realtà, non raggiungono l'altezza vertiginosa dei "calcagnini", calzati dalle cortigiane e che conferivano loro la caratteristica andatura ondulante.
Manca poi l'elemento che, a  Venezia, per legge, era obbligatorio  per esercitare il meretricio: il fazzoletto giallo.

Le cose si chiariscono se si comincia a indagare il significato degli oggetti che affollano il terrazzo. 
Nessuno di loro è posto lì a caso. Tutti hanno un senso.

Nel  vaso in ceramica sul parapetto, per esempio,  è visibile uno stemma nobiliare. Difficile pensarlo esibito in un dipinto, dove fossero effigiate donne di dubbi costumi.
E poi ci sono i tanti simboli d'amore.
Le due tortore sul davanzale alludono all'intimità di un sentimento ricambiato: tubano come due tortorelle, si dice, ancor oggi, degli innamorati. 
Anche la pavoncella era, all'epoca, un simbolo di concordia e di fecondità.
Ma di quale amore di tratta? Di un amore coniugale, parrebbe.

Il grande fazzoletto di un bianco immacolato che la giovane tiene in mano è destinato ad asciugare le lacrime per la lontananza dell'amato e, proprio per il candore del colore, è simbolo di un bonus amor, di un amore legittimo.
Di una donna maritata, si tratterebbe, quindi.
E il matrimonio è richiamato anche dall'arancia, un frutto generalmente donato alle spose (i fiori d'arancio sono tuttora legati alle nozze) e dal mirto, una pianta tradizionalmente riferita a Venere.

Se si prosegue, si trova, addirittura, un'allusione alla Madonna.
Perchè è a Maria che rimanderebbe, secondo la tradizione, il pappagallo: l'uccello che si pensava ripetesse, nel suo verso, la parola "Ave", il saluto dell'angelo al momento dell'annunciazione.
Un simbolo di purezza e di innocenza.


I cani poi- si sa- sono, da sempre, collegati alla fedeltà.

La donna più matura gioca con un cagnolino da compagnia- l'unico che guardi verso lo spettatore - mentre tiene a bada, con un frustino, un più aggressivo levriero.

È possibile che alluda al rigore del suo ruolo di custode della virtù e dell'onestà della giovane sposa, affidata alle sue cure.
E allora?
Allora è chiaro. Non sono cortigiane.

Sono due ricche e virtuose gentildonne, forse madre e figlia, come parrebbe a giudicare dalla somiglianza e dalla differenza d'età.
Due di quelle donne che, senza avere un'occupazione, erano costrette a rimanere a lungo in solitudine, nel loro ambiente domestico, ad attendere il rientro degli uomini, dei padri o dei mariti.
Ei tanti oggetti, a volte anche incongrui, che le circondano, più che rappresentazioni reali, sembrano la proiezione dei loro pensieri più segreti.

Ma qual è il significato della scena?
Nel retro del dipinto appaiono altri elementi: un taglio della tavola e la presenza di un gancio indicano che, all'origine faceva parte di una composizione più grande.
Ma se il dipinto è tagliato, qual è il pezzo mancante ?
E qual è il significato del giovane paggio che  sta entrando nella terrazza ?
E perché il fiore nel vaso appare troncato all'altezza del gambo?
Che stia là la chiave del mistero ?
Troppe domande!
Insomma è davvero un  giallo.
E, come per tutti i gialli che si rispettino, un po' di suspense ci sta bene

(alla prossima puntata)