domenica 27 gennaio 2013

"Apelle ritrae Campaspe" di Giambattista Tiepolo: il pittore innamorato





Una tela di Giambattista Tiepolo (1696-1770), attualmente al museo di Montreal, con "Apelle che ritrae Campaspe". 
Un dipinto, dove si intrecciano storie d'amore, miti dell'antichità classica, il potere della bellezza e dell'arte e- giusto per dare un po' di pepe- anche un pizzico di sensualità.


Il soggetto, tratto dai testi antichi, ha come protagonista, niente di meno che Alessandro Magno. 
Il grande condottiero, era innamorato perso della bella Campaspe, fino al punto di farne la sua favorita. Per avere il suo ritratto aveva scelto il più grande pittore dell'antichità, Apelle. 
Complice la lunghezza delle sedute di posa e la bellezza della donna, l'artista se ne invaghisce e Alessandro, grande anche nella generosità, accetta di cedergliela.

Tiepolo ambienta la storia su un palcoscenico di teatro, ricreando un improbabile studio del pittore, in cui si mescolano elementi del passato e del presente. 
Nel porticato, si erge, tra i soldati armati di lance e di picche, la scultura gigantesca di un Ercole che pare di cartapesta. 

Nella penombra dell'interno, il bruno Alessandro Magno, da consumato attore occhieggia con uno sguardo geloso, mentre un soldato si china a mormorargli chissà che cosa. 
Accanto, in un bagliore di sete, siede, su un comodo cuscino, la bella Campaspe, dal profilo di cammeo. 

Un vivace cagnolino e un servitore nero, spiccano, sul fondo di un colore tra rosso e marrone e danno risalto al grande cavalletto, che domina la scena. 
Lì, pennello alla mano, siede Apelle, intento a dare un ultimo tocco di rosa al seno della bella modella.



In questa messa in scena, però, qualcosa non torna. 
Il volto di Apelle, che si gira con aria fin troppo sbigottita, e il suo abbigliamento, di certo poco consono all'ambientazione classica, danno  l'impressione che il pittore voglia coinvolgerci nel suo gioco, con una strizzatina d'occhio.
Nello spettacolo che ha organizzato da esperto regista, Tiepolo ha scelto di far recitare interpreti inaspettati.
È lui stesso che ha prestato le sue fattezze ad Apelle, abbigliandosi in modo stravagante e scopertamente teatrale, con un giubbone ornato di pelliccia e un bizzarro colbacco. Tra le sete multicolori di Campaspe, invece, ha celato, ma non troppo, la florida bellezza della moglie, Cecilia Guardi. 
Nella storia dipinta sono loro i protagonisti.

Era passato solo qualche anno dall'inizio del loro amore e i più pettegoli ne parlavano ancora. 
Tiepolo, all'epoca ventitreenne, era già un pittore affermato. 
I veneziani conoscevano bene il suo viso espressivo dagli occhi neri e vispi e il grande naso aquilino. Lo vedevano spesso camminare, con la testa tra le nuvole e il passo veloce di chi ha una fretta indiavolata, assorto nel mare di fantasie che covava dentro, in attesa di ricrearle in pittura. 
Talmente piccolo e snello da giustificare l'affettuoso soprannome di Tiepoletto, che gli avevano affibbiato.

Ai più romantici piaceva credere che si fosse innamorato di Cecilia, per il suono della sua voce. 
Di certo l'aveva sentita cantare, quando dipingeva nella chiesa dell’Ospedaletto, uno dei quattro “conservatori” della città, dove Cecilia era stata accolta e dove orfanelle e ragazze povere venivano educate alla musica, sotto la guida di maestri illustri.
Altri sussurravano, invece, che, invaghito del suo visetto spiritoso e dei suoi capelli biondi, non avesse esitato ad abbordarla per strada.

Cecilia era di famiglia povera, anche se il padre, Domenico Guardi, vantava ascendenti di piccola nobiltà di provincia, che, però, gli erano serviti ben poco nella carriera di pittore intrapresa a Venezia insieme ai figli Francesco e Giovanni Antonio.
Aveva appena diciassette anni quando Tiepoletto l’aveva chiesta in moglie, senza che i fratelli (il padre, nel frattempo era morto) facessero obiezioni. 
Di lui si fidavano: era un collega conosciuto, con una bottega ben avviata e delle buone relazioni tra l’aristocrazia, capaci di fruttargli delle ricche commissioni.
A opporsi era stata, invece, la madre di Tiepolo: sosteneva, a gran voce, che, orfano di padre, era troppo giovane per sposarsi e imparentarsi con una famiglia di pittori squattrinati e con pretese di nobiltà.

L'artista, sicuro di sé, non si era perso d'animo e aveva scritto al Patriarcato una lettera di supplica, spiegando che aveva preso “strettissimo impegno di contrarre matrimonio". 
Sapendo che i suoi familiari avrebbero tentato “di fatto e senza fondamento alcuno” di impedirlo “con grave pregiudizio della reputazione e dell’onore" di Cecilia che ne sarebbe stata “gravemente diffamata”, chiedeva che la cerimonia si svolgesse senza pubblicità. Insomma, voleva un matrimonio segreto. 
Nel 1719, zitti zitti, i due si sposarono. 
Inutile dire che la notizia di quelle nozze, officiate di nascosto- forse, proprio per questo- aveva fatto scalpore. 
Tutti sapevano che, a distanza di anni, Tiepoletto era innamorato come il primo giorno.
E ora, sotto la maschera del soggetto classico, ha trovato, ancora una volta, il modo di esaltare la bellezza della moglie e i suoi sentimenti.

Anche se, a guardar bene, si capisce che quello che si celebra nel dipinto è molto di più. 

È l'amore per la pittura e l'ammissione del potere dell'arte, a cui si era inchinato perfino il grande Alessandro.
Per Tiepolo, poi, è soprattutto il riconoscimento del suo valore d'artista, tanto che non ha esitato a sfidare il più grande pittore della classicità e a mescolare leggenda e vicende familiari.

Grazie alla sua inventiva sbrigliata e alla fluidità della sua pennellata e dei suoi colori ha reinterpretato, con brio e ironia, la storia antica.
Come un mago, ha dato vita alle sue fantasie, trasformando Campaspe nella moglie Cecilia  e se stesso nel mitico Apelle. 


E così ci ha catturato  con la sua rete impalpabile di illusioni, trascinandoci con sé nel teatro incantato della sua pittura.





È questo il  dipinto che apre la bella mostra "Giambattista Tiepolo", attualmente in corso a Villa Manin di Passariano (QUI è il link)



martedì 22 gennaio 2013

Joseph Beuys "La vasca da bagno": una pulizia eccessiva





Tutto comincia a Leverkusen, in Germania. La città non è bella, ma è molto ricca: è la sede di una grandissima azienda, la Bayer, che finanzia eventi e mostre. La Bayer è anche il principale sponsor del Castello di Morsbroich, il museo cittadino d'arte contemporanea, un vero fiore all'occhiello che vanta opere dei maggiori artisti del Novecento.

In una giornata d'autunno, l'11 novembre 1973, in una delle sale del museo è in programma un banchetto importante, organizzato dal partito socialdemocratico, a cui partecipano autorità e notabili da tutto il paese.
I tavoli sono apparecchiati, le luci accese, i fiori già disposti nei vasi. 
Tutto sembra pronto, ma, improvvisamente, qualcuno si accorge che le sedie sono troppo poche. 
È una riunione di uomini politici: va da sé che nessuno vorrà rinunciare alla poltrona. Bisogna provvedere o si rischia che tutto vada a rotoli.
In gran fretta, si mandano a chiamare le due donne delle pulizie, perché vadano a cercare le sedie nel magazzino, le puliscano e le portino nella sala.

Le due donne si mettono subito al lavoro e scoprono, tra le sedie impilate, una piccola vasca da bagno smaltata, una di quelle tinozze da neonati che poggiano su quattro piedi. 
Perfetta per tenere in fresco le bottiglie di birra e trasportarle, mano a mano, nella sala del banchetto.



Ma guarda un po' che sudiciume!- pensano- è tutta incerottata e piena di grasso e garze: che schifo!
Per fortuna hanno con sé sacchi della spazzatura e detersivi. 
Basta staccare i cerotti, buttare via lo sporco e strofinare vigorosamente con uno straccio perché la vasca brilli come nuova.
La riempiono di cubetti di ghiaccio ed è fatta.
Durante il banchetto, la birra, tenuta in fresco, va giù che è un piacere e la riunione fila liscia come l’olio. 
Qualcuno, forse, avrà ringraziato le donne delle pulizie per la bella pensata.

Qualche mese dopo, a Monaco, un ricco collezionista, Lothar Schimmer, sta aprendo le casse con le opere del suo artista preferito, Joseph Beuys (1921-1986). 
Sono appena rientrate dopo che le aveva prestate a una importantissima mostra, "Realität- realismus- Realität" che, prima di arrivare a Leverkusen, aveva girato in vari musei tedeschi. 
In una delle casse c'è il pezzo a cui tiene di più, un capolavoro che era riuscito fortunosamente ad acquistare qualche anno prima.
L'apre con un po' di trepidazione e, non appena toglie l'imballaggio, rimane esterrefatto.
Non crede ai suoi occhi, è come un incubo: la piccola vasca-scultura, che ammirava tanto, è vuota e, per di più, completamente ripulita. 
Le donne delle pulizie hanno lavorato benissimo. Lo smalto è di un candore abbagliante e dell’intervento di Beuys non c’è più traccia.

Fosse stata una tela, una scultura in pietra o in marmo, le due donne non l’avrebbero toccata. Fosse stata in una vetrina, magari con una didascalia, l'avrebbero guardata con rispetto.
Ma che quella vasca incerottata, lasciata in un magazzino, fosse un capolavoro non gli era proprio venuto in mente.

Certo che Beuys non era un artista facile da capire.
Lui stesso- l’aveva dichiarato più volte- non voleva dare messaggi semplici, ma coinvolgere lo spettatore nell'interpretazione delle sue opere, suscitando emozioni e riflessioni.
Tutto il suo percorso era nato sotto il segno di un rapporto tanto sacro e misterioso con la natura da valergli la denominazione di "sciamano". 
All'interno di questo cammino quasi iniziatico, intende creare un’arte totale che rispecchi il suo itinerario spirituale e che includa episodi del suo passato. 
Più che pezzi a se stanti le sue opere sono una sequenza di “azioni artistiche”, in cui arte e vita si fondono e per cui usa materiali inediti come il grasso, il sangue o la terra.

La sua “Badwanne, vasca da bagno” del 1960 rievocava un evento fondamentale della sua biografia: nel corso della guerra,  dopo l’abbattimento del suo aereo in Crimea, era stato curato dai Tartari, che lo avevano salvato dal congelamento ungendolo di grasso animale, tenendolo avvolto in strati di coperte di feltro e curando le sue ferite con garze e cerotti. 
Il materiale che aveva posto nella vasca ricordava questa esperienza di dolore e di guarigione, destinata a segnare per sempre la sua arte. (QUI è l'interpretazione che Beuys stesso dà della sua opera)

Dopo essere stata il pezzo forte dell’esposizione e aver suscitato i commenti stupiti degli spettatori e quelli entusiasti dei critici, la vasca era finita, inspiegabilmente, nel magazzino, insieme alle sedie del Museo. 
Per le due donne delle pulizie, che nulla sapevano di teorie artistiche e cammini iniziatici, il contenitore di tutte la sofferenza e dei ricordi di Beuys era parso buono solo per rinfrescare la birra. 
Il grasso e le garze, poi, erano sembrati, letteralmente, spazzatura. Che fare, allora, se non pulirla?

Joseph Beuys si rifiutò di reintervenire di nuovo sulla vasca e di ricreare la sua opera: per lui sarebbe stato “falsificare se stesso”. 
Dopo un lungo processo il collezionista venne risarcito con 80.000 marchi e il museo dovette pagare una penale.

Delle donne delle pulizie non si seppe più niente. 
Forse continuarono a non capire le concezioni artistiche di Beuys, ma si può essere sicuri che, da allora in poi, stettero più attente a non buttare via un'opera d'arte insieme all'acqua sporca.






sabato 12 gennaio 2013

L'elefante di Carlo Magno





Ci sono giorni pesanti, in cui si ha bisogno, di una storia che porti lontano dai pensieri. 
Cosa c'è di meglio, allora, di un racconto capace di evocare l'Europa di più di mille anni fa, tra imperatori e califfi d'Oriente.

Tutto nasce, come al solito, da un'immagine, un affresco dell'XI secolo, proveniente da una chiesa nel nord della Spagna e ora al museo del Prado.


Su un fondo rosso vivo, spicca un animale che sembrerebbe arrivare dritto dritto dal mondo della fantasia: un elefante bianco, dalle orecchie molto piccole e senza zanne, che porta sul dorso, al posto della tradizionale torre usata in battaglia, un vero e proprio castello con tanto di cupole.
Secondo la tradizione, raffigurerebbe niente di meno che l'elefante di Carlo Magno. 
Ed è proprio lui il protagonista della storia.

Siamo nel 797 e re Carlo è al culmine del potere: ha più di cinquant'anni, una bella età, considerata la media del tempo, è un uomo alto, robusto e di buona compagnia. Non è un letterato, ma ama la cultura e sa circondarsi delle menti più brillanti dell'epoca. Soprattutto è un guerriero che conduce una vita frugale, non ama il fasto o le belle vesti e ai ricchi banchetti preferisce la caccia e il nuoto. 
È abituato a viaggiare e a spostare la sua corte secondo le necessità.

Ad Aquisgrana, la sua residenza preferita, tra le foreste fitte del nord, si è fatto costruire un enorme palazzo e un grande serraglio di animali esotici. 
Non è certo una frivolezza: per un sovrano gli animali rappresentano il segno tangibile del potere e i simboli viventi delle sue virtù.
Lì sono custoditi orsi, leoni e pantere, l'emblema della sua forza.  
Manca, però, un animale capace di incarnare le qualità regali della saggezza e della moderazione e di rievocare il prestigio degli imperatori romani o delle corti fastose di Bisanzio e d'Oriente: manca l'elefante.

Su questo straordinario animale, mai più visto dall'antichità, circolano innumerevoli leggende. 
Si dice che, esente dal peccato originale, abbia soggiornato, con Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden e che sia di una castità esemplare, tanto che solo il frutto della mandragola può risvegliare l'istinto del maschio. La sua forza sembra non avere rivali, la sua benignità pare provata dal fatto che sia privo di fiele, la sua temperanza dalla consuetudine di consumare sempre la stessa quantità di cibo. L'abitudine della femmina di partorire in acqua ne fa, poi, il simbolo cristiano del battesimo.
Insomma, è proprio quello che ci vorrebbe per completare il serraglio di un re.

Trovare un elefante non è certo facile, ma il buon re Carlo non è tipo da perdersi d'animo.
L'occasione è l'invio dei suoi ambasciatori nella città più grande e prospera del mondo conosciuto, Badgad. 
Là regna il leggendario califfo Harun al Rashid, dispotico e magnifico, generoso e crudele: i viaggiatori ospitati nel suo palazzo raccontano meraviglie sul fasto e il lusso della sua corte.
È, senza dubbio, l'unico in grado di offrire un simile dono.
Il califfo, che cerca un alleato contro Bisanzio, colma gli ambasciatori di regali: tappeti, tessuti, gemme, avori, un orologio a acqua, scimmie, leopardi e, finalmente, il più atteso di tutti, un elefante, a cui ha dato il nome di Abul Abbas.


Si tratta ora di trasferire l'elefante ad Aquisgrana e l'impresa non è di poco conto. I paesi da attraversare sono molti e il percorso, da fare con un animale ingombrante e delicato, è lungo. 
Gli ambasciatori, comunque, possono contare su una guida d'eccezione: il mercante ebreo Isacco, noto per conoscere tutte le lingue e i sentieri del mediterraneo.
C'è da immaginarselo quel piccolo gruppo, una specie di "armata Brancaleone", che avanza, a passo d'uomo, passando per terre spopolate, dal caldo torrido del deserto ai rigori dell'inverno e con l'elefante sempre dietro.
E c'è da immaginarsi anche l'effetto doveva fare quello strano animale a gente che non lo aveva mai visto, quasi fosse il mostro di un bizzarro "bestiario" improvvisamente incarnato.


Quattro anni ci vollero per percorrere tutto l'itinerario, da Bagdad ad Aquisgrana, toccando Gerusalemme e costeggiando le coste del Mediterraneo, per poi imbarcarsi, fino ad arrivare a Portovenere. 
Quattro anni e, nel frattempo, la storia d'Europa era cambiata: quando la strana comitiva arriva in Italia Carlo è stato incoronato a Roma, nella notte di Natale dell'800, Imperatore del Sacro romano Impero. 
È ormai il signore dell'Occidente, ma all'elefante non ci rinuncia. Anzi. 
Ora più che mai ha bisogno di un simbolo vivente del suo potere.

Decide di fargli passare l'inverno a Vercelli, insieme all'unico dei suoi stremati accompagnatori sopravvissuto agli strapazzi del viaggio, il mercante Isacco, per poi varcare le Alpi a primavera e raggiungere, il primo luglio 802, la residenza imperiale di Aquisgrana.
Qui, finalmente il povero Abul Abbas potrà godersi un meritato riposo. 
Si dice che Carlo Magno lo curi personalmente; quello che è certo è che lo esibisce, di tanto in tanto, agli ospiti più illustri e che non esita a servirsene nella guerra contro i Danesi per terrorizzare l'esercito nemico.
Dopo otto anni di celebrità e di riconoscimenti, l'elefante muore nell'810 poco gloriosamente, di polmonite, dopo essersi bagnato nelle acque gelide di un fiume. 
Aveva appena una quarantina d'anni

Quello che lascia è il ricordo dello scambio di cortesie tra due sovrani leggendari, lo stupore per il suo lungo viaggio, dai giardini profumati di gelsomino del palazzo del Califfo alla spartana corte dell'imperatore Carlo e una storia vera che ha tutta l'aria di una favola.




La seconda e la terza immagine sono tratte dall'albo, Abul Abbas Elefante imperiale, pubblicato nel 2009 da Lapis, con il testo di Teresa Buongiorno e le illustrazioni di Gianni De Conno.

venerdì 4 gennaio 2013

Il ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: gennaio




È l’inizio dell’anno e, inevitabilmente, è il periodo dei bilanci, degli oroscopi e dei calendari. Anche quest’anno, vorrei proporne uno e iniziare il 2013, "staccando" il primo foglio.
Come per le "Très riches heures du Duc de Berry" dell'anno scorso (qui è il link), anche per questo calendario occorre immaginare un viaggio a ritroso nel tempo, fino ai primi del Quattrocento, per scoprirvi, insieme al passaggio delle stagioni, la vita quotidiana di signori e contadini di sei secoli fa.
Questa volta, però, non si tratta di andare fino in Francia a sfogliare un prezioso manoscritto miniato. Basta fermarsi a Trento per trovare i grandi affreschi del ciclo dei Mesi della sala della Torre Aquila nel Castello del Buonconsiglio.
La prima immagine è quella di Gennaio.


In alto, la posizione del sole e l’iscrizione indicano il segno astrologico del mese: l’Acquario. 
Nella scena sottostante la vera protagonista è la neve dell’inverno.
Su uno sfondo completamente imbiancato, si erge un castello, identificato con quello trentino di Stenico, con il suo ponte levatoio abbassato su un ruscello gelato.
In primo piano, due gruppi di aristocratici, abbigliati con eleganza- le donne con lunghi capelli biondi e gli uomini con la corta barba allora di moda- hanno lasciato il tepore dell'interno per dedicarsi al più tradizionale degli svaghi: la battaglia a palle di neve.
Indossano comodi e morbidi abiti di lana che li proteggono dai rigori del gelo, senza rinunciare, però, agli ampi scolli, o ai lunghi mantelli foderati di pelliccia alla moda del tempo.
In secondo piano, due cacciatori avanzano a fatica nella neve morbida, che arriva fin a mezza gamba, tenendo ciascuno due cani al guinzaglio.
Due volpi, dai manti rossicci, si nascondono tra gli alberi e i bassi cespugli, che spiccano sul terreno candido, col loro colore verde scuro, mentre un tasso cerca rifugio nella sua tana.

Castelli, giovani eleganti che si divertono, il bianco dell'inverno: gli elementi di una scena da fiaba ci sono tutti, così come voleva il gusto dell'epoca. 

Anche se la corte di Trento non era paragonabile con quella del Duca di Berry, modello inarrivabile di fasto e di magnificenza per l'intera Europa, era pur sempre la capitale di un feudo dell’Impero. La sua posizione geografica, poi, ne faceva un punto di passaggio fondamentale tra Nord e Sud, tra la Germania e l’Italia.
Il committente degli affreschi, il principe-vescovo Giorgio di Liechtenstein, discendente da una ricchissima famiglia aristocratica con possedimenti in Austria e in Moravia,  era arrivato nel 1391, da Vienna, dove aveva esercitato la più alta carica religiosa della città come prevosto della cattedrale di Santo Stefano.
A Trento non rinuncia alla sue abitudini da gran signore e, per avere una dimora all'altezza delle sue aspettative, rifiuta di stabilirsi nel castello, tradizionale sede dei vescovi. Con un colpo di mano si impossessa, invece, di un edificio pubblico: la torre della porta meridionale della città, detta Aquila dal nome dell'antica città di Aquileia, verso cui era rivolta.
Suscitando il malcontento di tutti decide di farne la sua abitazione, sopraelevandola e unendola al castello con un passaggio coperto: lì deposita tutti i suoi tesori, i tessuti, i gioielli e i manoscritti preziosi della sua collezione.
Non gli basta.
Per avere una sala di rappresentanza adeguata alle sue ambizioni fa decorare un'ampia stanza ricavata al secondo piano con una serie di affreschi e sceglie un soggetto fin ad allora mai dipinto in superfici di grandi dimensioni: il ciclo dei mesi rappresentati con scene di vita della corte e della campagna.
Senza dubbio gli pare un tema adatto a dimostrare ai visitatori la ricchezza dei suoi possedimenti e gli effetti del suo buon governo.

Per l’esecuzione, si rivolge a un pittore straniero, probabilmente uno di quelli che si guadagnavano la vita passando di corte in corte. Un artista ben aggiornato sulle ultime tendenze della pittura europea, forse da identificare con un "maestro Venceslao", proveniente dalla Boemia e documentato a Trento nel 1397.
Ne verrà fuori un capolavoro.


Gli undici riquadri dei mesi- il mese di marzo, dipinto sulla parete di legno, su cui appoggiava una scala a chiocciola, è andato perduto in un incendio- sono divisi da esili colonnine dipinte che non interrompono la continuità delle scene e danno l’illusione di una loggia aperta su tutt'e quattro i lati.
Chi guarda ha l’impressione di essere circondato da un paesaggio che muta e si trasforma col trascorrere dell'anno.
In tutti i mesi la vita degli aristocratici e quella dei contadini è raffigurata fianco a fianco: gli svaghi degli uni e le occupazioni degli altri variano col variare della stagione.

Nel mese di gennaio il tono è quello tipico della pittura gotica cortese, attenta a trasfigurare i dettagli del quotidiano nell'incanto di una fiaba senza tempo.
Nessun senso dello spazio o della profondità, ma un’estrema precisione nei particolari, come l’architettura del castello, dove si possono, addirittura, riconoscere le diverse fasi della costruzione, o le nuvole di un colore azzurro-ghiaccio che increspano il blu compatto del cielo.

Quella che domina è una vena così narrativa  da ricordare l'atmosfera giocosa dei versi di un poeta come Folgore da San Gimignano che, qualche anno prima, aveva descritto così gli svaghi del mese più freddo dell’inverno.


"Uscir di fora alcuna volta al giorno,
gittando della neve bella e bianca
alle donzelle che staran da torno
e, quando fosse la compagnia stanca,
alla corte facciasi ritorno
e si riposi la brigata franca".