lunedì 22 aprile 2013

Robert Louis Stevenson, Tusitala, il narratore di storie





Nel 1994 Hugo Pratt decide di fare un lungo viaggio nel Pacifico: uno dei suoi desideri è quello di rendere omaggio alla tomba di Robert Louis Stevenson, lo scrittore che ama da sempre e verso cui sente di avere un debito di gratitudine.  


I suoi racconti, la sua fantasia e il suo desiderio di avventura gli hanno ispirato molti dei suoi romanzi a fumetti e hanno contribuito a dare vita a un personaggio come Corto Maltese. 
Per questo si ferma a Upolou nelle isole Samoa. 

Stevenson è uno scrittore già famoso, quando, nel 1890, si è trasferito là con la moglie e i due figli di lei per sfuggire alla tisi che lo sta divorando. 
A Samoa il clima caldo è l'ideale per la sua salute, mentre i collegamenti settimanali con l'Australia, gli consentono di mantenere le relazioni con i suoi editori e con gli amici. 
È sicuro che là si troverà bene, tanto che ha acquistato una vasta tenuta a Vailima, sulle colline di Apia, la piccola capitale dell'isola e vi ha costruito una grande casa bianca. 
Scrive a un tavolo del salotto, dove ha fatto costruire un grande cammino, l'unica traccia della nostalgia che ancora nutre per la sua gelida Scozia. 

Con gli isolani ha stabilito, da subito, una grande intesa: subisce il fascino delle loro usanze e ne ha un profondo rispetto. 


Lo si vede spesso, esile, con gli occhi vivaci e i baffi ben curati, percorrere a cavallo l'isola, vestito di bianco e con gli immancabili stivali ai piedi, sempre pronto a fermarsi per un saluto. 
Si sa che è particolarmente attento a tutelare i diritti dei Samoani e che approfitta della sua fama per inviare in Europa frequenti missive per informare l'opinione pubblica e proteggere la popolazione dalle mire delle potenze occidentali. 
A Samoa tutti gli sono grati: lo hanno soprannominato, con affetto, Tusitala, il narratore di storie. Non si sa come, ma suoi racconti sono arrivati ad affascinare anche loro. 

Quel 3 dicembre del 1894 non sembra un giorno diverso dagli altri. 
Stevenson ha appena finito un capitolo del libro che sta scrivendo, il "Weir di Hermiston", quando si accascia su una poltrona per un malore che pare, da subito, molto grave. Le cure del medico sono inutili. 
Muore a quarantaquattro anni nella casa che tanto ama e, con intorno, tutti i suoi familiari. 
Da tempo ha espresso il desiderio di essere sepolto sulla cima del monte Vaea, il luogo sacro che domina l'isola e che si può vedere dalla finestra della sua biblioteca. Arrivare fin lassù, però, sembra impossibile: non c'è nessun sentiero e le pareti sono troppo scoscese. 
I familiari non sanno come fare, ma ecco che qualcosa di imprevedibile succede. 

Non appena la notizia della morte di Stevenson si sparge cominciano ad arrivare a Vailima non solo le autorità e gli amici, ma- prima lentamente e poi sempre più numerosi- i capi dell'isola e i loro guerrieri, fino a formare una vera e propria folla. Qualcuno ne conta addirittura quattrocento. 
Lo vegliano, cantando antichi canti e pronunciando, nella loro lingua lenta e cadenzata, le tradizionali frasi dell'addio. Hanno portato con sé quello che hanno di più prezioso, gli "ie tonga", i tappeti di stuoie intrecciate, di cui si servono per le cerimonie sacre e che rappresentano, per loro, ricchezza e posizione sociale. Con quelli ricoprono la bara.
Sono venuti tutti per il loro Tusitala e sono disposti a scalare il monte Vaea. L'impresa non è facile: il caldo è soffocante, le rocce sono scivolose per la pioggia. La vegetazione fitta e i tronchi degli alberi caduti ostacolano il cammino. 
Durante tutta la notte, al lume delle torce, riescono ad aprire un primo ripidissimo sentiero: il giorno dopo, si fanno faticosamente strada verso la cima, a tappe forzate, portando a turno, a spalle, la pesante bara di legno, cadendo e rialzandosi più volte, ma sempre proseguendo con ostinazione. 
Li segue il corteo dei familiari e degli amici. 


Quando arrivano sulla vetta, in uno spiazzo da cui si intravede il mare, circondato da precipizi e da cascate, calano nella terra il feretro cosparso di fiori. 
Sudati, stanchi e silenziosi quei guerrieri seminudi e coperti di strani tatuaggi, hanno offerto  a Tusitala il più commovente degli omaggi. In quell'isola sperduta, quelli che più d'uno chiama, con una punta di disprezzo, i selvaggi, hanno reso l'onore più grande alla fantasia e al genio di uno scrittore. 




Più tardi, la tomba sarà coperta da una lapide con i versi che Stevenson stesso aveva indicato: "Egli riposa qui, dove desiderava riposare. 
Dal mare è tornato a casa il marinaio. Dalle colline è tornato il cacciatore"


Quando Hugo Pratt arriva a Upolou il sentiero che conduce alla tomba è del tutto ricoperto dalla vegetazione. "Ho dovuto scalare tronchi enormi, cadere nel fango, ma non ci sono riuscito: racconta. 
La tomba di Stevenson l'ho vista dall'alto, da un elicottero neozelandese che mi ci ha fatto volare sopra. È un appuntamento che mi è rimasto nel cuore perché sono sicuro che lassù il profumo del mare è più intenso, i colori sono più vivi, la realtà è più netta e la fantasia è più vicina".



Hugo Pratt racconta la storia di Stevenson e di Samoa nel suo bel libro "Avevo un appuntamento" Edizioni Socrates 1994. 



domenica 14 aprile 2013

Achille Campanile e il mappamomdo ovvero Impara l'arte (3)





Per cercare di non smentire quella che qualcuno definisce "la vocazione didattica del blog", mi piace, di tanto in tanto, offrire qualche aiuto per superare le insidie nascoste nel terreno infido dell'arte.
Grazie a un racconto di uno dei miei scrittori preferiti, Achille Campanile, ho scoperto e subito divulgato QUI il metodo del "crescendo elogiativo", utilissimo per affrontare, con una certa sicurezza, la visita allo studio di un pittore.
Per chi, invece, decidesse di entrare in un museo o una galleria d’arte contemporanea, il "generatore automatico di critica d’arte", che ho fornito QUI, si rivelerà uno strumento indispensabile per non restare mai senza parole.

È arrivato ora il momento di inoltrarsi in un territorio completamente diverso, ma altrettanto accidentato: quello dell'antiquariato. 
C'è sempre chi sogna di arredare la casa con mobili d'epoca, di riconoscere a colpo sicuro una poltroncina Luigi XIV da una Luigi XV o di datare, senza esitare, un tavolo o una credenza. 
Mobili, tappeti, soprammobili, lampadari...: le cose da sapere sono tante e le trappole continue.
Ma, anche in questo caso, c'è Achille Campanile a farci da guida.

È vero che il racconto che ho trascritto non insegnerà a districarsi nell'infinito mondo degli stili. Sarà, però, fondamentale per chi voglia addentrarsi in un settore particolare, ma non privo di amatori, come quello degli antichi mappamondi. 
Qualche tempo fa era frequente vederli troneggiare in vetrine di antiquari o di rigattieri accanto all'immancabile tavolo fratino e alla severa sedia Savonarola. Oggi meno diffusi li si ritrova, comunque, in aste o siti di vendita online, senza che abbiano perso nulla della loro malinconica dignità.
Se capiterà di fare qualche incauto acquisto e di portarsi a casa un globo terracqueo dalla datazione quanto meno sospetta, grazie all'esempio di Campanile, ne potremmo sempre uscire a testa alta e con pizzico di ironica signorilità.



Il primo nostro acquisto fu un mappamondo; da tempo avevo accennato a un mio vago desiderio di possederne uno, ma non mi riusciva di trovarlo. 
D’estate andammo al mare in una cittadina romagnola, dove, in un negozio d’antiquario, ne scoprimmo uno grossissimo.
Bene- dissi- si vede che in questa terra di castelli malatestiani, fra cui quello dove la leggenda colloca l’uccisione di Francesca da Rimini, si può ancora trovare qualche suppellettile antica che nelle metropoli non si trova”…
Il ritorno in città fu trionfale con la sfera di circa un metro di diametro pericolosamente issata sul tetto dell’automobile. E a Milano suscitammo ammirazione e invidia in tutti i visitatori, a cui mostravamo con orgoglio il raro pezzo, spiegando che molto probabilmente proveniva dal castello di Francesca.

Figurarsi la nostra sorpresa, quando ci accorgemmo che inesplicabilmente le vetrine milanesi cominciavano a riempirsi di mappamondi identici al nostro. 
E non soltanto vetrine d’antichità, ma anche di mode, di viaggi, di libri, di qualsiasi merce che potesse giustificare la presenza di un globo terracqueo antiquato…
Bisognava pensare che, durante la nostra assenza estiva, fosse accaduto uno straordinario rinvenimento di tali pregevoli oggetti; che addirittura fosse stato scoperto un vasto giacimento di mappamondi antichi.
La cosa straordinaria, oltre al perfetto stato di conservazione, era che questi mappamondi, per la maggior parte, erano identici al nostro... Bisognava pensare che, nei secoli scorsi, in ogni abitazione, anche la più povera, ci fossero almeno due o tre grossi mappamondi. Due o tre per stanza, beninteso...
C'è da pensare che a quell'epoca tutti fossero navigatori e scopritori di mondi.
Una cosa, poi, che addirittura rivestiva i caratteri del prodigioso, era che cominciarono ad apparire in vendita antichi mappamondi apribili, a mo’ di cocomeri spaccati, nel cui interno era sistemato un bar completo di bottiglie, bicchieri ecc…
Di fronte a una tale improvvisa inflazione…fu giocoforza rinunciare alla provenienza dal castello di Gradara e mi sentivo un po’ imbarazzato quando mi si domandava “Autentico?” non volendo io, né ammettere di aver ricevuto un’impiombatura, né sostenere troppo sfacciatamente una data d’origine….

Mi tolse dall'imbarazzo un amico che, alla domanda “Autentico?” relativa a un suo mappamondo del tutto identico al nostro, mostrò di non dar peso alla cosa.
Alzò le spalle. “Mah- disse con noncuranza- è in casa nostra da che ero bambino”.
Adottai subito la risposta..
Ma, invece che “in casa nostra da che ero bambino” dissi “in casa di mio nonno, da che era bambino suo nonno”.
Una piccola modifica, ma è una pennellatina che non guasta.”






A. Campanile, da 'Il trumeau', in “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima
Il particolare col bellissimo mappamondo è tratto dal "Ritratto di astronomo" di Jan Vermeer.



martedì 9 aprile 2013

La "Fuga in Egitto" di Adam Elsheimer: la silenziosa luna





"Che fai tu, luna in ciel/ dimmi che fai/silenziosa luna? Sorgi la sera e vai/ contemplando i deserti,/ indi ti posi..." (G.Leopardi, Canto notturno di un paese errante nell'Asia)



La luce argentea  di un cielo illuminato dal plenilunio  domina la scena della "Fuga in Egitto" di Adam Elsheimer (1578-1610), un piccolo dipinto su rame firmato e datato 1609, attualmente conservato alla Alte Pinakotek di Monaco.

La storia è quella raccontata dai Vangeli: per salvare il Bambino, San Giuseppe e la Madonna, avvertiti da un angelo, fuggono verso l'Egitto. 
Avanzano, di notte, avvolti nel silenzio e nell'oscurità, mentre San Giuseppe con una torcia  illumina il cammino
Protetti e accompagnati dal chiarore della luna e dalla luminosità intensa delle stelle, piccole come capocchie di spilli, costeggiando una fitta foresta. 
Davanti a loro, alcuni pastori hanno acceso il fuoco di un bivacco: le faville si levano verso l'alto e rischiarano, con i loro minuscoli bagliori, il buio del bosco. 
La scena sacra si dissolve nell'ampio paesaggio, sovrastato dal cielo stellato e dal candore della luna che si riflette nello specchio di uno stagno.



Il formato ridotto (appena 31x41 cm) non deve ingannare: Elsheimer ci consegna con questo suo ultimo dipinto (morirà l'anno successivo ad appena trentadue anni) un piccolo miracolo. Un capolavoro che sarà fondamentale per lo sviluppo della pittura di paesaggio, che, ai primi del Seicento, si evolve da sfondo di storie mitologiche o sacre a genere a se stante. 
Qui, in effetti, la storia e  i suoi  personaggi quasi si perdono nell'ampiezza dell’ambientazione notturna. 
È il cielo ad occupare gran parte della composizione. E non è un cielo irreale o astratto. 

Per la prima volta la via Lattea appare raffigurata non come una nebbia argentata, ma come un insieme di miriadi di stelle. 
L’attenzione, con cui Elsheimer rappresenta le costellazioni come l’Orsa minore o l’ammasso delle Pleiadi, è tale da far supporre che potesse conoscere  le rivoluzionarie ricerche di Galileo, che, proprio nell'anno del dipinto, presentava ufficialmente all'Università di Padova l’invenzione del suo cannocchiale.  
Qualche studioso  ha, addirittura, cercato di stabilire, usando le mappe storiche del cielo, quale fosse la notte raffigurata tra  il 21 marzo o il 19 aprile del 1609.
Ma un riscontro preciso non c'è.
In realtà, a guardare bene, la rappresentazione delle stelle non è del tutto esatta e chi l’ha analizzata dal punto di vista scientifico, ha scoperto più di un'incongruenza.

È che Elsheimer non è né un astronomo, né uno scienziato, ma un pittore che sa trasformare in colori e immagini tutto quello che vede.
Quando esegue il quadro ha dietro di sé una vita di inquietudini: è uno di quegli artisti "nati sotto Saturno", il pianeta simbolo dell''"umor nero" e la malinconia ha accompagnato tutta la sua esistenza. 
Era partito dalla Germania poco più che ventenne, lasciando la sicurezza di una piccola bottega artigiana (il padre era un sarto) per cercare fortuna a Roma, la città che già aveva attirato pittori come Caravaggio e Annibale Carracci.  
Arrivato nella capitale, dopo un lungo viaggio e una sosta a Venezia, si è convertito al cattolicesimo ed è riuscito a inserirsi nella turbolenta e rumorosa colonia dei pittori stranieri. Lí ha saputo conquistare, lui così silenzioso e riservato, l’ammirazione e l’affetto di un artista esuberante come Rubens. 

La sua inclinazione all'isolamento, si è aggravata, a detta dei maligni, dopo il matrimonio e dopo l’infelice tentativo di entrare in affari, vendendo lui stesso i suoi dipinti e le sue incisioni. Finanziariamente è stato un disastro: le malversazioni del suo socio hanno finito per condurlo alla prigione per debiti. Le difficoltà della vita si sono fatte sempre più forti.
Da allora lo si vede spesso, solitario e appartato, camminare per le vie della città, assorto in se stesso, senza parlare con nessuno. Per giorni e giorni vaga per la campagna, imprimendosi nella memoria ogni dettaglio del paesaggio per riproporlo, poi, nei suoi piccoli dipinti. 
Solo la natura sembra placarlo. 
La sua acuta sensibilità e il suo disagio di vivere lo portano a rifugiarsi nell'osservazione del cielo delle tepide notti romane, cercando, in quella contemplazione, tranquillità e pace.
Tutte le  sensazioni che prova le  sa rendere a pieno in questo straordinario paesaggio, che è, insieme, classico e romantico, idealizzato e scientifico.
L'ammirazione commossa e riverente per la natura si mescola all'attenzione per le novità degli studi astronomici, appena divulgati. 

Mettere insieme scienza e arte non è facile, ma Elsheimer riesce a trovare un equilibrio perfetto, unificando tutto in un'atmosfera sospesa di poesia.   
Il cielo, illuminato dalla luce misteriosa delle stelle e la luna piena che raddoppia il suo chiarore, specchiandosi nelle acque calme dello stagno, compongono una sorta di elegia sulla magia e il fascino silenzioso della natura.   
Ci sono quadri che, come i libri di cui parla Kafka, hanno la forza di "un'ascia che spezza il mare ghiacciato che è dentro di noi" e quadri come questo, che, invece, sanno commuovere con la delicatezza e la  discrezione di una carezza nella luce candida e incantata della luna.






Come sempre quando parlo della luna è inevitabile il ricordo dell'omaggio più bello che la musica e  il canto abbiano mai reso alla "casta diva"

giovedì 4 aprile 2013

Il Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento: aprile





Il proverbio "Aprile dolce dormire" di sicuro non s'addice alla quarta scena del calendario del Ciclo dei mesi di Torre Aquila a Trento. 
Qui, sotto il grande sole di Aprile, non si dorme, né si sta in ozio, ma è tutto un fervore di attività. 


Il committente della serie di affreschi, il principe-vescovo Giorgio di Liechtenstein, vuol dare l'idea che i suoi territori prosperino grazie agli effetti del suo buon governo. Il pittore, Maestro Venceslao, l'ha capito benissimo e gli organizza una sorta di grande dépliant pubblicitario, con un Mese di sfolgorante primavera affollato di contadini ben vestiti che, in una scenografia verdeggiante, assolvono con serenità ai compiti assegnati. 

In questo tranquillo palcoscenico non c'è più spazio per il grigio: la neve dell’inverno è definitivamente scomparsa. 
Sullo sfondo, tra grandi rocce che affiorano dal terreno, domina il verde tenero delle foglie appena spuntate sugli alberi e nei cespugli, quello scuro dei boschi e quello più chiaro dell'erba dei prati. 
La campagna è fertile e ordinata: i campi sono ben suddivisi e protetti, come gli orti coltivati, da tralicci di salice intrecciato. 
Tutto è rappresentato con una tale precisione da dare l’impressione della pagina di un trattato medioevale che illustri le più comuni attività agricole del mese.

In alto, una fitta foresta di abeti offre rifugio a uno di quegli orsi che all'epoca popolavano numerosi le Alpi. 
Più in basso, un pellegrino, interamente vestito di bianco con tanto di cappello e di bastone, si concede una sosta davanti a un villaggio con le case dai tetti di paglia disposte intorno a una piccola chiesa. In una delle vie sonnecchia un cane.

In un campo recintato e già arato un contadino semina, mentre un altro lavora la terra con un erpice trainato da un cavallo. 

Al di là della palizzata, due uomini provenienti da un mulino, trasportano, probabilmente,  sacchi di farina su un carro condotto da buoi.







In basso, in primo piano, altri due contadini arano la terra con un pesante aratro a ruote, tirato da una coppia di buoi e da un cavallo.
Anche le donne partecipano al fervore delle attività primaverili e approfittano della bella stagione per curare le piante di un orto recintato, al confine di un piccolo bosco dove, tra funghi smisurati, un cane insegue una lepre.

In questo quadro idilliaco non poteva mancare la presenza di giovani aristocratici intenti ai loro svaghi 

Ed ecco, sul limitare della scena, due eleganti dame, che si dirigono verso il festoso corteo raffigurato nel successivo mese di maggio. 
Anzi, una delle due con la manica e un lembo dell’abito verde, oltrepassa la sottile cornice che dovrebbe delimitare i due mesi.
Una scena  continua nell'altra senza interruzioni, così come è ininterrotto il succedersi delle stagioni e del tempo.

Nella vita reale il principe-vescovo doveva fare i conti con le rivolte contadine delle valli intorno a Trento, con la miseria, i saccheggi e la ferocia delle repressioni. 
Nelle pareti della sua sala di rappresentanza poteva illudersi  sulla sua capacità di governare senza crudezza e immaginare, insieme ai suoi ospiti, un paesaggio rischiarato dal sole con i lavori agricoli che si intrecciano armonicamente ai divertimenti dei nobili. 
Poteva far scorrere davanti ai suoi occhi le immagini di un piccolo mondo perfetto e di una campagna opulenta e fiorita, fino a trasformare il chiuso di una stanza nella visione di un sogno.