lunedì 26 settembre 2011

Constable: l'innamorato delle nuvole




"Leonardo da Vinci vedeva alberi, paesi, battaglie e altre immagini nelle macchie che trovava nei vecchi muri. Shakespeare vedeva draghi e altri animali nelle forme delle nuvole. Bernardone non vede niente altro che nuvole nelle nuvole e macchie nelle macchie.
(Bruno Munari, Arte come mestiere)





In questi giorni, per me, le nuvole transitano spesso.
Le innumerevoli nuvole vere del  cielo sopra Bruxelles,  autunnale e sontuoso, che passa continuamente dal sereno al grigio dorato, e le nuvole dipinte negli schizzi di John Constable (1776-1837), che ho scoperto grazie a un amico e che ho ritrovato esposte in una mostra (qui è il link).






Sono più di un centinaio e sparsi tra vari musei  gli schizzi delle nuvole che attraversavano il cielo inglese, tra il 1821 e il 1834, tra Hampstead Heath e Brighton;  sono le nuvole che John Constable inseguiva e dipingeva, andando a giro per sentieri e per spiagge solitarie, naso in aria e taccuino di disegni alla mano.

Ha più di quarant'anni, allora, Constable e, da tempo, si è dedicato alla pittura.
Da giovane, ancor prima di iniziare la sua formazione accademica, percorrendo la campagna, si è abituato a riconoscere la bellezza nei più minuti particolari del paesaggio.
E quella bellezza l'ha voluta restituire nei suoi dipinti.

La sua fonte d'ispirazione è la natura e della natura vuole osservare e comprendere tutto, perché - dice -  "non si vede veramente qualcosa, se non lo si capisce".
Guardare con attenzione quello che lo circonda, significa, per lui, dipingere e dipingere vuol dire vivere appieno le proprie sensazioni, perché "la pittura non è che una parola diversa per dire sentimento".

Non é un pittore di storia.
Alle rappresentazioni mitologiche, alle ninfe, agli amorini,  o alle fattezze di qualche nobile personaggio bene abbigliato, da ritrarre dietro lauto compenso, preferisce il paesaggio.
Per lui non è la "presenza dei soggetti umani" che fa il quadro, che lo rende degno di considerazione. Non tiene alcun conto di quella classifica dei generi pittorici, all'epoca comunemente  accettata, che vedeva, al primo posto, il quadro mitologico o di storia e, all'ultimo, quello della natura morta o del paesaggio.
Quello che gli importa è dipingere la campagna che conosce, quella vicino a casa, un albero, una capanna, un carro di fieno o il colore cangiante del mare e abbandonarsi  alle sensazioni che gli suggerisce.
Nella sua pittura i protagonisti sono gli eventi naturali, le forze della natura.

E, soprattutto, il cielo, perché per lui "è l'elemento chiave, l'ago della bilancia, il primo organo del sentimento... e la sorgente della luce che, in natura, governa ogni cosa".
E nei suoi piccoli schizzi (i fogli misurano più o meno 20x15cm), eseguiti in anni e località differenti, raffigura cieli puri senza uccelli, né alberi, né orizzonte.
Cieli che non sono più uno sfondo, ma che diventano il soggetto principale.


Sono paesaggi fatti solo di nuvole, ritratti di nubi,  si potrebbe dire

Una cinquantina d'anni prima, rispetto ai pittori impressionisti, si sofferma a dipingere un unico motivo naturale, che cambia costantemente con le condizioni della stagione, del vento o della luce. Un soggetto sempre diverso e meravigliosamente mutevole.

Lavora all'aria aperta, utilizzando, per i suoi schizzi, colori a olio: una tecnica abbastanza inconsueta. Solo più tardi userà l'acquarello, più facile e più maneggevole.
Sul retro, quasi sempre, aggiunge  delle annotazioni sulla direzione del vento, sull'ora del giorno, sul sole e sulla luce.

Fare "skyning" lo chiama.
Dipinge le nuvole, non per le immagini che evocano e nemmeno per usarle negli sfondi di composizioni più grandi, ma per indagarle  in ogni minimo dettaglio e per studiarne la forma e l'anatomia, come un altro pittore avrebbe studiato l'anatomia del corpo umano.


Sono, in effetti, gli stessi  anni,  in cui compaiono i primi studi di meteorologia: è del 1820 l' articolo di Luke Howards "On the modification of the clouds", con la prima classificazione delle nuvole dal punto di vista scientifico.

E Constable, probabilmente, lo ha letto e sa  distinguere le nuvole alte e le nuvole basse, i cirri, i cumuli, gli strati o i nembi.

Ma, soprattutto, sa ritrarli in maniera diversa.





Sa dipingere i cirri, le nubi bianche e leggere, illuminate dal sole, catturando la luce con dei colpi di bianco o di giallo puro.











O sa raffigurare i cieli plumbei di nuvole basse e gravide di tempesta.















Oppure gli strati di nubi  che, durante un temporale, sembrano occupare tutto lo spazio con la loro massa scura e incombente.








Nei suoi schizzi le nuvole compaiono tutte e tutte sono rappresentate con appassionata precisione: quelle leggere e quelle pesanti, frastagliate o compatte, opache o trasparenti, quelle bianche del cielo assolato  o quelle nere delle giornate di pioggia. 

E si ha l’impressione  che, nella sua ostinata  ricerca di  fissare in pittura  le loro forme e la loro effimera  e variabile bellezza, ci sia  la volontà, se non di rappresentare il trascendente, di suggerirne, almeno, l’esistenza





Qui é il link  a una mostra delle opere di Constable che si è tenuta a Parigi, al Grand Palais nel 2002. Mi ha stupito, ma nemmeno tanto, vedere che è stato un grande artista, apparentemente lontano da Constable, Lucian Freud (ne ho parlato in questo post) che ha curato la scelta delle opere da esporre.Segno che, quando si parla di grande pittura, tutto torna: i ritratti impietosi e taglienti di Freud e i paesaggi  romantici di Constable non sono che aspetti diversi di una comune umana sensibilità.



E ora due link con le poesie di un altro corteggiatore delle nuvole: Fabrizio De André
Tra Nuvole  e Nuvole barocche.
E uno con  C. Debussy, Nocturnes (nouages)



mercoledì 21 settembre 2011

Lorenzo Lippi: doppio inganno





Un dipinto di Lorenzo Lippi (1606-1665) al Museo di Angers: una donna, una maschera e una melagrana.
Pochi elementi, eppure raccontano una storia. 
Anzi, molte storie, come in un gioco dove le carte si combinano in infiniti modi, sempre differenti.



Chi è l’affascinante giovane, raffigurata su un fondo scuro, da sottinsu, come se ci guardasse dall'alto in basso?
Tiene, con la mano destra, una maschera, mentre, con la sinistra, porge una melagrana matura.
Ha una veste blu; le spalle sono coperte da uno scialle trasparente e i capelli nascosti sotto un velo. Il viso è impassibile; lo sguardo remoto cela ogni emozione.
Posa un dito sulle labbra della maschera, in un gesto che sembra intimare il silenzio.

La maschera, in confronto al pallore del viso della donna, ha i colori della vita: la carnagione rosea, le labbra rosse e le guance colorate.

Gli occhi, però, non sono che buchi neri, vuoti.

Perché non è che un inganno: è il simbolo della menzogna e della falsità; può fingere la vita, cambiare l’apparenza di un viso, nascondere o coprire la verità.
Ed ecco la prima possibile interpretazione: è  un'“Allegoria della simulazione”. 
E, in effetti questo è il titolo con cui è conosciuto: la donna e la maschera, verità e finzione

Due carte, dunque, vanno bene. 
Ce n'è, però, una terza da sistemare: la melagrana.
E la melagrana  sembra  raccontare tutt' altra storia.

In ambito religioso i suoi semi racchiusi in un unico guscio sono il simbolo della coesione della chiesa e il succo rosso quello del sangue dei martiri.
In quello profano è legata al mito di Persefone (o Proserpina, alla latina): la bella fanciulla, figlia della dea delle messi Demetra e rapita da Ade, il dio degli inferi. Avendone mangiato sei grani, malgrado la proibizione, sarebbe stata obbligata a sposarlo, e a passare con lui almeno sei mesi all'anno, il periodo che sulla terra è privo di frutti.

A questo punto c'è da  scoprire cosa c’entri con la menzogna  questo simbolo della chiesa, dei martiri oppure della morte e rigenerazione.
È difficile, ma una combinazione si può sempre trovare
La melagrana potrebbe significare la falsa apparenza, perché è un frutto "nascosto" dietro una scorza coriacea e non commestibile. O perché, guardandola dall'esterno, non è possibile sapere se sia guasta o no. 
In fin dei conti anche questa una simulazione.
Potrebbe essere.
Il pittore, il fiorentino Lorenzo Lippi, era colto, amante del teatro, della satira, degli scherzi e dei giochi di carte e di parole, tanto da scrivere un intero poema, impostato sui proverbi e sui modi di dire.
Di certo si sarebbe divertito a creare una sua personale allegoria della menzogna.
E, in più, era membro dell’Accademia degli Svogliati, che, proprio nel 1642, una data vicina a quella dell’esecuzione della tela, aveva tenuto un’intera seduta dedicata alla simulazione.
Tutto torna, allora?
Niente è semplice nel mondo dei simboli.
Ogni  significato è un  significato possibile, ma non è mai l’unico.

Aggiungiamo un altra carta, come in uno di quei giochi d'azzardo che Lorenzo Lippi amava tanto: un quadro, molto simile come impostazione. Fu eseguito da Salvator Rosa, un pittore amico di Lippi; con lui condivideva interessi filosofici, il gusto per la burla e per le recitazioni improvvisate.

Qui è un uomo a tenere in mano una maschera: è l’autore latino Plauto e il soggetto è un’"Allegoria della Commedia".

Perché le maschere, si sa, sono legate anche al teatro.

Anche il dipinto di Lippi potrebbe essere un’allegoria teatrale. 
L’affascinante e altera giovane sarebbe, Melpomene, la Musa della poesia tragica, che, in genere, è raffigurata  con una maschera in mano.
La melagrana troverebbe una spiegazione: la malinconica Melpomene è anche la Musa della poesia d’argomento funebre e sentenzioso, quella che parla della vita e, soprattutto, della morte. Ed è a questa che potrebbe alludere il frutto, legato a Persefone e all’Ade.
Nessuna finzione, dunque, se non quella legittima del teatro e della letteratura.
Ma allora è chiaro e, finalmente, tutto torna. Forse

C'è qualcosa che non convince. 
È quella ciocca di capelli, quel ricciolo, che sfugge dispettosamente dal velo, cosi' come quel lieve sorriso, appena, appena accennato.

Poco si accordano, a ben guardare, alle lugubri elucubrazioni della cupa Melpomene
E quindi?
Quindi: un altro giro di carte e un' altra possibilità.


La maschera è anche simbolo della Pittura, per la sua facoltà di imitare e di riprodurre le apparenze della natura.
Quella pittura che rende eterni i suoi oggetti e li fa vivere ben oltre la morte: una maschera e una melagrana insieme ci starebbero benissimo. Hanno in comune il guscio inerte e imperscrutabile che può nascondere la morte o la vita.
Che sia questa la combinazione vincente?
La bella donna continua a guardarci enigmatica e, forse, sorride per le trappole che ci ha teso.
Che stia barando? E con lei Lorenzo Lippi? 
È un'ipotesi anche questa.
Le carte sono sempre lì sul tavolo ed è ancora possibile giocare.




Il dipinto è stata esposto ad Ajaccio alla mostra "Florence au grand siècle"(qui è il link):l'interpretazione della figura come Melpomene è nel catalogo della mostra.
  





giovedì 15 settembre 2011

La doppia vita di Uta di Naumburg




Tra tutte le donne della storia dell'arte, quella con cui andrei a cena è Uta di Naumburg” (Umberto Eco)


Bello, affascinante, enigmatico il volto di Uta occhieggia, nelle mie vacanze in Baviera, da innumerevoli manifesti che pubblicizzano una mostra sul Maestro di Naumburg ( qui è il link)




Uta l'avevo vista per la prima volta, qualche anno fa, in Sassonia, nell'abside del duomo di Naumburg.

Era là, inconfondibile, tra le dodici grandi statue in arenaria di nobili sassoni, addossate ai pilastri del coro. Un complesso di sculture eseguito tra il 1250 e il 1260 dal cosiddetto Maestro di Naumburg, uno di quegli straordinari artisti, ancora anonimi, che lavoravano nei cantieri delle grandi cattedrali gotiche tra Francia e Germania.

Nelle dodici sculture l'artista  rappresenta i fondatori e i benefattori del duomo, vissuti un centinaio d'anni prima, tra XI e XII secolo. 
Non sono, dunque, ritratti, anche se hanno fisionomie ben precise e un'inconsueta attenzione alle espressioni, accentuata, sicuramente, dalla policromia originaria.
Sembra che ognuna abbia un carattere e una personalità propria.

Fra tutte Uta era la più bella, la più misteriosa.

Di lei sappiamo pochissimo: che era di una famiglia aristocratica di origine polacca, gli Askani di Ballenstedt, che il suo matrimonio fu celebrato nel 1026 e che non ebbe figli.

Poche citazioni e tutte legate al suo ruolo di moglie.
Anche in chiesa è raffigurata accanto al marito, il magravio Ekkehart di Meissen.

Lui robusto, col volto appesantito dal doppio mento e con i lunghi riccioli che sfuggono dalla berretta, porta con orgoglio i simboli della sua condizione di guerriero (lo scudo con l'emblema nobiliare e la spada) e cerca di darsi un'aria fiera, fissando, immobile, davanti a sé.

Lei, raffinatissima e altera, sorride enigmatica e distante.
Indossa una veste, ornata da un prezioso medaglione, e stringe, con una mano al di sotto della gola – quasi a proteggersi dal freddo umido della cattedrale – un pesante mantello, dall'ampio bavero rialzato sulla nuca, che le copre interamente il corpo.
Il volto, racchiuso da un bianco soggolo orlato d'oro e sormontato da un diadema decorato di gigli, è bellissimo: occhi a mandorla, sopracciglia arcuate, naso dritto e labbra appena ravvivate da un'ombra di rosso carminio.



È la rappresentazione perfetta della moglie devota: una nobildonna elegante e remota, bella e distante come un'icona.

Sembra incarnare, in maniera esemplare, i valori della fedeltà, della fierezza e della dignità, tanto che il ministro della propaganda nazista Goebbles, negli anni '30, pensò di eleggerla a immagine della purezza germanica e delle virtù femminili ariane.

Un fardello pesante da portare.

Ma siamo sicuri che Uta sia davvero così ?

Qualche sospetto viene, se si fa caso a particolari come la bocca altezzosa e imbronciata, al modo con cui sfugge ogni contatto con lo stolido marito, alla mano destra, dalle lunghe dita, che artiglia, con forza, una falda del mantello: manifestazioni di inquietudine, di insofferenza per un ruolo che, forse, le sta stretto.

Quando ho visitato la cattedrale ho avuto la sensazione che Uta nascondesse un segreto, che celasse un aspetto completamente diverso. 
Mi sembrava che al suo viso se ne potesse sovrapporre un altro. 
Ma quale ?

La risposta, imprevedibile, mi è arrivata da un libro *

Nel 1935, in uno studio della Walt Disney, con le scrivanie ingombre di schizzi, di libri di fiabe e testi d'arte, si sta preparando il primo vero film in cartoni animati: Biancaneve.
É il momento faticoso ed esaltante, in cui si cercano i modelli per i protagonisti.

Un'eroina dei cartoons, la bruna e prosperosa Betty Boop,è stata scelta per prestare le sue fattezze, addolcite e zuccherate, alla candida protagonista.
Si vuole dare, ora, un volto alla matrigna, alla strega, per cui è pronto il nome, dalle assonanze wagneriane, di Grimilde.

Non è facile, ma uno dei grafici, un immigrato di origine tedesca ha un'intuizione e sottopone una foto dell'algida bellezza di Uta a Walt Disney, che sta partendo per l'Europa in cerca di ispirazione.

Disney durante il suo soggiorno europeo ci ripensa ed è sempre più sicuro che Uta sia quelllo che cerca.
Altro che inteccherita e contegnosa nobile sassone: è proprio lei la strega che aveva immaginato.

Sulla nave del ritorno le conversazioni con una passeggera, che di donne malvagie sembra intendersene, la diva tedesca Marlene Dietrich, conferma la sua idea: Uta sarà una Grimilde perfetta.

Basterà mescolare i suoi nobili lineamenti con quelli di qualche dark lady del cinema, per esempio con le folte e scure sopracciglia e lo sguardo pungente di Joan Crawford, per trasformare la devota magravia in una strega inappuntabile.

Una piccola spinta e Uta, riveduta e corretta, o meglio, scorretta, è pronta a incarnare la vanitosa e crudele matrigna.
E così si affrancherà anche dal peso di fornire un esempio alla gioventù nazista: Goebbels non potrà certo indicare una strega come modello di virtù femminili.

L'aristocratica sassone, dall'intemerato e devoto passato, passerà dall'abside della cattedrale al grande schermo.
Sette secoli a far la moglie sottomessa e basta un cartone animato a svelare la sua vera natura.
Uta/ Grimilde: soave e perfida, passionale e algida, donna angelicata e fascino perverso.



Ed eccola, gli occhi pesantemente truccati, le sopracciglia sottolineate, le labbra scarlatte pronta a indossare il mantello nero da “regina della notte” e a scatenarsi nell'immaginario degli spettatori di ogni età.

Crudele, maligna, forse, ma libera. Finalmente.


* Il bel libro di Stefano Poggi, La vera storia della regina di Biancaneve dalla selva Turingia a Hollywood, Raffaello Cortina editore 2005 ripercorre tutta la vicenda della trasformazione di Uta in Grimilde compresi i retroscena politici.
Una gran bella storia, una ennesima dimostrazione che i viaggi più affascinanti sono quelli delle immagini.




martedì 6 settembre 2011

La congiura dei Pazzi (fine).





Per sapere davvero com'è andata, bisogna trasferirsi negli Stati Uniti all'inizio degli anni Duemila.

Un professore universitario, Marcello Simonetta, ha portato con sé alla Wesley University un trattato per decifrare documenti in codice, scritto nel 1474 da un suo antenato, Cicco Simonetta, allora potente Cancelliere degli Sforza.
Vuole riuscire a decriptare una lettera cifrata che ha trovato in un archivio privato di Urbino.





La lettera sembra sfidare ogni sforzo, ma, con pazienza e con l'aiuto del trattato quattrocentesco, l'enigma comincia a sciogliersi.
In italiano sono le vocali a ricorrere con maggiore frequenza e, dunque, saranno le vocali a fornire la chiave del codice.
Comincia dalla "A" e isola nella lettera una sequenza che si ripete con regolarità.
Prova a inserire, poi, nei simboli mancanti le consonanti adeguate ed ecco che arriva a decifrare l'espressione "la Sua Santità".
Scopre, allora, che la missiva, diretta agli ambasciatori di Urbino, parla del papa. E cosa dirà?
Piano piano, proseguendo con metodo e con pazienza, emerge con chiarezza tutto il testo.

La data è il 14 febbraio del 1478, due mesi prima della congiura.


Il mittente è uno dei signori più famosi d'Italia: Federico da Montefeltro, duca d'Urbino.



All'epoca dei fatti, come si direbbe in un verbale di polizia, ha cinquantasei anni e le sue fattezze, semmai dovessero comparire in una scheda segnaletica, sarebbero davvero inconfondibili.


Ha perso un occhio e un pezzo di naso in un torneo e, per questo, si fa ritrarre sempre di profilo dall'amico Piero della Francesca o dai pittori di corte.



È un condottiero, un capitano di ventura, disposto a vendere i suoi servigi al migliore offerente.
Anche lui è  salito al potere grazie a una congiura che- si sussurra- lo ha molto opportunamente liberato dell'erede legittimo alla signoria, il fratello Oddantonio.
Nel 1446 un' altra congiura, questa volta sventata, gli ha assicurato saldamente il potere.
È uno che di complotti, evidentemente se ne intende e che li sa usare.

La lettera,  prova, inequivocabilmente, il suo  coinvolgimento  nell'ideazione della congiura: lo scopo è quello di strappare Firenze ai Medici.
Caspita! Allora è lui l'uomo misterioso! 
L'uomo che, al sicuro, nel suo studiolo ornato di tarsie lignee, al centro del suo immenso e meraviglioso palazzo redige il messaggio segreto.
Pensare che nessuno lo aveva mai sospettato. Al papa, ovvio, si era pensato, ma a lui, lo sdegnoso signore d'Urbino, mai.
E cosa scrive ai suoi ambasciatori col messaggio cifrato che deve arrivare nelle mani del  papa e che nessuno deve intercettare ?
Scrive che, una volta che Lorenzo e Giuliano saranno uccisi, è disposto a contribuire alla conquista della città con seicento dei suoi migliori soldati.
È sicuro, dunque, che una congiura ci sarà e che i Dioscuri moriranno.
E sa che il pontefice si fida di lui e delle sue capacità di stratega perché ha occupato, a lungo, la carica di "Capitano del papa" ed è stato proprio Sisto IV a conferirgli il titolo di Duca d'Urbino.  


Il complotto, dunque, è ordito a Roma, non a Firenze. L'irascibile e invidioso Jacopo Pazzi non è che uno strumento nelle loro mani.
L'equilibrio tra i piccoli stati italiani è instabile e l'eliminazione di Lorenzo e Giuliano de' Medici poteva modificare tutto.
Se fosse andata come nei piani, Federico da Montefeltro avrebbe avuto come compenso, forse, un ampliamento di territorio e, di sicuro, la crescita della sua influenza e del suo potere.
E chissà: forse Repubblica di Firenze sarebbe stata annessa ai territori dello Stato pontificio.

La storia d'Italia e d'Europa sarebbe stata diversa.
Molto diversa.
A questo punto è solo "fanta-storia" sbizzarrirsi a immaginare uno Stato pontificio che arrivava a comprendere tutta l'Italia centrale, e per conseguenza, nessun Granducato di Toscana, né le Cappelle Medicee o le sculture di Michelangelo, i ritratti di Bronzino (giusto per rimanere nel campo dell'arte) o le due regine di Francia Caterina e Maria, tutt'e due nate nella famiglia Medici.... e non solo..
Tutto sarebbe cambiato e, forse, non in meglio.

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Veleno, pugnali,tradimenti violenza: nella congiura dei Pazzi ci sono tutti gli elementi di una visione romanzesca del Rinascimento italiano.
Eppure tutto è vero, tutto è storia, eppure agli intrighi, alle violenze partecipano grandi personaggi, gli stessi capaci di disquisire di sottili questioni filosofiche e di commissionare magnifiche opere d'arte.
Un secolo complesso, difficile, tormentato, ma illuminato da intuizioni geniali, idee e capolavori.

Che avesse ragione di Orson Welles nella sua memorabile battuta nel film "Il terzo uomo" ?:
"In Italia per trent' anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In Svizzera con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace che cosa hanno prodotto? L'orologio a cucu'".

Il libro L'Enigma Montefeltro di Marcello Simonetta racconta la storia precedente e successiva alla congiura dei Pazzi e svela il coinvolgimento di Federico da Montefeltro: il link è qui.




giovedì 1 settembre 2011

La congiura dei Pazzi (2)





Tra pensare e mettere in atto una congiura ce ne corre!
I preliminari sono finiti: adesso bisogna agire. 
Ma all’inizio tutto sembra andare storto.
Il primo tentativo fallisce prima di cominciare.
I Pazzi hanno deciso di versare un veleno nelle coppe di vino di Lorenzo e Giuliano de' Medici, durante un banchetto a cui dovrebbero partecipare.
Ma Giuliano, quella sera, ha mal di stomaco e declina l’invito: senza di lui non si può procedere.

I congiurati non demordono e decidono di usare i pugnali la domenica 26 aprile in duomo, nel corso della messa solenne.



Anche qui le cose si mettono male: il killer, che supponevano spietato, si fa venire problemi di coscienza e si rifiuta di uccidere in un luogo consacrato. Velocemente vengono assoldati due preti abili con i pugnali, che- forse perché son di casa- hanno meno scrupoli.
Intanto due dei congiurati attendono che i due Medici escano di casa e, con una scusa, li abbracciano.
Non è certo per l' ultimo saluto: si vogliono accertare che non portino, sotto il farsetto, l’abituale cotta protettiva in lana di ferro e che siano disarmati.

Vanno tutti alla messa.
Il segnale convenuto è quello della campanella, al momento dell’ Elevazione.
La tensione in chiesa è al massimo. Quando la campanella suona, due congiurati si gettano subito contro Giuliano e lo uccidono con diciannove pugnalate e con un tale impeto da ferirsi tra di loro.
L'attacco è stato talmente fulmineo che i fedeli, inginocchiati, non hanno avuto il tempo di reagire. Lorenzo, invece,  ha visto il fratello a terra, i pugnali, il sangue e ha capito tutto. 
Anche lui è colpito al collo, ma riesce a impugnare la spada di uno dei suoi e, protetto dagli amici, si rifugia in sagrestia, chiudendosi alle spalle la pesante porta di bronzo.
È salvo.

Nel frattempo Jacopo Pazzi, all'ora convenuta, pensando che i due Medici siano morti, esce per strada e al grido di "Libertà!"cerca di provocare una sollevazione popolare: sa che, a un suo segnale, le truppe del pontefice e dei suoi alleati, appostate ai confini, interverranno a dargli man forte.
Ha completamente sbagliato i suoi calcoli. La popolazione, alla notizia dell'accaduto e al suono delle campane a martello, si è sparsa subito in città. Ma non per seguire i Pazzi.

Jacopo si è ingannato: i fiorentini li amano i due Dioscuri e non si schiereranno mai dalla parte degli uccisori.

I seguaci dei Medici sono i primi a reagire e, al grido di "Palle, Palle!" (le palle dello stemma mediceo), cominciano a dare la caccia ai congiurati.

Lorenzo, intanto, si affaccia, ferito, dal balcone del Palazzo di famiglia.




Il popolo lo acclama in delirio: i congiurati non avranno scampo.
E sarà una carneficina: verranno uccisi tutti.
Anche l'arcivescovo di Pisa: impiccato in abiti vescovili, alla finestra del Palazzo pubblico.
Ottanta saranno i morti.
Jacopo Pazzi, che aveva cercato di nascondersi, verrà stanato, pochi giorni dopo e ucciso. La folla inferocita farà scempio del suo cadavere.

Sandro Botticelli avrà l'incarico di effigiare- come memento- tutti gli impiccato in una sala del palazzo di giustizia.


L'unico dei congiurati che era riuscito a scappare fino a Costantinopoli verrà consegnato ai Medici, qualche mese dopo, dal Sultano ottomano che non si vuole inimicare i banchieri fiorentini.

Verrà impiccato anche lui e, questa volta, sarà Leonardo a raffigurarlo, appuntando, nel foglio da disegno,con implacabile esattezza anche i colori precisi delle sue vesti.

Insomma Lorenzo ha trionfato.
I beni della famiglia Pazzi vengono confiscati, gli stemmi distrutti, i nomi cancellati in tutti i documenti ufficiali. 
Una completa damnatio memoriae.
Ormai, anche per la popolazione di Firenze Lorenzo è diventato il Magnifico: in città non ha più oppositori.

Sullo Stato della Chiesa si prenderà una sottile, anche se postuma, vendetta: non solo il figlio Giovanni sarà eletto papa col nome di Leone X, ma anche il figlio illegittimo di Giuliano salirà al soglio pontificio come Clemente VII.
E poi, con un un accorto gioco diplomatico, saprà ritessere le fila con tutti i suoi nemici.
Machiavelli scriverà cinicamente,  qualche anno dopo, che  in fondo la congiura gli è servita: si è liberato di quel vanesio del fratello e ha confermato il suo potere.
È riuscito ad acquisire una posizione importante nella scacchiera italiana e sa che i colpevoli della congiura non potranno più nuocergli perché ormai si sono svelati.
Crede di conoscerne tutti i nomi.

Proprio tutti ?

L'uomo dall'inconfondibile profilo, in realtà, ha saputo rimanere nell'ombra.

Non si aspettava che la congiura finisse così, ma si sente al sicuro. Nessuno sa o sospetta il ruolo che ha giocato. Tutta la colpa sarà attribuita a una rivalità cittadina e a Jacopo Pazzi, che avrebbe attirato dalla sua parte anche il papa.

Controlla la minuta della lettera che ha scritto: il codice è indecifrabile, ne è certo.
La ripone in uno degli armadi del suo studiolo ed esce tranquillamente a discutere con l'architetto del suo nuovo gigantesco palazzo (ecco qui due indizi!).

Pensa che non sarà mai scoperto.
E, invece, come in tutti i gialli che si rispettino, anche in questo, il colpevole è  destinato a essere svelato.

(continua)