Ci
sono dipinti che si impongono all'attenzione quasi con prepotenza,
con la forza dei capolavori riconosciuti e altri, invece, che, a un
primo sguardo, rischiano di passare inosservati e il cui incanto si lascia scoprire solo dopo, poco a poco.
È
questo il caso del "Ritratto della famiglia di Zanobi Troni"
di Giuseppe Maria Crespi (1665-1747), attualmente conservato alla
Pinacoteca Nazionale di Bologna.
Su
un fondo scuro, dominato da sfumature di tinte basate sui toni bruni delle terre e
dell'ocra, è raffigurato un gruppo di famiglia.
Basta poco per accorgersi che è un ritratto molto diverso da quelli a cui ci ha abituato la pittura del Settecento: nessuna posa, nessuna ambientazione, nessuna allusione alla ricchezza o al ceto sociale dei personaggi.
Basta poco per accorgersi che è un ritratto molto diverso da quelli a cui ci ha abituato la pittura del Settecento: nessuna posa, nessuna ambientazione, nessuna allusione alla ricchezza o al ceto sociale dei personaggi.
Non ci sono nemmeno
eleganti dettagli d'abbigliamento, né sete, né trine e
neppure quelle parrucche incipriate che, all'epoca, vanno tanto di
moda.
A
Giuseppe Maria Crespi, del resto, le parrucche e i parrucconi non sono mai
piaciuti, tanto meno in pittura: ha sempre voluto sentirsi libero
dalle convenzioni accademiche e interpretare i generi pittorici e le iconografie tradizionali in completa autonomia (dei suoi affreschi nel Palazzo Pepoli Campogrande di Bologna ho parlato qui).
E in questo
dipinto usa la sua libertà fino in fondo.
Siamo
negli anni '30 del Settecento, Crespi, ormai, non si sposta più da
Bologna, la città in cui è nato e dove è sempre rimasto, tranne qualche
viaggio- nel suo periodo di formazione- tra Urbino, Parma e Venezia e
un lungo soggiorno a Firenze, dove ha lavorato per Ferdinando de'
Medici.
Il suo stile si è formato, mescolando varie influenze, dall'attenzione alla realtà dei grandi bolognesi del passato- Carracci in testa- al colore dei maestri veneti,
alla dolcezza di Federico Barocci e, soprattutto, alla pittura fluida e senza
contorni di Rembrandt, di cui è stato uno dei più appassionati
ammiratori.
Col passare degli anni, vive sempre più appartato,
lavorando dalle prime luci dell'alba fino al tramonto, nel modesto studio,
annesso alla casa dove abita in un quartiere popolare della città.
Alle cerimonie o alle occasioni mondane preferisce, da tempo, la solitudine,
anche se i suoi visitatori raccontano che la sua conversazione non è
mai stata così piena
d'arguzia e d'umorismo.
Invece di sottoporsi alle frequentazioni, a
cui lo obbligherebbe la sua professione, Crespi si limita a coltivare
una ristretta cerchia di amici.
Tra questi c'è un artigiano, un
argentiere, più giovane di lui di una ventina d'anni, con cui sembra
condividere lo stesso modo ironico di guardare il mondo: è Zanobi
Troni, un livornese, che si è trasferito a Bologna giovanissimo e con cui Crespi ha subito legato.
Nel
suo lavoro Troni è molto bravo e si è saputo creare una buona
reputazione: grazie alla sua abilità è entrato in contatto con ricchi aristocratici e grandi cardinali e le commissioni, di certo, non gli mancano.
Guadagna molto denaro ma altrettanto è capace di sprecarne, tanto che le fonti del tempo raccontano che "alle volte si è trovato in angustie tali
che lo avrebbero avvilito, se non fosse sollevato dal suo spirito
allegro e vivace".
Ed
è, forse, per quello stesso spirito che Crespi gli si è
affezionato e che ha deciso di offrirgli in omaggio un ritratto di
famiglia.
Nella
tela, a presentare i suoi familiari è lo stesso Zanobi Troni,
raffigurato, un po' defilato, sulla sinistra, col suo inconfondibile profilo dal
naso aquilino che compare anche in altri dipinti di Crespi.
Con
un gesto eloquente del braccio, che sembra preso in prestito
dalla ritrattistica ufficiale, ci mostra i quattro figli, tre ragazze
adolescenti e l'ultimo nato di un anno o due, e, soprattutto, indica la
moglie, Valeria Crapoli, che ha sposato nel 1718.
Al centro della
composizione, messa in rilievo dal blu luminoso della veste, la donna
domina la scena.
Tutta la famiglia si dispone intorno a lei: con
un atteggiamento tra pudico e orgoglioso, Valeria non si sottrae, anzi si lascia circondare e quasi avvolgere dai suoi, mentre tiene in mano delle ciliegie.
Le
figlie sono tutte rivolte verso di lei; una di loro trattiene con la
mano quella della mamma che si è appena posata sul suo volto per una
carezza. Ogni gesto, ogni sguardo sottolinea il loro attaccamento reciproco.
Tutti si sorridono con tenerezza, in un'intimità che
sembra escludere ogni spettatore: tra di loro passa una corrente di
dolcezza e di complicità.
Quei sorrisi veri, senza nessun obbligo di posa, ci fanno
sentire partecipi del loro calore e del loro affetto.
Sembra che
ognuno di loro (marito compreso) riconosca il ruolo della donna, come il centro, come il vero sostegno della famiglia, in una maniera talmente evidente da
giustificare la definizione settecentesca di Marcello Oretti che
descrive il quadro come come il
"ritratto della signora moglie".
Il
fatto, poi, che il dipinto, rimasto a lungo in casa Troni, non sia finito, che ci siano dei pentimenti e che la materia pittorica
sia stesa con tanta immediatezza da lasciare
intravedere la preparazione rosso scuro del fondo, conferma la
destinazione privata e rende ancora più spontanea questa "potente e commovente visione
d'amore", come l'ha definita il grande storico dell'arte Francis Haskell.
Un
encomio senza retorica, un omaggio sincero e sentito che Crespi- rimasto vedovo qualche anno prima, raffigura con grande emozione e con un po' di rimpianto.
Nessun racconto, dunque, nessun enigma dietro questo dipinto.
Solo una famiglia come tante altre, una famiglia di gente comune, di cui non sarebbe rimasta memoria, salvo qualche rara citazione in polverosi documenti d'archivio, se l'arte di Giuseppe Maria Crespi, non fosse riuscita a trasmettere il ricordo di quel legame d'amore fino a noi.