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venerdì 14 novembre 2014

TwittArte: parlare d’arte su Twitter con Art-B Tweets



C'è qualcosa di nuovo tra i blogger d'arte:#artbtweets!

Lunedì 17 novembre, dalle 21,30 alle 22,30, su Twitter prenderà il via una chat d’arte:  Art-B Tweets (#artbtweets è l’hashtag ufficiale), nata da un'idea condivisa da diversi blogger d’arte.
L’intento  è quello di creare su Twitter un luogo di discussione e di scambio sull'arte e sulla maniera di comunicarla. 
Quelli che frequentano Twitter sanno bene che in altri settori, dai viaggi, alla cucina, alla politica, le chat sono molto diffuse e coinvolgono una marea di utenti. 
Finalmente, da lunedì 17 novembre, ci sarà anche una chat specifica sull'arte.



Ogni lunedì, i blogger, che hanno deciso di dare vita al progetto, proporranno un tema, attraverso sei domande, poste ogni dieci minuti (la prima alle 21,30, la  seconda alle 21,40… e così via). 
Ogni domanda sarà preceduta dalla sigla D1, D2, D3 e chiusa dall’hashtag  #artbtweets. 
Gli utenti di Twitter  che vorranno rispondere o commentare lo potranno fare  con  la formula R1, R2, R3...+ riposta+ hashtag, oppure scrivendo liberamente la propria opinione, ma senza mai dimenticare l’hashtag.
La prima chat sarà moderata da Finestre sull’arte, poi, nelle settimane seguenti, si alterneranno tutti i blog che partecipano all'iniziativa che, in ordine alfabetico, sono per ora: Arte a modino, Finestre sull'arte, Mostre-rò, Mo(n)stre, The Art post Blog. Ovviamente ci sarò anch'io di Senza dedica. 

Lo so: sembra complicato. Ma, credetemi, è più difficile scriverlo che farlo! 
E lo dice una che ha  cominciato a usare Twitter  da poco e che ignorava, fino a qualche giorno fa, perfino l’esistenza dell’hashtag.
Partecipare a questo progetto mi è sembrata, da subito, una bella sfida: la difficoltà sarà quella di usare un mezzo del tutto nuovo e di ridurre ai 140 caratteri di un tweet argomenti trattati, in genere, con maggiore spazio. 
Ma l’idea che mi è piaciuta è quella di  "fare rete" con blog che apprezzo e che leggo con grande interesse e, soprattutto, di coinvolgere- tutti insieme- in una discussione sull'arte, un pubblico più vasto possibile. 

Dunque: lunedì 17 novembre alle 21,30 comincia l’avventura. 
Il primo tema sarà proprio quello dell’arte sui blog e sui siti web.
Partecipare è facile: basterà scrivere #artbtwets nel motore di ricerca di Twitter per trovare la discussione e cominciare a parlare, anzi, a chattare.

E, allora, a lunedì. Su Twitter, naturalmente!





mercoledì 27 giugno 2012

Dopo il terremoto: con una dedica






Volevo scrivere uno dei miei soliti post con piccole storie d'arte, ma mi sono accorta che, in questi giorni, non ci riesco. Ho la testa altrove.
Sono tornata, da poco, al lavoro alla Soprintendenza ai beni artistici e storici, alle Belle Arti, come si diceva un tempo. 
Mi era difficile continuare a restare lontana, a Bruxelles, in part-time, con le notizie del terremoto, che arrivavano e che si sovrapponevano a tutte le altre.
Sono toscana, ma per anni ho lavorato, occupandomi del territorio tra Bologna e Ferrara. Per questo conosco bene le zone, che sono state colpite.
Il primo pensiero è stato, ovviamente, per i danni alle persone, alle case, alla vita di tutti i giorni.
Poi- per il mestiere che faccio- è stato inevitabile pensare al patrimonio d'arte, ai dipinti, agli oggetti, agli arredi delle chiese, dei musei  e dei palazzi, che sono stati colpiti.
Un patrimonio da controllare, da proteggere o da trasferire e ricoverare altrove.

I miei colleghi hanno fatto, in tutto questo mese, un lavoro straordinario.
Quando sono rientrata in ufficio, ho letto tutti documenti, le relazioni, i messaggi email che si susseguivano subito dopo il sisma e che formavano una sorta di "diario", una cronistoria, a volte affannosa, a volte più distesa.
Mi sono  quasi commossa- lo devo dire-  vedendo quanto era stato fatto, quanti sopralluoghi, quanti controlli, in centri storici, pinacoteche, chiese o palazzi.
E tutto senza grandi mezzi, semplicemente, lavorando, mettendo, però, nel lavoro non solo il cuore, ma anche le mani, le gambe e il fegato (nel senso di quel pizzico di coraggio che occorre per entrare in edifici lesionati). 
Sempre in sicurezza e  senza inutili eroismi, preceduti o accompagnati dai Vigili del fuoco, ovviamente.

- Ma non è più importante provvedere alle persone?- ci viene chiesto spesso.
Ovviamente, lo è. Anche se, in realtà, questa non è da porsi come un'alternativa
Il patrimonio artistico è la storia, la memoria di una comunità. 
Senza di esso, si cancellano il nostro passato, i nostri ricordi collettivi. 
In qualche modo, è come se si perdesse l'anima.
Mai avrei immaginato, per esempio, che mi sarebbero mancate tanto le campane.
Si cammina in paesi, in centri storici, transennati e silenziosi: né voci umane, né auto, né il rumore dei motorini ma, soprattutto,  nessun suono di campane. Ci si accorge, allora, di quanto si era abituati a scandire il tempo con i loro rintocchi. E così ci si era abituati, nella pianura, a intravedere di lontano, la sagoma di una chiesa o di un campanile. O, entrando in un edificio sacro, credenti o non credenti poco importa, si era preparati  alla vista, non solo delle grandi opere d'arte, ma della decorazione e degli arredi più comuni dei tessuti, dei mobili, perfino dei candelieri.

Ecco,  il nostro lavoro è stato ed è questo: salvaguardare, restaurare e riportare al loro posto, una volta che gli edifici saranno ricostruiti o consolidati, tutto questo patrimonio. E non c'è niente che faccia più male che svuotare una chiesa o un museo, sperando, pur sempre, che sia per poco tempo.
Lo so che questo blog è, fin dal titolo, "senza dedica", ma, per una volta, vorrei fare un'eccezione  e dedicare questo post, non solo a chi ha subito il terremoto, ma anche a tutti quelli che, come i miei colleghi, hanno lavorato e lavorano per rendere le perdite meno gravi e le ferite meno dolorose.

Il video che ho pubblicato parla da solo. 
I vigili del fuoco prelevano, dalla chiesa pericolante di Pieve di Cento, l'Assunta, di Guido Reni.  
L'applauso che l'accoglie è la dimostrazione di quanto il patrimonio artistico non appartenga solo a pochi studiosi o addetti ai lavori, ma alla comunità intera, a tutti noi. 
 
 
 
 

sabato 7 aprile 2012

Colombe




"D'altri diluvi ascolto una colomba"
(Giuseppe Ungaretti)









La colomba della pace, resa, con pochi tratti espressivi, da Pablo Picasso.











Quella lieve, composta di nuvole e di azzurro, di René Magritte.













E quella vista attraverso lo sguardo incantato di Jean-Michel Folon.








Sono tre  delle tante che percorrono i cieli della pittura.
Perché la colomba è uno dei simboli più antichi e più noti.

Nella mitologia è uno degli emblemi di Venere, la dea dell’amore.
Nella Bibbia, oltre a rappresentare lo Spirito Santo, è un segno di salvezza: fu la colomba a segnalare a Noè - portando un ramoscello d’olivo nel becco - che le acque del diluvio si erano ritirate.
Per tutti è legata all'idea dell'armonia e della pace.

Mi è parso che fosse l'immagine più adatta per questi giorni di Pasqua e di primavera.



 


Qui si parla della simbologia della colomba.

domenica 15 gennaio 2012

Lo scultore e il doganiere: il caso Brancusi.





Nel settembre del 1926 sbarcano nel porto di New York due artisti; sono due amici, appena arrivati dalla Francia. Uno è il poliedrico Marcel Duchamp, l’altro lo scultore di origine rumena Constantin Brancusi (1876-1957).
Brancusi si è stabilito da tempo a Parigi e, dopo aver collaborato con Auguste Rodin, ha cominciato a frequentare artisti come Henri Matisse, Amedeo Modigliani o Fernand Léger, avvicinandosi alla corrente del "primitivismo.
L’amicizia con Duchamp lo ha condotto ad accostarsi al movimento Dada, dissacratore e provocatorio.
Duchamp lo apprezza molto ed è intenzionato a promuovere la sua scultura. Non è la prima volta che Brancusi espone in America, ma è importante che partecipi alla mostra che di lì a poco si terrà  a New York in una galleria d’avanguardia, la Brummer.

Arrivati alla dogana, i due capitano nelle mani di un funzionario particolarmente zelante. I controlli sono accuratissimi.
Si aprono valigie e bauli. In quelli di Brancusi si scoprono misteriosi dischi, uova di legno e strani oggetti di metallo e di marmo.
Uno, specialmente, attira l'attenzione. È di bronzo ed è posato su un piedistallo:


"È un’opera d’arte" - dichiara subito Brancusi e, quindi, stando al regolamento americano, non deve pagare alcuna tassa doganale.
Anzi, è proprio l'opera destinata alla mostra ed è fondamentale.
Apre una nuova fase della sua attività: eliminando il superfluo e attraverso un'estrema stilizzazione  vuole arrivare all'essenza, a quella che chiama la "forma primordiale o genitrice".

Il doganiere è perplesso. Forse Brancusi non si sarà spiegato bene, ma cosa sia quell'oggetto lui proprio non  l'ha capito.
Che razza di opera è? È intitolata "Bird in the space" "Uccello nello spazio"
Ma quello non è un uccello. Manco per idea!
Cosa credono quei due, di prenderlo in giro? 
Lo guarda meglio e, finalmente, riesce a classificarlo: per lui può rientrare tra gli arnesi da cucina o i supporti da ospedale
Kitchen utensils and hospital supplies"
E la tassa va pagata, eccome. 
Sono 240 dollari (circa 2.400 dollari attuali).

I due artisti si indignano e protestano: a pagare non ci pensano nemmeno.
Duchamp, una decina d'anni prima, proprio sul concetto di arte, ha messo in atto la madre di tutte le provocazioni, esponendo un orinatoio in porcellana.
Figurarsi se si lascia intimidire da un doganiere !
Alla fine saranno costretti a cedere, ma hanno deciso: andranno in tribunale e presenteranno un ricorso.
Il mese successivo si apre il processo “Brancusi vs United States

Le due parti (dogana e artista), assistite da avvocati, presentano i loro testimoni e i loro esperti. Sono artisti, mercanti d’arte, giornalisti e direttori di musei: il "parterre de rois" della scena artistica newyorkese.
La scultura è diventata un elemento di prova, l'"Exibit 1".
La posta in gioco è alta.
C’è da stabilire cosa si intenda per opera d’arte e se esistano criteri oggettivi per definirla. E non sono chiacchiere da caffè o da aperitivo elegante.
Siamo in tribunale e, col tipico pragmatismo americano, si pensa che la legge possa definire che cos'è l'arte. Niente di meno.
Se ne discuterà a lungo e, mano a mano, alcuni punti si chiariranno.
Per essere "arte" bisogna che l’opera sia fatta a mano, direttamente dall’artista e che sia un esemplare originale e unico.
Fin qui, tutti d'accordo.

Poi i testimoni di Brancusi cominciano a citare la libertà dell'artista, l'astrazione e, perfino, la stilizzazione dell'arte egizia.
Tutto bene - sbotta l'avvocato della dogana- ma il fatto fondamentale è che la scultura dovrebbe  rassomigliare all’uccello che intende raffigurare.
Niente affatto. Non è così.
Questo è il punto chiave. E, in quell'aula di tribunale, si smonta una teoria vecchia di secoli: l'arte non è soltanto quella che imita la natura, non è solo "mimesis", verosimiglianza.
Anzi, il principio che emerge è totalmente diverso: la rassomiglianza può essere puramente soggettiva. L'opera può essere astratta.
La scultura evoca un uccello, suggerisce la leggerezza, l’impressione del volo e lo slancio. Sono quelle le sensazioni che vuole trasmettere.
È un’astrazione che solo un artista può compiere. Un artigiano, un operaio, potrebbe lavorare il bronzo con più maestria, ma soltanto un artista può concepire e realizzare un’idea come quella che sta dietro alla scultura.
La discussione si fa serrata. I verbali registrano ogni fase del dibattimento *.

Alla fine, nell'ottobre del 1928, i giudici emettono la sentenza.
Ed è un colpo di scena: "Bird in space è un oggetto bello, dal profilo simmetrico. Ci può essere qualche difficoltà ad associarla con un uccello, ma è piacevole da guardare ed è una produzione originale di uno scultore professionista”.
Brancusi ha vinto. Le tasse non le doveva pagare.
Altro che attrezzo da cucina e, men che meno, da ospedale!
La sua scultura è arte, è "duty free".
E con questo l'arte contemporanea è - letteralmente - sdoganata.

New York e gli Stati Uniti ne diventeranno il palcoscenico più accreditato con le gallerie e gli acquirenti più importanti.
Brancusi replicherà più volte il soggetto di "Bird in the space" e una scultura della serie raggiungerà, in un’asta recente (nel 2005), la quotazione da capogiro di 21.400 milioni di euro.

Tutto risolto?
Non proprio.
Il doganiere manterrà la sua posizione fino in fondo e insisterà a ribattere: "Se quella è arte, io sono un muratore".
E chissà quanti continueranno a pensarla come lui.


QUI si analizza il dibattito dal punto di vista giuridico e sociologico.

mercoledì 9 novembre 2011

Storie d'arte : - 3 - 2 -1 .... via !



Da oggi si possono leggere storie d'arte anche in un altro blog.Le raccontiamo noi di "Senza dedica" e  di "Scarabooks".

Cominciamo da dove tutto (o molto) prende avvio, dal Rinascimento fiorentino. E iniziamo cosi':

"Sono più d'una le località nei dintorni di Firenze..."


Poi, continua qui:







venerdì 4 novembre 2011

Hasta luego, caballero!





Mi sto preparando ad andare in Argentina per un viaggio che ho sognato da tempo.
E già mi immagino: le Ande, la Patagonia, la Terra del Fuoco, la pampa....

"Nella pampa sconfinata, dove le pistole dettano legge, il caballero misterioso...
Ecco! Basta appena nominare la pampa e, subito, mi viene in mente il caballero.
Perché sulla sua storia, io ci sono cresciuta.

È il lontano 1965, quando il caballero parte, per la prima volta, alla ricerca della bellissima Carmencita.
Se ne è innamorato, non appena l'ha vista su un giornale ed è pronto a tutto, pur di trovarla.
Si è inoltrato in un deserto infuocato, di rocce e cactus che niente ha a che vedere con la fertile e verde pampa argentina.
Licenza poetica, evidentemente, perché in Argentina, proprio, non siamo. Piuttosto in Messico.
Ma non stiamo a sottilizzare, ché il caballero ha ben altro per la testa.
Cavalca a lungo, prima di arrivare in villaggio di case bianche.
Forse è sudato, stanco, ma non demorde, non si ferma, non si riposa.
No! Perché solo una cosa gli preme: sapere dove sia l'ammaliante creatura che gli ha rubato il cuore.
Per questo spezza il silenzio col suo grido, dall'imprevedibile accento piemontese: "Carmencita, abita qui ? "

Ebbene sì! Lei è là.
Il caballero è giunto alla meta.
Gli ostacoli non sono finiti, ma lui li supererà tutti.
E alla fine i due si incontrano: lui emozionato, lei affascinante, come nel ricordo, con lunghe trecce nere e una bocca a forma di cuore.
Riuscirà a conquistarla?

Era questa la storia che seguivo con trepidazione, pronta a passar sopra al fatto che il focoso innamorato altro non fosse che un cono in cartoncino bianco, cui erano stati aggiunti una folta chioma nera, occhi ardenti, sombrero e cinturone con tanto di pistola.

Per la bella Carmencita, invece, erano bastate due trecce brune e uno sguardo maliardo.


E le loro avventure amorose, trasmesse fino al 1973, erano compresse nei due minuti del "Carosello" destinati alla pubblicità del caffè Paulista.



Carosello, allora, non era soltanto un contenitore di messaggi pubblicitari, era una raccolta di personaggi, di situazioni, capaci di entrare di prepotenza nella mia immaginazione.
E non è solo la nostalgia per i miei ricordi in bianco e nero a farmi pensare che fossero di una genialità irripetibile.
È che per Carosello lavoravano i migliori artisti del momento: attori, registi, pubblicitari, disegnatori.

Armando Testa (1917-1992) era uno di questi.
Con un segno grafico minimalista era capace di creare mondi interi.
Il caballero e Carmencita erano sue creazioni.
Straordinarie ed efficaci.
Ma, allora, la storia d'amore tra Carmencita e il caballero come finiva ?
Nessuna sorpresa. 
La conclusione era sempre la stessa e le parole le so ancora a memoria:


- Bambina sei già mia. Chiudi il gas e vieni via
- Pazzo ! L'uomo che amo è un uomo molto in vista.
  È forte, è bruno e ha il baffo che conquista.
- Bambina, quell'uom son mì

Oh yeh, yeh, yeh, yeh, yeh, oh yeh !






Un link su Carosello è qui
E qua uno su Armando Testa.
 
 

venerdì 21 ottobre 2011

Un anno di blog







E un anno è già passato……..

No, non è l’inizio di una canzone nostalgica di Guccini.
È un anniversario: è giusto un anno che ho aperto questo blog.



L’avevo iniziato, scrivendo solo per me, come una specie di diario virtuale e, poi, il 20 ottobre dell’anno scorso, spinta da amici del blog e del cuore, ho deciso di renderlo pubblico.


Mi sono accorta, andando avanti, che scrivo sempre più di storia dell’arte. Mi piace raccontarla: è la mia materia, il mio lavoro.




Ho trovato in questo strumento - per me del tutto nuovo - una maniera di comunicare che mi appassiona.

E ora dire “un anno e sembra ieri”, mi pare retorico.
Dire “ringrazio chi mi legge e chi mi commenta”, mi sembra talmente ovvio da suonare superfluo.

Però a passare sotto silenzio un anniversario come questo non ce la faccio. 
E allora ?

Allora: “Buon compleanno !”






venerdì 27 maggio 2011

….ma buona parte, sì.






"Non tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì".
Questa è la voce che circola, quando le truppe francesi, a partire dalla campagna del 1796, arrivano in Italia  a  diffondere i nuovi principi della Rivoluzione, ma  anche a trasferire in Francia- per ordine espresso di Napoleone- i capolavori d'arte italiana.
Si affermava pubblicamente che la Francia democratica era l'unico paese degno di conservarli; in realtà, tutti sapevano benissimo che erano  destinati ad arricchire il Louvre, ribattezzato nel 1803  Musée Napoléon, e a celebrare la gloria del condottiero.
Quelle opere sarebbero state "la più brillante conquista" del generale, sempre vittorioso.

Fu un saccheggio: carri e carri pieni di statue e dipinti lasciarono l'Italia con i funzionari francesi che controllavano e annotavano scrupolosamente il numero e  le condizioni delle opere. 
Dopo la sconfitta di Napoleone e le disposizioni del congresso di Vienna nel 1815, le opere d'arte sarebbero dovute  rientrate tutte in Italia. Invece, ne rientrò poco più della metà.
Intanto, quella confisca aveva indignato non solo gli uomini di cultura italiani, che, però per lo più, si limitarono a mugugnare, ma anche i più illuminati intellettuali francesi

E uno di loro non tacque.
Fu Antoine Quatremère de Quincy, architetto, filosofo e critico d'arte che, prendendo netta  posizione contro il trasferimento in Francia delle opere, scrive così al generale Francisco de  Miranda:

"Mille cause riunite hanno concorso a fare dell'Italia una specie di museo generale, un deposito completo di tutti gli oggetti che servono allo studio delle arti. Questo paese è il solo che possa godere di questo specifico privilegio …. Il vero museo di Roma, quello del quale io parlo, si compone, è vero, di statue, di templi, di colonne, … ma si compone altresì di luoghi, di paesaggi, di specifiche relazioni tra tutti i reperti, di memorie, di tradizioni locali, di paragoni e di raffronti che non possono farsi che sul posto"

È davvero così e sembra strano che sia stato uno straniero a pronunciare  quelle che sono tra le più belle parole mai scritte sui beni culturali  italiani.
Il patrimonio italiano  non è costituito solo da capolavori, ma da un territorio unico,  fatto di opere d'arte, ma anche  di paesaggio, di tradizioni, di rapporti. 
Non si può asportare un capolavoro, senza che l'ambiente circostante ne soffra e  non si può distruggere impunemente questo tessuto, senza privare le opere d'arte del contesto che le fa vivere.
E ora la situazione non è migliore di quella del periodo del saccheggio napoleonico, anzi.
Ormai  gran parte  dell'ambiente e delle relazioni che rendevano vivo questo tessuto  è distrutta: furti, degrado, mancanza di piani regolatori, condoni edilizi, abusivismo, speculazioni.
Molti partecipano a questo scempio.
Non tutti consapevolmente o per trarne un utile personale, ma buona parte sì.

Poche davvero le proteste e gran parte degli addetti ai lavori.
Cosa si possa fare non lo so.
"Conoscere per conservare" è uno dei concetti, in cui credo di più e che mi è stato trasmesso da uno dei più grandi storici dell'arte italiani, Andrea Emiliani, con cui ho avuto la fortuna di lavorare.
Per questo continuo, anche qui, a fare quello che faccio per mestiere. E a raccontare- per farle conoscere- le  piccole e le grandi storie dell'arte

Sperando che serva.




martedì 1 marzo 2011

Le zie non sono gentiluomini




Come dice il titolo di un libro di Wodehouse: le zie non sono gentiluomini.
E allora che cosa sono, che cosa rappresentano?
Molti testi specialistici sono dedicati alle relazioni familiari, figli- genitori, marito-moglie, fratelli, perfino suocera- nuora,  ben pochi, che io sappia, sono quelli riservati al rapporto zia-nipoti.

Eppure essere zia è importante: è ricoprire un ruolo diverso da quello dei genitori,è raccogliere confidenze, consigliare senza voler educare, è proteggere senza obbligare. 
Spetta, forse, alle zie anche il compito di radicare nei nipoti non le "piccole virtù" dell'educazione quotidiana, ma le grandi e anche il piacere di consentire quelle lecite stravaganze che i genitori non permetterebbero.

E io mi sento “zia” a tempo pieno.
Ho sei nipoti di varie età e di varie nazionalità (italiani, i miei, tedeschi, quelli di mio marito): tutti amatissimi.
Avevo vent'anni quando, per la prima volta, sono diventata zia.
Le mie zie paterne e materne erano allora, ai miei occhi, delle "vecchie signore" che incontravo regolarmente ai pranzi delle feste e che ritrovavo in tutte le occasioni liete o dolorose della vita familiare, ma a cui non avrei affidato il benché minimo segreto. 
Per quel ruolo che mi era piombato addosso e a cui non ero preparata non avevo, nella vita, alcun modello di riferimento.

Mi riconoscevo poco nell'idea diffusa della zia vecchiotta, con i capelli raccolti e gli occhiali, che priva di figli, vizia i nipoti con appetitosi manicaretti, leggendo favole o filastrocche infantili e, tanto meno, nella zia maliziosa che introduce i nipoti a gioie proibite (come nel  film "Grazie, zia"  di Samperi)
Cercavo modelli nei libri e lì davvero potevo scegliere tra la vecchia brontolona dal cuore d'oro della zia Betsy del David Copperfield, le zie pettegole e impiccione di Wodehouse, l'affascinante e protettrice Duchessa Sanseverina della Certosa di Parma oppure le zie innamorate delle "Sorelle Materassi" di Palazzeschi... 
Tanti libri, tante zie.


Ma quale prendere ad esempio ?

Fu un caso: alla televisione, un pomeriggio d'estate, vidi un film americano, tratto da un libro di Patrick Dennis, solo recentemente divenuto di successo.
Eccolo, finalmente, il modello: divertente, travolgente, anticonformista, viaggiatrice impenitente, lieve ma non superficiale, pronta ad accompagnare i nipoti ovunque, pronta ad accettare ogni confidenza senza mai giudicare (e, in più, bella e ricca).

Eccolo l'esempio- inarrivabile, certo- ma a cui almeno ispirarsi per scoprire con quanta leggerezza e, insieme, con quanta profondità si possa ricoprire il ruolo di zia.


Era lei: Zia Mame !







mercoledì 2 febbraio 2011

I punti- premio.




Come il Gregor Samsa di Kafka, o il dottor Jekill di Stevenson, anch'io sento che  dentro di me è  in atto una metamorfosi.



Tutto è cominciato  appena rientrata in Belgio, quando mio marito mi ha detto: "Ancora cinquecento punti del supermercato e riusciremo ad avere una pentola a pressione”. 
È stato l'inizio. 
Ho  sentito subito che quella pentola doveva essere mia, a ogni costo. 
So che non la userò mai, so bene che per averla occorreranno spese per almeno tremila euro, ma il richiamo dei punti premio è irresistibile.

È un virus: mi ha contagiato, qualche anno fa, quando, mangiando innumerevoli pacchi di "Frollini" e di "Morbidi abbracci", arrivai ad aggiudicarmi un raffinato quanto inutile set da colazione- compreso di fornetto scalda brioches- del Mulino Bianco.

L'uomo nasce cacciatore e raccoglitore, lo dicono gli antropologi. 
E quello della raccolta deve essere davvero un istinto primordiale, se si dice che perfino l'austera Marguerite Yourcenar dedicasse le pause della scrittura a riempire album di bollini.

Pullulano i mercatini, virtuali, destinati a favorire gli scambi di punti, dove gli annunci- sintetici e abbreviati- acquistano per i non addetti ai lavori un sapore surreale. 
Agli ignari di Friskies e punti Total lo scambio "Cibo gatto per benzina" può provocare l'improvvisa visione di felini motorizzati, mentre quello di "Centrale latte con Mulino" arriva ad evocare piani di riconversioni nel settore agro-alimentare. 
Meglio non indagare, poi, da  quali insondabili pulsioni derivi il ”Cedesi Pampers per Pizza Hut

Devo ammettere che ho sempre cercato di oppormi con tenacia a ogni richiamo dei punti.
Conosco bene la frenesia e la smania che mi prende. 
Temo che per accumulare bollini sarei capace di qualsiasi bassezza.
Però so, per antica esperienza, che le parole "punti premio", una volta pronunciate, si insinuano subdolamente dentro di me e fanno riemergere alla superficie l'istinto primitivo e mai sopito della "caccia".

La metamorfosi è irreversibile
Ho già selezionato i prodotti che danno più punti: sono disposta a comprare salse tandoori preparate in Belgio, formaggi "feta" danesi e perfino corrosivi yogurt bulgari.
La preda è là. Lo so, mi aspetta. 

Sono pronta.




giovedì 27 gennaio 2011

Pane e olio



Mi hanno detto che certi  medici nutrizionisti chiedono, per prima cosa, ai loro pazienti a quale alimento non potrebbero rinunciare.
Riuscire a farne a meno per un mese è la prova di essere seriamente intenzionati a cambiare regime alimentare.

Mi sono chiesta che cosa per me sia irrinunciabile.
La cioccolata, le meravigliose pralines di Bruxelles? Probabilmente no. 
Lo zucchero? Dipende. 
La pasta? Forse potrei sopravvivere.

L’olio? Ecco: l’olio. 
Dell’olio, davvero, non saprei fare a meno.
Sarà perché sono nata in Toscana, sarà perché sono cresciuta in campagna, sarà per la mia famiglia contadina: ma l’olio, no.

Non voglio scomodare Proust e la madeleine, ma è vero che ci sono dei sapori che ci rimandano direttamente alle nostre memorie e al nostro passato. 
Per me sono pane, sale e olio. 
C’è un bel racconto nell’”Oro di Napoli”, in cui Giuseppe Marotta ne rievoca il sapore come l’odore dell’infanzia, il segno dell’appartenenza. Lo condivido appieno.
E mi vengono alla mente certe giornate appena tiepide di novembre, in cui si raccolgono le olive, l’odore aspro e intenso del frantoio, un colore verdissimo, iridescente e un sapore, amaro, pungente: l’olio novello. Irrinunciabile.



Chi mi conosce sa che non so cucinare. 
A Bruxelles vivo del buon cuore e dell’ottima cucina di mio marito. 
Quando sono da sola, in Italia, a Bologna, mi nutro di scatolette o mono-porzioni  surgelate da riscaldare nel forno a microonde, anche se leggo avidamente -con un’ammirazione direttamente proporzionale alla mia incapacità– i gustosi blog di cucina delle mie amiche.

Ma una ricetta per una volta –e sarà l’unica- la vorrei dare anch’io. 
È quella in cui l’olio dà il massimo di sé, una ricetta da amatori, da appassionati.
Non inganni l’apparente semplicità. 
Come tutti i piatti fondamentali ha provocato diatribe insanabili tra intenditori e scuole di pensiero diverse.
Si è discusso sulla quantità e il tipo d’olio, sullo spessore del pane, sullla presenza o meno del pomodoro e perfino sull’eventuale aggiunta del rinforzo saporito del pepe.

In Toscana è la  fettunta.

Gli ingredienti per due persone sono: quattro fette (almeno due per ciascuno,) di pane toscano (senza sale) “raffermo” ( quello del giorno prima) e tagliato sottile, uno spicchio di aglio ( meglio se fresco), olio nuovo extravergine di oliva preferibilmente toscano (inutile dirlo) e poi sale e pepe .
Prima bisogna fare abbrustolire il pane sulla griglia e poi strofinarci lo spicchio di aglio, quindi disporre le fette su un piatto grande o su un vassoio e aggiungere nell'ordine il sale, il pepe e l’olio, in abbondanza

Da servire caldo e assolutamente senza pomodoro o altre discutibili aggiunte.






domenica 9 gennaio 2011

I grandi enigmi




Ci sono giorni in cui la realtà sembra frantumarsi in una serie infinita di sensazioni. 
Ci sono giorni in cui non siamo più capaci di dominare la mutevolezza del mondo sensibile, in cui ci sembra di non trovare un unico principio ordinatore, qualcosa che dia senso a tutto. 
Che fare allora ? 
C'è chi rilegge i filosofi dell'empirismo: i saggi di John Locke o il "Trattato" di David Hume, c'è chi ritorna alle teorie di Cartesio.

Io preferisco affidarmi alla "Settimana Enigmistica".

Sono anni ormai che la Settimana Enigmistica mi rassicura e che mi conferma che esiste un punto  immutabile nell'infinita varietà e nel costante fluire del cosmo.


Come gli adepti di una setta, che vada da un un raffinato semiologo come Umberto Eco, a una storica dell'arte dismessa, a una distratta casalinga, i lettori si sono ormai assuefatti alla veste grafica invariabile, ai colori del titolo che si susseguono secondo uno schema fisso: blu, verde e rosso. 
Ne ripercorrono con orgoglio la storia, sicuri che nessun periodico vanti come fondatore, nel 1932, un Cavaliere del Lavoro, Gr.Uff. Dott.Ing. come il conte di Sant'Andrea Giorgio Sisini. 

Sono certi che nessun altro settimanale abbia mai subito interruzioni nelle sue uscite, se non quella inevitabile, dati gli eventi bellici e politici, del 14 luglio 1943.
Insomma, la Settimana Enigmistica, così come la squadra di calcio preferita, è una fede, non si discute e non si cambia.

Come potremmo fare senza il poliedrico signor Brando, protagonista di fatti apparentemente inspiegabili, l'astuto Guerrin la Volpe o gli intelligentissimi Gianni e Susi, capaci di risolvere ogni problema matematico?

Cosa sarebbe di noi, privati delle parole crociate senza schema, degli incroci obbligati, dei cruciverba dei Bartezzaghi, del Bersaglio o degli enigmi destinati ai "solutori più che abili" ?
Come sarebbe carente la nostra cultura generale, senza rubriche come l'Edipeo enciclopedico, "Forse non tutti sanno che..", oppure le stuzzicanti curiosità dell'"Incredibile ma vero".

Settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, i giochi si susseguono con la stessa sequenza, i rebus propongono soluzioni invariate, la "Pagina della Sfinge" riesce a sciogliere ogni possibile ambiguità.

Altri cerchino pure consolazione e rifugio nella filosofia o nell'esoterismo, io le mie risposte le trovo nella Settimana Enigmistica.





Baustelle : L'estate enigmistica:
http://www.youtube.com/watch?v=bdolcKZRDLg





venerdì 24 dicembre 2010

Vigilia




Cosa ci posso fare ? 
Per me Natale non è Natale senza il film di Frank Capra.
Lascio vuota la casa a Bruxelles e arrivo in Italia troppo tardi per fare l'albero o allestire il presepe. Non compro nemmeno la classica "Stella di Natale", tanto so che seccherebbe subito e rimarrebbe là, gialla e senza fiori: un memento della caducità delle cose umane, piuttosto che un lieto simbolo natalizio.


Ma il 24, per la vigilia, so cosa fare per ritrovare il "mio " Natale. 
Preparo DVD, televisore, luci soffuse e inserisco nel lettore "La Vita è meravigliosa".
Ormai è diventato un rito. 
Conosco a memoria la storia dell'onesto George Bailey della moglie Mary, dei bambini e di Clarence Odboody, l'angelo di seconda classe in attesa di promozione.

Evasione, fuga dalla realtà? Forse. 
Ma perché: le renne e il Babbo Natale non lo sono? 
Allora meglio trasferirsi a Bedford Falls e aspettare che la solidarietà natalizia vinca ancora una volta.



Per chi non lo conosce:
http://it.wikipedia.org/wiki/La_vita_%C3%A8_meravigliosa

martedì 7 dicembre 2010

Io e il Limbo




Chubby Checker, Limbo rock


Sono nata d'inverno, poco prima della mezzanotte, in un dicembre freddo e piovoso.
Sono nata a rischio, in anticipo di un mese, del tutto inattesa, tanto che non è stato possibile andare alla Maternità e la levatrice è arrivata a casa giusto in tempo, lamentandosi per il freddo e per l'uscita non programmata.
I miei aspettavano un maschio e c'era già pronto il nome.
Sergio, mi sarei dovuta chiamare, come il protagonista di un romanzo rosa, ambientato nella Russia degli zar, tra slitte, camini accesi e passioni focose.
Erano talmente sicuri che non avevano previsto alcun nome femminile.

Mia nonna Maria, subito accorsa, era convinta, nelle sue salde certezze contadine, che i neonati prematuri, quelli a rischio come me, si dovessero battezzare subito o, almeno, che si dovesse immediatamente dar loro un nome.
Diceva che il nome li avrebbe sottratti al Limbo, il luogo destinato nell'aldilà ai bambini innominati. E allora, velocemente, di nomi ne furono trovati due: Grazia e, come secondo  (per precauzione), Teresa, la Santa del giorno.
Ma se così non fosse stato ?


"Grazia, Grazia pensa che ci potevi finire nel Limbo": mi diceva, ogni tanto, mio padre, per scherzo, quando ero piccola.
La frase mi suonava oscura, misteriosa, ma non mi faceva paura, perché il Limbo era entrato, piano piano, a far parte delle fantasie della mia infanzia.


Nessun legame con la religione.
Intanto mi piaceva la parola in se stessa, il suono puro, musicale.
Poi era diventato per me un luogo dell'immaginazione.
Con le mie sorelle, fin da piccole, eravamo abituatea crearci  per gioco degli spazi immaginari: l'Isola del Tesoro oppure i Regni meravigliosi di principi e principesse.

Il Limbo non era propriamente tra questi: era, comunque, per me un territorio a metà tra il vero e il falso, legato al momento che mi piaceva immaginare straordinario in cui, appena nata, ero rimasta impigliata tra due mondi.
Era il momento in cui ero stata magicamente trattenuta nel mondo reale, con la scelta di un nome, del mio.
Rimaneva un luogo fantastico, privilegiato, che un po' mi apparteneva, raccontato dalle parole di mia nonna e da quelle, allora per me più evocative che comprensibili, della poesia.
Erano i versi della Divina Commedia, recitati da mio zio, che mi parlavano del Limbo come di una sede, meravigliosa, abitata da bambini, da poeti e da eroi, i cui nomi cominciavo appena a conoscere: Omero, Ettore.... perfino il Saladino.
Poi per molti anni, per decenni, non ci ho pensato più.

Il nome si legava piuttosto a un'iconografia di dipinti, a un ballo, a un gioco, perfino a un film.
Ma, proprio ieri, ho letto, per caso, in un vecchio articolo di giornale che, seguendo moderni studi di teologia, il Limbo, il "mio" Limbo, quello dei bambini senza nome, era stato da tempo e, a mia insaputa, cancellato, abolito.
Insomma non esisteva, non era mai esistito.
E allora di colpo mi sono ricordata delle mie fantasie infantili e per un momento ho provato una delusione cocente, mi sono sentita sguarnita, privata di una possibilità di sogni.
È stato come quando una compagna di scuola, saputella e un po' crudele, mi aveva detto che non esistevano né Babbo Natale, né la Befana.

Mi sono resa conto d'improvviso che qualcosa mi era stato tolto e che mi sarebbe mancato.
Davvero.





 
Divina Commedia IV Canto dell''Inferno letto da Vittorio Sermonti