Se foste capitati a Venezia, in un assolato sabato d'estate, il 18 luglio del 1573, avreste notato, tra i passanti, che cercavano di sfuggire la calura, un gentiluomo elegante di una quarantina d'anni, con i capelli rossicci, che camminava lentamente, assorto nei suoi pensieri.
Se aveste chiesto chi fosse, vi avrebbero risposto che era un pittore. Una persona famosa, ben educata e rispettata da tutti.
Vi avrebbero sussurrato che, da quando si era trasferito da Verona, aveva percorso tutti i gradini della carriera e che ora era a capo di una delle botteghe più importanti della città. Poi avrebbero aggiunto, con aria ammirata, che, poco tempo prima, perfino un maestro riverito come Tiziano gli aveva reso omaggio con un abbraccio, sotto gli sguardi di tutti, in piazza san Marco.
Quell'uomo è Paolo Veronese e, proprio quel giorno, è stato convocato di fronte al Tribunale dell'inquisizione.
Si ha un bel dire che a Venezia l'Inquisizione sia più mite che altrove.
In realtà il solo nome può bastare a turbare anche il più morigerato e scrupoloso degli uomini.
Eppure lui è sicuro che, in fatto di ortodossia, non ha nulla da rimproverarsi: ha troppo da lavorare per avere il tempo di indulgere in dubbi teologici o di lasciarsi invischiare nelle critiche dei luterani.
Non è un pensatore, lui, e, meno che mai, un filosofo: è un pittore.
In effetti è proprio in veste di pittore che è stato convocato: il motivo sta tutto nell'enorme tela (cinque metri per dodici) con una "Cena" affollata di personaggi, che ha ultimato, due mesi prima, per il refettorio del convento domenicano di san Giovanni e Paolo (ora alle Gallerie dell'Accademia di Venezia).
Gli hanno detto che nel suo quadro c'è qualcosa che non va e questo lo preoccupa. Sa bene che, dopo il Concilio di Trento, il controllo della Chiesa sulle immagini si è fatto rigoroso.
Ora che è arrivato nella chiesa di san Teodoro, sede del Tribunale, si sente pronto a spiegare tutto.
Il verbale dell'interrogatorio, stilato con tanta accuratezza da trasmettere perfino la dolcezza della parlata veneziana, ci restituisce tutte le fasi del processo.
A leggerlo sembra di essere là, ad ascoltare l'inquisitore che interroga e Paolo Veronese che risponde, con calma, a tutte le domande.
Le prime riguardano il soggetto.
Che "Cena" sacra è mai quella, in cui, insieme a Cristo, san Pietro e san Giovanni, partecipano servitori poco ammodo, gente in armi e buffoni?
Se fosse un' "Ultima Cena" mancherebbe una buona parte degli apostoli e, soprattutto, mancherebbe Giuda. Nemmeno i gesti, poi, sono quelli codificati dall'iconografia tradizionale.
Se rappresentasse un'altra "Cena", quella a casa di Simone, descritta nel Vangelo di Luca, mancherebbe, pur sempre, uno dei protagonisti: la Maddalena pentita che lava e asciuga con i capelli i piedi di Cristo.
Veronese ammette che il priore del convento di san Giovanni gli aveva consigliato di inserire la Maddalena "in luogo de un can" (al posto del cane in primo piano).
Ma ribatte: "Mi ghe risposi che volenteria haveria fatto...ma che non sentiva che tale figura..potesse zazer che la stesse bene".
Insomma, fa capire che, per lui, quello che conta è l'equilibrio del dipinto.
La Maddalena avrebbe turbato l'armonia della composizione.
Per questo non l'ha messa: tutto qui.
A questo punto si fanno più pressanti le obiezioni sul ruolo dei personaggi secondari, che affollano la scena, apparentemente senza alcun motivo
"Quel vestito da buffon col papagalo a che effetto l'avete depinto?":- incalza l'Inquisitore.
"Per ornamento":- risponde, con semplicità, Veronese.
E tutti quelli che stanno attorno a Cristo, compreso "l'uno che ha un piron (una forchetta) che si cura i denti" che ci stanno a fare?
E, soprattutto:- "Chi credete voi che se trovase in quella Cena?".
Veronese replica con un candore che sembra finto: "Credo che si trovassero Christo coi suoi apostoli, ma se nel quadro avanza spazio, io lo adorno di figure".
Altro che eresia! È una semplice questione di vuoti da colmare.
Purché fossero fuori dalla scena della "Cena" vera e propria, non gli è sembrato sconveniente nemmeno inserire un servo che perde sangue dal naso, così come "imbriachi, todeschi (alabardieri), buffoni e nani".
Il quadro è grande e di figure ne contiene parecchie.
Lui non ha fatto altro che mettervi dentro tutte quelle che ci stavano e che la sua immaginazione gli ha suggerito.
Le domande continuano e Veronese risponde, esponendo le sue ragioni, che sono sempre quelle della pittura.
Per riassumerle, gli è venuta a mente una frase, scritta, tanto tempo prima da un poeta latino, Orazio.
Una frase più volte ripetuta, ma che, in quel momento, gli appare la più adatta e la più vera: "Noi pittori ci pigliamo la licenza che si prendono i poeti e i matti".
Gli sembra che in queste parole stia il nocciolo della questione.
Non credeva di essere in errore ed è stato ben attento a non mescolare il sacro col profano:
"Signore Illustrissimo- conclude- pensavo de far bene et de non fare... disordine nesuno, tanto più che quelle figure di buffoni sono de fuora del luogo, dov'è il nostro Signore".
L'interrogatorio è finito. Veronese si è difeso bene.
Ora attende la sentenza E la sentenza arriva, infiorettata da una serie di formule latine, ed è più mite di quello che si era aspettato.
Di lì a poco, con una bella iscrizione, dipinta sulla balaustra della finta inquadratura architettonica, dovrà specificare il soggetto del dipinto: la "Cena in casa di Levi". È il convito, descritto nel Vangelo di Luca e offerto a Cristo dal pubblicano destinato a diventare l'apostolo Matteo.
Una scena meno impegnativa e dove si possono inserire, senza scandalo, anche i dettagli più coloriti.
Per l'Inquisizione il cambio di titolo è sufficiente: la tela potrà essere esposta così com'è e non occorrerà cancellare alcuna figura.
È fatta. Dipinto e pittore sono usciti indenni dal processo.
Paolo Veronese potrà continuare a intessere le sue tele con levità e fantasia e a prendersi "la licenza dei poeti e dei matti".
La libertà dell'artista, apparentemente, ha trionfato.
Questa è l'interpretazione tradizionale. La realtà fu, probabilmente, più complessa: una diversa lettura del processo è nel recente libro di Maria Elena Massimi, La cena in casa di Levi di Paolo Veronese. Il processo riaperto, ed. Marsilio 2012 (qui è il link)