venerdì 28 novembre 2014

I fiori del paradiso di Séraphine de Senlis




Un albero fantastico, dove i colori sono accesi, le foglie splendenti come fiamme e dove- nella chioma lussureggiante- sembrano aprirsi occhi misteriosi.
È l’”Albero del Paradiso”, una tela di quasi due metri per uno, conservata in Francia al Museo di Senlis: 


Siamo intorno al 1930 e, quando dipinge questa  natura rigogliosa, Séraphine Louis, nota come Séraphine de Senlis (1884-1942), ha passato da un po' la quarantina e ha dietro di sé una vita che sembra un romanzo. 
Orfana, è entrata a servizio fin da bambina, passando da una famiglia all'altra e poi, per vent'anni, ha fatto la domestica in un convento. 
Da poco, si è trasferita a Senlis, una cittadina non lontana da Parigi.
Massiccia, sgraziata, sempre silenziosa, non si trova  a suo agio con la gente e ha pochi contatti con gli altri. 
È lenta nel capire, parla poco e male: una povera mentecatta la definiscono i più crudeli. 
Nei suoi pochi momenti liberi, passeggia nei campi, con un cappello di feltro e uno scialle scuro: qualcuno dice di averla vista abbracciare gli alberi, accarezzare l’erba e parlare con i fiori. 
Porta sempre con sé un ombrello e un paniere in cui tiene nascosta una bottiglia di vino. 
Per il resto, conduce la  vita  degli "invisibili", lavorando per pochi centesimi all'ora non come una cameriera con tanto di grembiule e crestina, ma come una serva tuttofare, a cui si affidano i compiti più ingrati  e faticosi: pulire i pavimenti, incerare i mobili o lavare la biancheria. 
Lei li definisce i suoi "lavori neri”. 
I "lavori colorati", invece, sono quelli che fa di notte, nella sua stanzetta, al lume di una lampada a olio: lì, china per terra, dipinge fino allo sfinimento, con i pennelli e con le dita, su piccole tavolette recuperate qua e là e, intanto, canta le lodi della Madonna o mormora litanie sacre. 
Religiosissima, considera i suoi quadri come preghiere, in cui  rende omaggio a Dio, raffigurando quello che ama di più: gli  alberi, i cespugli, i fiori selvatici o la frutta che cresce nei campi. 
Nei suoi dipinti non ci sono mai edifici, né oggetti, né presenze umane o animali. 
Solo tripudi di fiori e di foglie che invadono tutto lo spazio con le loro tinte accese, come in queste "Foglie rosse", ora al Museo di Senlis: 


Entrando nella grande cattedrale di Senlis, è rimasta colpita dai colori smaglianti delle vetrate. 
Sono quelle le tinte che vorrebbe nei suoi dipinti, ma non ha soldi per comprarsele. Allora decide di fabbricarle da sola: con astrusi procedimenti estrae  succhi colorati dalle piante e dalle bacche e li mescola con il sangue che raccoglie nella macelleria, con le terre dei boschi, con l'argilla degli stagni o con l'olio che sottrae dai lumini della chiesa. 
E mantiene gelosamente il segreto su quelle strane misture che danno ai suoi dipinti un effetto lucido come di smalti. 

A Senlis, i più la guardano con un misto di pietà e di disprezzo e giudicano le sue pitture come stranezze di una squilibrata. 
Qualcosa cambia, quando, nel 1912, si stabilisce, in città un raffinato critico e collezionista tedesco, Wilhelm Uhde, amico ed estimatore di artisti come Picasso, Braque, Rousseau o Marie Laurencin.  
Séraphine  va  a casa sua tutte le mattine per fare i lavori pesanti. Per lui non è che una domestica qualsiasi, quando, per caso, scopre i suoi dipinti colorati e stravaganti. 
È una folgorazione: per lui quella donna silenziosa ha un vero talento e i suoi dipinti sono opere d'arte. Tanto che fa di Séraphine la protagonista del libro che sta scrivendo sui pittori autodidatti, o, come preferisce definirli, "primitivi moderni"
È un incontro, quello tra Uhde e Séraphine, che segna la loro vita. Apparentemente lontani, sono in realtà molto  simili. 
Tutt'e due sono soli: lei con le sue visioni religiose e la sua incapacità di comunicare con il mondo; lui, omosessuale, con la sua  vita appartata e il suo timore di affrontare il giudizio degli altri.
Con la prima guerra, Uhde, cittadino tedesco, è costretto a lasciare la Francia e Séraphine torna ai suoi "lavori neri". 
Solo qualche anno dopo, Uhde potrà rientrare a Senlis e riprendere i contatti.
Finalmente Séraphine, contenta di essere apprezzata come artista, inizia a dipingere a cavalletto tele sempre più grandi. 
Dipinti di due metri con  alberi che sembrano nascere dalle sue visioni mistiche, come questo "Albero della vita", ora al museo di Senlis: 


Oppure come questo "Mazzo di foglie che sembrano piume di bizzarri uccelli (ora in collezione Dina Viery): 


O queste straordinarie "Margherite bianche" del Museo di Senlis:  


Con i soldi che riceve, Séraphine affitta un piccolo appartamento e compra oggetti che a lei, poverissima, sembrano il simbolo stesso del lusso: qualche tappeto, tovaglie ricamate, un po' argenteria. Si direbbe che sia  finalmente serena. 
Ma nel 1929, la crisi economica colpisce anche Udhe che, sommerso di debiti, non è più in grado di darle altro denaro. Per lei è un colpo durissimo: comincia a dubitare di sé e della sua arte. 
Il suo fragile equilibrio si infrange. Sempre più ossessionata dalle sue voci interiori e dalle sue manie di persecuzione, non mangia più per timore di essere avvelenata, vaga per le strade annunciando la fine del mondo, canta salmi per notti intere. 
Alla fine, qualcuno, esasperato, chiama la polizia. 
A quel punto- siamo nel 1932- appare inevitabile internarla in un manicomio. 
Da allora in poi, non dipingerà più.  
"La pittura è scomparsa nella notte... non si fa arte in questi posti": scrive in una lettera.  

Dopo la seconda guerra, nel 1945, Udhe, che, finché ha potuto, si è tenuto in contatto con lei, organizza a Parigi quella  mostra personale che Séraphine aveva sempre desiderato. 
Ora non è più considerata una povera pazza: i suoi quadri piacciono ed emozionano. I visitatori ne sono entusiasti.
Ma ormai è troppo tardi. 
In una sera del durissimo inverno del 1942, nella Francia occupata, Séraphine è morta in manicomio di fame e di stenti ed è stata sepolta in una fossa comune. Proprio lei che aveva lasciato scritto di sognare "un funerale di prima classe con tutti i signori in lutto, la messa e la musica".
E che avrebbe voluto fosse inciso sulla sua lapide "Qui riposa Séraphine Louis, senza rivali, in attesa della sua felice resurrezione"







"Séraphine"', il bellissimo film di Martin Prevost del 2009 (qui), è il modo migliore di conoscerla e di amarla.




sabato 22 novembre 2014

Il mondo sottosopra: le fotografie di Philippe Ramette




Un uomo, in un elegante abito scuro, cammina sul tronco di un albero in una bella giornata d'autunno:


Lo stesso distinto personaggio, con la sua impeccabile giacca doppiopetto, solca il mare nei pressi della riva, mentre tutto intorno è sottosopra:


Poi, con un'invidiabile compostezza, levita a mezz'aria nel parco di una villa:


Oppure, senza mostrare il minimo timore, cammina sulla parete di un salotto:


Impassibile e ben vestito, sfida non solo ogni legge di natura, ma anche il più comune buon senso.
Gli manca solo la bombetta per apparire come uno di quei surreali ometti che popolano i quadri di René Magritte.
Ma qui non siamo nell'universo fittizio della pittura: qui è tutto vero e quell'uomo che, nelle situazioni più improbabili, conserva la stessa flemma di un attore del cinema muto come Buster Keaton, è l'artista francese Philippe Ramette (qui).
Nato nel 1961, disegnatore, scultore e fotografo, vive e lavora a Parigi. È lui che, qualche anno fa, ha avuto l'idea di giocare con se stesso e con la realtà, abolendo- per il tempo breve di uno scatto fotografico- le leggi fisica e della gravità.

Perché le sue foto non sono affatto- come si potrebbe pensare- frutto di un fotomontaggio o create con un raffinato programma al computer.
Qui, come direbbe un prestigiatore: "non c'è trucco e non c'è inganno" (almeno digitale).
"Sicuramente si potrebbe fare una manipolazione a computer- afferma Ramette- ma quello che mi interessa, invece, è il paradosso, è cercare di razionalizzare l'irrazionale".

Dietro le sue foto, infatti, c'è un lavoro da certosino che inizia con un album di disegni di vere e proprie sceneggiature. 
Poi un gruppo di fedeli collaboratori si incarica di realizzarle, a partire dal suo complice di sempre, il fotografo Marc Domage, capace di sfruttare ogni angolazione per rendere la foto più verosimile e, allo stesso tempo, più assurda possibile. 
Insomma, è come la produzione di un un film, di cui Ramette è il regista.

Qui, ad esempio, come in un fotogramma bloccato, il nostro uomo in nero, sembra contemplare una città in bilico su un cornicione, in un  atteggiamento che ricorda sia il protagonista di un film d'azione che l'eroe romantico di un quadro di Friederich.


Senza mai un capello fuori posto, Ramette si sottopone a pose faticose e non esenti da rischi: in piedi o seduto, sospeso nel vuoto o nelle posizioni più strane.
Niente paura! Anche se non si vede, è sostenuto da piattaforme, da anelli alle caviglie o da supporti rigidi inseriti nei vestiti e da tutta una serie di strutture o- come li definisce lui stesso- di "oggetti" che costruisce, per lo più, da solo e "che servono da punto di partenza per delle micro-finzioni".
E poi, ovviamente, non gli manca un'innegabile dose di sangue freddo.

Come qui, dove, parallelamente all'acqua dell'oceano, attraversa, con la consueta impassibilità, la baia di Hong Kong, quasi fosse appoggiato alla balaustra del balcone di casa:


Nessuno sforzo è troppo per lui, anzi è sempre pronto ad affrontare situazioni quanto meno poco confortevoli.
Come nella serie intitolata "Esplorazione razionale dei fondi marini", dove Ramette si cimenta addirittura con delle foto realizzate in apnea, per cui ha dovuto preparare minuziosamente le sue immersioni al largo della Corsica e ha chiesto la collaborazione di un'intera squadra di sommozzatori.
Ed eccolo, mentre con l'immancabile giacca e cravatta, si orienta sott'acqua, leggendo una carta:


Oppure mentre, tranquillamente seduto, osserva il paesaggio sottomarino:


In un video (qui) Philippe Ramette spiega gli avventurosi processi tecnici che precedono gli scatti delle sue fotografie. 
Ma, forse è meglio non indagare troppo per lasciarsi conquistare dalla magia (e dalle sensazioni vertiginose) delle sue immagini.
Come questa, dove, seduto sul bordo di un precipizio nel Sud della Francia, nella posa del "Pensatore" di Rodin, contempla, con tutta calma, la strada stretta e piena di curve che sembra correre sotto di lui:


"La mia idea- spiega-è quella di rappresentare un personaggio che abbia uno sguardo diverso sul mondo e sulla vita quotidiana. Nelle mie foto non c'è alcuna attrazione per il vuoto, ma la possibilità di acquisire un altro punto di vista".
Con leggerezza, apparente disinvoltura e -perché no?- un pizzico di follia, Ramette  restituisce, nelle sue foto, l'idea di una società che ha perso ogni punto di riferimento.
Con umorismo, ironia e il suo immutabile completo da funzionario modello, cerca di scardinare la nostra razionalità e modificare la nostra maniera di vedere le cose, costruendo un suo universo, insieme bizzarro e familiare, dove si può camminare sotto il mare e la gravità non esiste.
Come solo un grande illusionista o un vero artista sa fare.




martedì 18 novembre 2014

L'Annunciazione nelle Fiandre: il trittico Merode



Ancora un viaggio nella pittura fiamminga?  
Prima di partire, però, sarà meglio armarsi di una buona lente di ingrandimento e, soprattutto, di pazienza perché stavolta entriamo addirittura all'interno del trittico Merode (il nome deriva dagli antichi proprietari), attribuito alla bottega di Robert Campin (ne ho parlato qui) e ora al Metropolitan Museum di New York (qui).

Nei tre pannelli, un giardino, un salotto e la bottega di un artigiano con una finestra aperta su una tipica città delle Fiandre, con le sue case, le sue piazze e i suoi abitanti affaccendati.


Siamo tra il 1422 e il 1430, gli stessi anni in cui, nel cielo della pittura italiana, trascorre la folgorante meteora di Masaccio. 
Qui, però, sembra di essere in un altro mondo, simile, ma non uguale, a quello a cui siamo abituati. 
Nessuna sintesi, nessuna definizione prospettica dello spazio, ma un pullulare di dettagli che la pittura a olio rende vivi e reali.

Nel pannello centrale, è rappresentato l'interno di una casa, e, proprio lì, in un lindo salotto borghese, tra un tavolo e una panca, si svolge niente di meno che la scena dell'Annunciazione. 
Nella stanza, è appena entrato un angelo dalle ali multicolori e dalla veste bianca, con una tale discrezione che la Madonna non se n'è nemmeno accorta. 

Si è inginocchiato con riverenza, e ora, con la mano alzata, cerca timidamente di richiamare l'attenzione. 
Quasi avesse paura di disturbare la Vergine che, seduta per terra in segno di umiltà, è assorta nella lettura di un libro di devozione, avvolto, rispettosamente, in un candido lino. 
Qui a illustrare il momento solenne dell'Annunciazione, non ci sono apparizioni di Dio Padre o della colomba dello Spirito Santo tra nuvole splendenti. 
Però, se guardiamo bene, vediamo che è comparso dalla finestra un minuscolo Gesù Bambino che porta una croce: è il cosiddetto Verbo incarnato, il simbolo per eccellenza dell'Incarnazione. 

I raggi dorati, da cui scaturisce e che passano attraverso il vetro, senza scalfirlo, alludono alla gravidanza verginale di Maria. 
Eccola, dunque, l’apparizione divina che mancava, simbolica, ma allo stesso tempo, talmente concreta da spegnere, muovendo l'aria, la candela ancora fumante sul tavolo.  
E ora, come nella pittura di Jan van Eyck (ne ho parlato qui), sembra che ogni particolare di quella stanza tranquilla nasconda un significato più profondo.
Il bacile di rame pieno d’acqua, l'asciugamano immacolato alla parete o il fiore di giglio nel vaso posato sul tavolo, che ha la dignità di un altare, evocano la purezza di Maria. Le finestre semichiuse la sua vita appartata, la candela spenta sopra il camino la superiorità della luce divina su quella naturale. Perfino i leoni, scolpiti sui braccioli della panca, rimandano al trono del  saggio re Salomone dell'Antico Testamento. 


Nel pannello di destra, è raffigurato San Giuseppe, che, normalmente, non compare mai nella scena dell’Annunciazione.
È vero che i due ambienti non comunicano e che il Santo sembra completamente ignaro dell’evento sacro, tanto che, senza distrarsi, continua il suo lavoro, forando, con una trivella a mano, una tavola di legno, per farne un parafuoco simile a quello che protegge il camino del salotto.
I suoi utensili sono sparsi sul tavolo e per terra, mentre, dalla finestra aperta, si intravede una strada della città. 

Una bottega da falegname come tante, se non fosse per due oggetti, uno sul davanzale e l’altro sul tavolo, collocati in una posizione così evidente da catturare immediatamente l'attenzione. 
Capire cosa siano è facile: sono due banali trappole per topi. 
Capire, invece, cosa ci stiano a fare vicino all'Annunciazione è tutt'altra faccenda!
Per scoprirlo bisogna addirittura scomodare Sant'Agostino e il brano in cui spiega come l’Annunciazione, l’Incarnazione di Cristo e la Passione, non rappresentino nient'altro che una "muscipula diaboli", vale a dire la trappola che, nel disegno divino, si è resa necessaria  per catturare e sconfiggere il demonio.
Ecco, dunque, ancora una volta, un simbolo che assume la concretezza di un oggetto quotidiano. 

Fin qui tutto è chiaro (o, almeno, spero), ma  resta ancora il pannello di sinistra.


In un giardino chiuso da mura, l"hortus conclusus" che allude alla verginità di Maria, sono inginocchiati i due committenti, identificati, grazie agli stemmi nella parte superiore della finestra, come membri di una ricca famiglia di mercanti residente a Malines: un gentiluomo elegantissimo e la moglie con il tipico copricapo delle donne maritate e un rosario di corallo in mano. 
C'è da dire, subito, che la figura della donna è un’aggiunta posteriore. 

Così come successiva è quella dell’uomo col cappello di paglia, che si è fermato rispettosamente sulla porta del giardino che è vestito con l'abbigliamento tipico dei messi municipali di Malines. 
Un messo comunale...questa, poi! 
Certo che in questo dipinto, apparentemente così facile, tutto deve essere interpretato. 
Niente paura: anche qui c'è una spiegazione. 

Il trittico sarebbe stato richiesto alla bottega di Campin prima del matrimonio del committente. 
Solo dopo le nozze, a qualche anno di distanza, Rogier van der Weyden, allievo di Campin, sarebbe stato incaricato di aggiungere le due figure.  
La donna, evidentemente, è la nuova sposa, mentre il timido messo che evoca l'angelo della scena principale, potrebbe annunciare- con la sua sola presenza- una gravidanza, non certo soprannaturale ma, quanto meno, insperata. 

In tal caso, il dipinto non sarebbe che un ex voto di ringraziamento per affidare alla protezione della Vergine Annunciata la nuova famiglia. Probabilmente- viste le dimensioni ridotte (64 cm di altezza per una larghezza totale di 120 cm)-  non era destinato ad essere appeso sull'altare di una chiesa, ma  in un salotto di casa non tanto dissimile da quello raffigurato.
Visto? Con un po' di pazienza, il viaggio è terminato e, come nelle ordinatissime abitazioni fiamminghe, ogni cosa ha trovato il suo  suo posto. 
In questa nitida dimensione casalinga, il mistero dell'Annunciazione non sgomenta più: soprannaturale e vita quotidiana si  mescolano, complessi riferimenti teologici sono nascosti negli oggetti più comuni  e, per rappresentare la sconfitta del demonio, basta  soltanto una trappola per topi.








Per chi voglia approfondire l'interpretazione del Trittico Merode (e la pittura fiamminga in generale), i testi di Erwin Panofsky (qui) e di Meyer Schapiro (che in un saggio straordinario ha chiarito il simbolo della trappola per topi: qui ) rimangono una lettura indispensabile.


venerdì 14 novembre 2014

TwittArte: parlare d’arte su Twitter con Art-B Tweets



C'è qualcosa di nuovo tra i blogger d'arte:#artbtweets!

Lunedì 17 novembre, dalle 21,30 alle 22,30, su Twitter prenderà il via una chat d’arte:  Art-B Tweets (#artbtweets è l’hashtag ufficiale), nata da un'idea condivisa da diversi blogger d’arte.
L’intento  è quello di creare su Twitter un luogo di discussione e di scambio sull'arte e sulla maniera di comunicarla. 
Quelli che frequentano Twitter sanno bene che in altri settori, dai viaggi, alla cucina, alla politica, le chat sono molto diffuse e coinvolgono una marea di utenti. 
Finalmente, da lunedì 17 novembre, ci sarà anche una chat specifica sull'arte.



Ogni lunedì, i blogger, che hanno deciso di dare vita al progetto, proporranno un tema, attraverso sei domande, poste ogni dieci minuti (la prima alle 21,30, la  seconda alle 21,40… e così via). 
Ogni domanda sarà preceduta dalla sigla D1, D2, D3 e chiusa dall’hashtag  #artbtweets. 
Gli utenti di Twitter  che vorranno rispondere o commentare lo potranno fare  con  la formula R1, R2, R3...+ riposta+ hashtag, oppure scrivendo liberamente la propria opinione, ma senza mai dimenticare l’hashtag.
La prima chat sarà moderata da Finestre sull’arte, poi, nelle settimane seguenti, si alterneranno tutti i blog che partecipano all'iniziativa che, in ordine alfabetico, sono per ora: Arte a modino, Finestre sull'arte, Mostre-rò, Mo(n)stre, The Art post Blog. Ovviamente ci sarò anch'io di Senza dedica. 

Lo so: sembra complicato. Ma, credetemi, è più difficile scriverlo che farlo! 
E lo dice una che ha  cominciato a usare Twitter  da poco e che ignorava, fino a qualche giorno fa, perfino l’esistenza dell’hashtag.
Partecipare a questo progetto mi è sembrata, da subito, una bella sfida: la difficoltà sarà quella di usare un mezzo del tutto nuovo e di ridurre ai 140 caratteri di un tweet argomenti trattati, in genere, con maggiore spazio. 
Ma l’idea che mi è piaciuta è quella di  "fare rete" con blog che apprezzo e che leggo con grande interesse e, soprattutto, di coinvolgere- tutti insieme- in una discussione sull'arte, un pubblico più vasto possibile. 

Dunque: lunedì 17 novembre alle 21,30 comincia l’avventura. 
Il primo tema sarà proprio quello dell’arte sui blog e sui siti web.
Partecipare è facile: basterà scrivere #artbtwets nel motore di ricerca di Twitter per trovare la discussione e cominciare a parlare, anzi, a chattare.

E, allora, a lunedì. Su Twitter, naturalmente!





martedì 11 novembre 2014

Il marinaio e l'infermiera: "Il bacio di Times Square"




Dalle foto di baci nascono sempre delle storie. 
Anche se spesso non sono- come si potrebbe immaginare- storie d'amore. 
Dopo il famosissimo bacio, fotografato da Roberto Doisneau a Parigi all'Hotel de Ville e contestato da due "falsi" innamorati (qui), eccone un altro, altrettanto famoso e altrettanto discusso:


Siamo a New York, in Times Square, il 14 agosto del 1945, in quello che sarà ricordato come il V-J Day: il presidente Truman ha appena annunciato alla radio la resa del Giappone che segna, di fatto, la fine della seconda guerra mondiale. 
Dopo quasi cinque anni di un conflitto durissimo l'entusiasmo è alle stelle e, nell'euforia generale, molti scendono in strada. 
C'è chi applaude, chi canta, chi urla: un giovane marinaio dell'US Navy festeggia a modo suo, baciando con foga un'infermiera in uniforme, in un gesto tipico di due innamorati. 

La foto sarà pubblicata nella rivista "Life" il 27 agosto del 1945 e, con il titolo di "V-J Day in Times Square", farà il giro del mondo. 
Sarà riprodotta migliaia di volte fino a diventare un'icona, un'immagine di culto. 
Tanto che, nell'agosto del 2010, sempre in Times Square, centinaia di zelanti volontari si presteranno a ripetere quel bacio leggendario. 
Una foto straordinaria: il simbolo dell'uscita da un incubo e della ripresa della vita. 
O, almeno, così parrebbe, perché, in realtà, intorno a quel bacio, definito dai più sentimentali come "uno dei più romantici di tutti i tempi", si intrecciano storie e verità diverse.

La prima è quella del fotografo, Alfred Eisenstaedt (qui) che chiarisce che i due della foto non erano affatto innamorati: 
"Stavo camminando in mezzo alla folla- racconta- alla ricerca di foto da scattare. Ho visto un marinaio che veniva nella mia direzione, abbracciando e baciando tutte le donne- giovani o vecchie- che incrociava. Ho notato anche che in mezzo alla folla c'era un'infermiera. Mi sono concentrato su di lei e, come speravo, il marinaio si è avvicinato, l'ha rovesciata  all'indietro e l'ha baciata. Se non fosse stata un'infermiera, se avesse portato degli abiti scuri, non avrei scattato la foto. Il contrasto tra la veste bianca e quella nera del marinaio, ha dato alla foto tutta la sua intensità”. 
Insomma, per scattare quell'immagine  è bastato avere occhio e capacità di cogliere il momento. 
Nessun teatrino come quello che Robert Doisneau aveva dovuto organizzare per il suo “Bacio". Ma nemmeno un gesto d'amore.
A Eisenstaedt è stato sufficiente fissare col suo obbiettivo l'incontro casuale tra due sconosciuti, per trovare già tutto: l'ambientazione, l'espressività, il contrasto dei colori e, soprattutto,  un bacio così travolgente da aver l'aria di un passo di tango.  

Ma, allora, chi sono i due protagonisti? Se lo chiedono in così tanti che "Life, a distanza di anni, quando la foto è diventata ormai mitica, pubblica un appello per ritrovarli. 
Il successo va al di là delle aspettative: di presunti marinai "baciatori" e infermiere baciate se ne presentano non due, ma quindici (tre donne e dodici uomini) e ognuno narra la sua storia. 
La donna viene, da subito, identificata con Edith Shain, un’infermiera di un vicino ospedale che si era già fatta viva, scrivendo al fotografo, in tempi non sospetti. 
E l’uomo? Come fare a riconoscerlo tra tanti candidati? 
Il tempo passa e l'impresa sembra impossibile, almeno finché non si pensa di far ricorso a  prove scientifiche. 
In effetti, è proprio un medico legale, che, nel 2007, in base  a tutta una serie di analisi e misurazioni da far impallidire i poliziotti di "CSI", individua il protagonista della foto in Glenn Mc Duffie, un arzillo ex marinaio in pensione (qui). 
L'uomo, che aveva rivendicato il suo ruolo in tribunale, sottoponendosi perfino alla macchina della verità, può finalmente godersi il suo quarto d'ora di celebrità, rilasciando interviste, apparendo in televisione e ripetendo il bacio, nella stessa posizione della foto, ogni volta che glielo chiedono. 
"Per un po'- grazie  a quell'immagine, ha avuto la vita più glamour di qualsiasi altro ottuagenario":- ha ammesso la figlia.

Tutti contenti dunque? Nemmeno per idea! 
Perché a confondere le carte arrivano, nel 2012, due scrittori che hanno passato addirittura vent'anni, a confrontare foto, interviste  e i ricordi sempre più appannati dei testimoni, e che pubblicano un libro, in cui ricostruiscono, punto per punto, l'accaduto. 
Alla fine emerge un’altra verità. E stavolta sembra quella definitiva (qui)
Intanto, l’uomo non è affatto quello proposto dal medico legale, ma un altro marinaio, George Mendosa, riconosciuto con sicurezza dai suoi vecchi  commilitoni. 
La donna della foto, invece, all'epoca non  era esattamente un'infermiera, ma un'assistente odontoiatrica, Greta Zimmer, che aveva indossato l'uniforme per il suo primo giorno di lavoro. 

Tutto sistemato! L’uomo e la donna sono stati identificati e, finalmente, si può stare tranquilli. 
E, invece, no!  Perché in questa ingarbugliata vicenda, nemmeno il bacio è quello che sembra. 
Dalle dichiarazioni della donna riportate nel libro risulterebbe- almeno stando a quanto sostiene il blog femminista "Crates and Ribbons" (qui)- una verità, non proprio "politicamente corretta". 
"Non l'ho nemmeno visto arrivare- racconta Greta Zimmer- e ancora prima di rendermene conto mi sono trovata afferrata come in una morsa. Ed è così che mi ha baciato"
Basta questo per far ipotizzare che quel bacio tanto celebrato nasconda, addirittura, un'aggressione sessuale: il marinaio, in preda all'entusiasmo e, forse, anche ai fumi dell'alcol- si sarebbe  imposto con la forza a una donna riluttante. 
Insomma, su quel gesto, diventato simbolo di gioia e di libertà, ci sarebbe molto da ridire. 

Peccato! 
Forse su certe immagini, che  sono entrate così profondamente nei sentimenti e nell’immaginazione sarebbe meglio non investigare troppo. 
E  lasciare che i più romantici, o i più ingenui, continuino a commuoversi e, magari, a pensare che, in fondo, anche quel bacio non sia che  "l'apostrofo rosa tra le parole t'amo".







giovedì 6 novembre 2014

Petrus Christus: "Sant'Eligio nella bottega di un orefice"



Un viaggio nel tempo? Perché no! 
Tanto più che non c’è nemmeno bisogno di astrusi macchinari da fantascienza. Basta guardare un dipinto come "Sant'Eligio nella bottega dell’orefice” di Petrus Christus (1410 ca-1476), ora al Metropolitan Museum di New York (qui), per essere catapultati d'improvviso nel 1449.


Siamo a Bruges. 
La città è allora la capitale commerciale del Ducato di Borgogna: dal suo porto salpano le navi dirette sia verso il Mediterraneo che verso l'Inghilterra e i paesi anseatici. Dal nord arrivano legname, cereali o pellicce; dal sud, vino tappeti, sete e spezie. 
Grandi banche, come quella dei Medici, vi hanno aperto le loro filiali, mentre nel palazzo dei Van der Bourse si tiene la prima borsa valori del modo. 
Nelle strade strette e lungo i canali si incontrano uomini provenienti da paesi lontani e si sentono parlare tutte le lingue conosciute. 
Si vive di scambi e di commerci: le botteghe espongono, nei banchi aperti sulla strada, le merci più rare e pregiate. 

Una coppia di ricchi fidanzati è appena entrata da un orefice per comprare gli anelli nuziali. 
Seguiamoli pure! La porta è aperta ed è lo stesso pittore che ci invita a entrare, mettendoci sotto gli occhi una miriade di particolari.
Dalla firma che, insieme alla data, ha apposto in primo piano, sappiamo che si tratta di Petrus Christus (ne ho parlato anche qui). 
Allievo e continuatore di Jan Van Eyck, vive a Bruges come un artigiano benestante in contatto con gli esponenti più importanti della borghesia e dell'aristocrazia cittadina. 
Di certo, conosce bene i capi della Gilda degli orefici che gli hanno commissionato il quadro dedicato al loro patrono, Sant’Eligio, per esporlo nella sede della Corporazione. 
Gli orefici di Bruges, all'epoca, sono una vera potenza. 
Alla corte di Borgogna l’oro rappresenta il simbolo stesso del potere: i fortunati visitatori raccontano non solo che i nobili cortigiani sfoggiano gioielli di ogni tipo, ma anche che i soprammobili e, perfino, i servizi da tavola sono d'oro massiccio. 
I borghesi, se pure agiati, non possono di sicuro rivaleggiare con una tale magnificenza, ma hanno imparato dall'esempio dei Duchi che la ricchezza non è una vergogna (anzi!) e che deve essere esibita. Per questo non c'è nulla di meglio dei gioielli: gli orefici lavorano senza sosta e fanno fatica a soddisfare tutte le richieste. 
Nessuna meraviglia che, per il loro dipinto, non abbiano badato a spese e che si siano rivolti all'artista più caro della città. 
E Petrus Christus li ha saputi accontentare da par suo.
La scena sacra, che non tutti avrebbero compreso, è diventata, sotto il suo pennello, uno spaccato di vita quotidiana.
Intanto, ha trasformato la bottega di Sant'Eligio, che la storia ricorda come un orafo diventato vescovo e consigliere dei re merovingi, in una di quelle che si possono vedere comunemente in città e, poi, ha dato al volto del Santo i tratti dell'orefice più famoso di Bruges, Willem van Vuelten, noto per aver creato il preziosissimo anello di nozze della nipote del Duca di Borgogna. 

Niente di più adatto della sua bottega per due fidanzati un po'snob. 
Lei, tutta compresa nel suo ruolo, indossa per l'occasione un prezioso abito di broccato d'oro con un motivo di melograno e uno di quei copricapi a corna con un velo di seta che, al tempo, fanno furore. Con la mano destra indica l'anello che le interessa. 
Lui sfoggia, con una certa altezzosità, una veste di velluto blu foderata di pelliccia con un collo di seta rossa e un berretto decorato da una spilla. 
Sulla camicia di un bianco immacolato, spicca un pesante collare, forse quello del Toson d'oro, la decorazione più ambita dai membri della corte. 
Con un gesto di protezione tiene la mano destra sulla spalla di lei, ma, allo stesso tempo- come ogni gentiluomo che si rispetti- appoggia la sinistra sull'elsa della spada. 

Sulla parete di fondo, proprio dietro le spalle dell’orefice, è appesa, in bell'ordine,  tutta una serie di oggetti, un vero e proprio campionario di quello che la  sua bottega può offrire. 
E ce n'è per tutti i gusti: orecchini, anelli, pietre preziose, ma anche brocche d’argento, pezzi di oreficeria liturgica e perfino un ramo di corallo, indispensabile, all'epoca, per cacciare il malocchio. 

Sul banco di legno, accanto alla bilancia per pesare gli anelli, le monete straniere alludono alla sua attività di cambiavalute, mentre la cintura, posta in bella evidenza, è quella che, secondo la tradizione, deve essere indossata per la cerimonia delle nozze. 
Sulla destra, spicca uno specchio convesso, il cosiddetto "occhio della strega", che, piazzato davanti alla finestra, serve non solo a catturare tutta la luce dei brumosi inverni del Nord, ma anche a sorvegliare discretamente il viavai dei clienti (qui).

Insieme alla strada e agli edifici con gli alti tetti caratteristici di Bruges, lo specchio riflette anche due passanti che si danno una certa aria di raffinatezza portando con loro un rapace addestrato per la caccia.
Un quadro nel quadro, una sorta di scatola cinese, con cui Petrus Christus, citando lo specchio inserito dal suo maestro Jan Van Eyck nel "Ritratto degli Arnolfini", intende dar prova di tutta la sua abilità, ma che gli serve anche a costruire il suo gioco di prestigiatore 
In effetti, l’illusione è tale che abbiamo l'impressione che quello specchio potrebbe riflettere anche noi, se non ci sbrigassimo a spostarci. 
Insomma, siamo caduti nella trappola!
Petrus Christus, lontano le mille miglia dalla sintesi e dalla definizione matematicamente rigorosa dello spazio della pittura italiana, è riuscito ad abbattere ogni confine tra realtà e finzione e a ricreare il mondo reale, grazie alla minuziosità dei suoi dettagli, resi ancor più nitidi dalla lucentezza della pittura a olio.
Restituendo a pieno l'apparenza- o, per così dire, la pelle- delle cose, costruisce la sua illusione e cancella ogni limite di tempo e di spazio, fino a trasportarci, in un'uggiosa giornata di novembre, dalla nostra sedia di fronte allo schermo di un computer alla Bruges di sei secoli fa. 

Che vi dicevo? E' bastato solo lasciarsi andare al suo gioco di specchi, di dettagli e di colori perché la pittura compisse, ancora una volta, la sua magia.