venerdì 8 febbraio 2013

Il "Martirio di sant'Orsola" di Caravaggio




Ho passato tre giorni di vacanza a Napoli, pochi per dire di aver visto la città, sufficienti, però, per subirne il  fascino.
Tante le immagini che mi sono rimaste in mente, anche se, a distanza di tempo e di chilometri, una su tutte si è stampata nel libro dei ricordi. 
È un dipinto noto. Uno di quelli su cui sono stati scritti fiumi d’inchiostro e che ha girato per tutte le mostre d’Italia e d’Europa.
Le circostanze hanno aiutato.
Siamo entrati a Palazzo Zevallos Stigliano, la sede della Banca Intesa, che l’ha acquistato nel 1972, quasi all'ora della chiusura, in un silenzio totale. 
Il contrasto con l’animazione fragorosa di fuori ha reso l'impressione ancora più forte. E, poi, il fatto di vederlo a Napoli, nella città in cui era stato eseguito è come se lo avesse completato e arricchito di significato. 
Sto parlando del “Martirio di sant’Orsola” di Caravaggio:



A Napoli, nel maggio del 1610, Caravaggio ha ancora sul viso i segni dell’aggressione subita, qualche mese prima, uscendo da una locanda nei vicoli del vecchio porto. Lo avevano dato per morto e lasciato a terra sfigurato dai colpi di coltello. 
È sempre più stanco e provato, ma ha bisogno di soldi e sa che non può smettere di lavorare. Per questo ha accettato la commissione di un nobile genovese, Marcantonio Doria, figlio del doge Agostino, conosciuto durante un breve soggiorno a Genova, cinque anni prima. 
Come sempre dipinge rapidamente, senza disegni preliminari. 
Ai primi del mese il quadro è pronto e lo può consegnare, anche se la vernice è ancora fresca. Nella fretta di inviare la tela a Genova, il procuratore dei Doria pensa bene di metterla ad asciugare al sole, come racconta in una lettera inviata a Marcantonio.
La decisione si rivela un errore. Caravaggio aveva usato una vernice “grossa”, fatta d’olio di lino e di sandracca. Al sole, anziché asciugare, si scioglie ancora di più, tanto che sarà costretto a riparare i danni. 
Alla fine, la tela imbarca per Genova e, il 10 giugno, arriva a destinazione.

Il soggetto scelto da Marcantonio Doria è un "Martirio di sant'Orsola", probabilmente in omaggio alla figliastra che aveva preso il velo, col nome di suor Orsola, in un convento napoletano.
Secondo il testo più diffuso delle vite dei Santi, la "Leggenda aurea", Orsola, figlia del re di Bretagna, al ritorno da un pellegrinaggio a Roma, accompagnata da undicimila vergini, si sarebbe fermata a Colonia. 
Gli Unni, che assediavano la città, compirono un vero e proprio eccidio, uccidendo tutte le giovani, colpevoli di aver voluto mantenere la loro fede e la loro purezza. 
Il capo degli Unni, Attila, colpito dalla bellezza  e dal coraggio di Orsola, la chiese in moglie e, al suo rifiuto, "veggendosi schernito, diede mano a un arco e trafissela d’una saetta".

Caravaggio, contrariamente alla tradizione, sceglie di raffigurare solo l’atto finale della storia. 
La scena si svolge in uno spazio buio, ristretto e quasi claustrofobico: la tenda di Attila, che si intravede sullo sfondo, è  semi-aperta, come fosse la quinta di un teatro. I protagonisti emergono dall'ombra come fantasmi; vittima e carnefice sono vestiti di un rosso che pare isolarli dagli altri.

L'azione, quasi fosse il fotogramma di un film, è bloccata nell'istante immediatamente successivo all'omicidio.
Attila non ha ancora finito di tendere l’arco che la freccia è già  scoccata, tanto che la luce, che arriva da sinistra a destra, ne segue traiettoria.
Orsola, appena colpita, ha ormai i colori della morte: china la testa e contempla con rassegnazione e stupore la ferita al petto, cercando di comprimerla con le mani. 
Senza capire quello che sta accadendo e senza soffrire.
Non c'è nessuna aureola. Non c'è alcun segno di gloria celeste, né di presenze angeliche: il martirio sembra restare incomprensibile anche a chi lo subisce.

Attila, abbigliato come un arciere del Seicento in corazza e cappello piumato, ha il volto di un vecchio. 

Stravolto da una smorfia, con lo sguardo sbigottito  pieno di compassione e di rimpianto, quasi si pentisse del gesto appena compiuto, trattiene, a mala pena, un urlo.




Ma l’invenzione più straordinaria è la mano di uno degli astanti, riapparsa solo dopo l’ultimo restauro. 

Una mano che compare quasi dal nulla, davanti a Sant'Orsola, come  a fermare il  tempo e riportarlo indietro, all'attimo prima che tutto succeda.





Alle spalle della Santa un uomo  che ha le  fattezze 
di Caravaggio è testimone e complice. Assiste alla scena travolto, come tutti,  dalla stessa sensazione di incredulità e incomprensione. 
In pochi dipinti si avverte così forte la presenza inesorabile del male e della morte: c'è la consapevolezza che nessun gesto o nessun ripensamento potrà fermare il destino.
La freccia è stata scoccata e ognuno dovrà andare incontro alla sua sorte.
Orsola sarà la martire e Attila il carnefice. Per sempre.

In Caravaggio la sensazione dell'inevitabilità del male è costante. 
Sa che nemmeno il suo destino potrà cambiare.
La sua vita è stata  scapestrata e violenta. Lo era, fin da quando,  arrivato dalla Lombardia, girava per Roma con un cappellaccio, un mantello nero e uno spadone al fianco, pronto ad attaccare briga con tutti e a infuriarsi per un nonnulla, frequentando aristocratici e prostitute, palazzi e osterie. 
La sua inquietudine e il disagio di vivere, lo hanno sempre spinto verso la violenza. Fino ad arrivare all'omicidio: con un colpo di spada, quattro anni prima, ha provocato la morte di un uomo; si dice  per una stupida discussione al gioco della pallacorda.

Forse ne è pentito. Anche lui avrebbe voluto trattenere quel colpo, evitare quella morte che lo ha costretto a fuggire da Roma, condannato alla decapitazione. 
Da quattro anni è in fuga; è solo, anche se può contare sull'aiuto di illustri protettori. 
Fa tappa a Napoli, a Malta in Sicilia e poi ancora a Napoli; vive l'esistenza affannosa di chi si sente braccato, senza mai  potersi abbandonare alla dolcezza, se non alla serenità, della vita. E, ciò nonostante, non cessa mai di dipingere.
Non può sapere che la "Sant'Orsola" sarà la sua ultima opera, ma, in qualche modo, sente che sta arrivando alla fine
Anche per lui la freccia è stata scoccata: come i protagonisti del dipinto, dovrà percorrere il suo destino, fino in fondo.

Troverà la morte, a poco meno di quarant'anni, un mese dopo la consegna del quadro, il 18 luglio del 1610. Era appena ripartito da Napoli, ancora in fuga, sotto un sole implacabile
Nel frattempo il provvedimento di grazia era stato firmato e il ritorno a Roma era già possibile.





Tutta la storia del quadro è ripercorsa  nel libro di V.Pacelli, ll martirio di Sant'Orsola di Caravaggio per Marcantonio Doria, Napoli,ed Paparo, 2011

39 commenti:

  1. Grazia, sei davvero preziosa! Ci racconti quello che per un inesperto come me sarebbe invisibile.

    RispondiElimina
  2. Avevo visto il dipinto in mostra ma non mi aveva causato tanta emozione. Rigaurdandolo ora, con la guida delle tue parole, colgo una commozione e una sofferenza che non avevo colto. La prossima volta mi farai da guida.
    Ciao
    Marco

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Vederlo in mostra, insieme ad altri dipinti, dà sicuramente una sensazione diversa che vederlo da solo in uno spazio ben iluminato e silenzioso. E poi avere intorno Napoli è decisamente un'altra cosa!

      Elimina
  3. L'appuntamento col tuo blog è ormai un obbligo. Grazi eper le tue spiegazioni che rendono le opere d'arte più "accessibili" a tutti e trasmettono la tua emozione.
    Un'amica anobiiana

    RispondiElimina
  4. chi sa se l'abbiamo veramente, la possibilità di esercitare il libero arbitrio, o siamo vittime predestinate di un destino beffardo. impossibile saperlo e di sicuro è meglio così.
    sempre grazie per le storie che sai raccontare come nessuno

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Certo, Dede, sono grandi interrogativi: la visione di Caravaggio è una visione da" vittima predestinata" di una sorte, un fato che è impossibile cambiare. Mai come in questo dipinto mi sembra che esprima la sua meditazione dolorosa sul mondo.

      Elimina
  5. Riflessioni che sgomentano, quelle sul libero arbitrio, sull'esistenza o meno di un fato predestinato, sull'ineluttabilità dell'autodistruzione cui certi individui sembrano andare incontro, a dispetto dei propri straordinari talenti - o forse proprio a causa di una loro troppo fine e troppo inquieta sensibilità che li mette in comunicazione troppo diretta, senza filtri, anche con tutto il male del mondo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Davvero riflessioni che sgomentano. Come se la genialità, a volte, fosse un peso, un fardello intollerabile. La violenza di Caravaggio sembra essere soprattutto un dolore di vivere, forse dovuto a quella sensibilità dolorosa e partecipe di cui tu parli. E in questo dipinto viene fuori come non mai.

      Elimina
  6. Io non so molto di storia dell'arte, ma mi sembra di riconoscere in questo dipinto il colori tipici di quel periodo, il "buio", la pesantezza dei soggetti forse anche. Sublima però. E Attila era orrendo, non l'avrei sposato nemmeno io... ;)))

    Comunque, vere o inventate che fossero queste leggende, è incredibile quanta violenza abbiano dovuto e debbano ancora oggi subire le donne. Tema purtroppo sempre attuale.

    Grazie, come sempre, per queste descrizioni davvero fantastiche.

    Buon fine settimana
    Cinzia


    RispondiElimina
    Risposte
    1. È vero che la cupezza di Caravaggio era quella di un periodo inquieti e violento. Ma c' è una sofferenza che è sua e che, in qualche modo, fa da filtro alla sua visione del mondo.
      Devo dire che qui Attila mi sembra una vittima del destino pari a Orsola.Tutt'e due incapaci di sfuggire alla loro sorte.
      Buon fine settimana anche a te

      Elimina
  7. Merito del pittore o della città, ma questo tuo post è particolarmente ispirato. Sei riuscita , attraverso il dipinto, a farmi pensare all'inevitabilità del destino alla catene in cui siamo tutto costretti e alla tentazione del male che è sempre più forte del bene. Credo che vedere il dipinto dal vivo valga un viaggio , soprattutto portando con me il tuo scritto.
    Grazie come sempre per quello che riesci a darci
    Anna

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Merito sicuramente del quadro e della città. Mi fa piacere se sono riuscita a trasmettere un po' dell'emozione che ha dato a me.
      Grazie delle tue parole

      Elimina
  8. Il quadro è così cupo che fa supporre che Caravaggio prevedesse la sua fine e la beffa finale di morire all'Argentario senza potere tornare a Roma. Certamente se lo avessi visto senza le tue spiegazioni non l'avrei trovato tanto bello!!
    Sara

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non so se Caravaggio prevedesse davvero la sua fine. Certo che era sempre più stanco ed esasperato da una vita braccata e in fuga. Sulla sua morte ora ci sono nuovi studi e documenti pubblicati da V. Pacelli che dimostrerebbero che Caravaggio sarebbe morto non vicino a Porto Ercole, sull'Argentario, ma a Palo Laziale, a Ladispoli, ucciso da emissari dei cavalieri di Malta, con il tacito assenso del governo pontificio.
      Ad ogni modo resta la sua grandezza e la capacità di interpretare come pochi il male e la disperazione del vivere.

      Elimina
  9. Grazie per questo bel post che trasmette passione per l'arte e il bello.
    Ho avuto l'occasione di ammirare quest'opera nello splendido palazzo Zevallos Stigliano. Mi hanno colpito molto gli effetti di luce sulla santa e sui volti, ma soprattutto le espressioni del viso dell'arciere e dell'uomo in cui ho riconosciuto il pittore.
    Caravaggio era un'anima senza pace e forse quell'inquietudine interiore, a volte ingestibile, ha fatto scaturire un talento straordinario.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie a te del tuo commento.
      È vero che la luce come al solito è protagonista e rivela non solo i volti ma anche i sentimenti dei personaggi. E Caravaggio con la sua sensibilità inquieta sa interpretarli come meglio non si potrebbe.

      Elimina
  10. Ho trovato, leggendo il tuo racconto, la ragione di ciò che avevo confusamente percepito guardando il quadro. Grazie per questa lettura:) un abbraccio

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie a te! È che quadri come questi suscitano sempre emozioni che non è facile decifrare. Quello che li qualifica come capolavori è appunto l'ambiguità e la complessità delle sensazioni che provocano.

      Elimina
  11. Volevo commentare, volevo dire di quella mano che sbuca dal nulla e che tenta ancora di fermare la scena a una manciata di secondi prima
    ma a che serve se hai già detto tutto tu?
    E' così bello leggerti che non presuppone commenti,
    solo ringraziamenti continui.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. I ringraziamenti li devo io a te, Massimo, per l'attenzione con cui mi segui.
      Quella mano che spunta dal nulla, e che alcuni credono sia un "pentimento" cancellato dallo stesso Caravaggio, è invece, secondo me, la chiave di tutto il dipinto. Io la trovo un'invenzione straordinaria.

      Elimina
  12. Che meraviglia, Grazia, ci racconti qualche altro Caravaggio? :-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Vedrai che prima o poi un altro Caravaggio da queste parti ci ricapita di sicuro! :-)

      Elimina
  13. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Nela cara, scusami tantissimo, ma devo aver fatto qualche pasticcio e cancellato il tuo commento. Mi ricordo che parlavi dell'ammirazione che tuo marito ha per la "Testa di Medusa" degli Uffizi.Mi piacerebbe, una volta, vederla insieme tutt'e tre!
      Scusami ancora e grazie di seguirmi sempre con tanta amicizia.

      Elimina
  14. Se chiudo gli occhi, rivedo ancora quel Caravaggio conservato nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma: lo vidi da diciottenne in una bella vacanza trascorsa nella capitale. Davvero è difficile dimenticarlo...
    Condivido la tua passione per l'arte e purtroppo scopro solo ora il tuo blog, ma da oggi, sono ufficialmente tra i tuoi lettori! =)
    Sabina

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sabina, grazie tantissime di essere " ufficialmente" tra i miei lettori! :-)
      Anche per me è difficile dimenticare la prima impressione che mi fece la cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi. È uno dei motivi che mi fecero e mi fanno amare tuttora la storia dell'arte. Sono contenta che condividiamo questa passione!

      Elimina
  15. Grazie davvero per aver scelto uno dei (tanti) tesori di Napoli come argomento di questo post! Torna presto a Napoli!! Con riconoscenza
    Fabrizio

    RispondiElimina
  16. Certo che a Napoli i tesori da vedere e le scelte da fare sarebbero infiniti. Vedrai che mi "toccherà" a tornarci davvero presto. È una città che prende l'anima e che non la lascia andare tanto facilmente.
    Grazie tante a te!

    RispondiElimina
  17. Impressionante la comparazione che tu hai compiuto tra il pathos profondo del dipinto e la tremenda, comunque, vicenda umana di Caravaggio.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caravaggio è molto moderno anche in questo: in pochi pittori della sua epoca c'è un intreccio così stretto tra vita e arte.

      Elimina
  18. Bello il racconto e mi è piaciuto molto l'icipit. davvero si crea un legame profondo e inscindibile tra le opere e le terre che le hanno viste nascere. E' questo uno degli argomenti dei dibattiti più vivi in questo periodo di grande scoramento per le sorti del paesaggio e dell'arte italiana.
    Caravaggio riesce a descrivere la sospensione del tempo e noi cogliamo, in questo incommensurabile frammento di vita, l'eterno. Non conoscevo la vicenda della vernice al sole... il ribelle Caravaggio, che non sopportava di essere il pittore di... chicchessia era anche sfigato, diciamolo! :)
    Scusa!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Davvero le opere acquistano innsenso più profondo nei luoghi in cui sono nate. Caravaggio a Napoli, per esempio, riprende nelle"Sette opere di misericordia" l'atmosfera oscura e brulicante dei vicoli napoletani. Ma gli esempi sono tanti e di tutte le epoche: un altro elemento per lottare per la tutela del nostro paesaggio e per mantenere le opere nel luogo per cui furono eseguite.
      Certo che hai ragione, Caravaggio era un ribelle, ma certo non aveva la fortuna dalla sua parte! :-)

      Elimina
  19. l'ho visto anch'io... stessa sede! Orari tranquillo, eravamo soli... io e il Caravaggio!
    Adoro instaurare un rapporto quasi esclusivo, intimo con l'arte, entrare nei musei da sola è impagabile! Grazie, mi hai ricordato questa speciale recente esperienza!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. In effetti quando si riesce a gustare un'opera d'arte da soli e in silenzio, l'emozione raddoppia, anzi triplica, se si tratta di un Caravaggio :-)

      Elimina
  20. Davvero un ottimo racconto!
    Bella e moltointeressante la descrizione!
    Il martirio di San Orsola è l'ultimo dei 3 Caravaggio ancora conservati a Napoli!
    Il contesto dove è inserito non è da meno tanto che ho pensato di pianificare un nuovo itinerario per mostrarlo..Magari aspetto coloro interessati sul mio blog per visitare Michelangelo Merisi e Napoli! ;)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mi pare un'ottima idea aggiungere Caravaggio agli interessanti itinerari che proponi nel tuo blog: è un pittore su cui c'è sempre da dire e che ci dice sempre qualcosa.

      Elimina
  21. Sono d'accordo, quest'opera emana un fiume di emozioni. Ma io ho qualche dubbio che si tratti dell'ultima Opera da lui composta. Osservando l'autoritratto e mettendolo in relazione ad esempio con la testa di Golia nel David della Galleria Borghese, il volto del pittore nel sant'Orsola ha i capelli cortissimi e l'estpressione è tutt'altro che inquieta. E penso che sulla sua sorte non si è capito ancora molto, anzi quasi niente.

    RispondiElimina