domenica 16 dicembre 2012

Paolo Conte: io e l'Avvocato





Proprio in questi giorni tanti  (troppi) anni fa l'Avvocato è entrato a far parte della mia vita.




Un sera, a Bologna, si esibiva- allora non era noto come adesso- con un pianoforte e con un piccolo gruppo di musicisti.
Ero andata là non per ascoltare musica, ma trascinata dall'onda di un innamoramento. 

Ed ecco che nel buio d'improvviso il palco si illumina e Paolo Conte, l'Avvocato, comincia a cantare.
Era - mi ricordo- l'epoca della "Verde Milonga".
Quella voce aspra, dura, arrochita mi trasportava in un altro posto, in un paese di provincia simile al mio, un paese con le drogherie di una volta, con le etichette delle spezie che facevano sognare paesi esotici, con una balera dove immaginare il Sud America, con la solitudine del bar Mocambo.....

A poco a poco il suo mondo diventava il mio. 
I suoi sogni di stelle e di jazz si mescolavano con i miei sogni. 
Quella voce entrava dentro di me, mi cullava con i suoi racconti, mi restituiva atmosfere che avevo vissuto o sognato.

Quella voce non mi avrebbe più abbandonato




chi bu bu du, du du :
http://www.youtube.com/watch?v=vQ2GYuLdkoc&feature=related


 

venerdì 14 dicembre 2012

I ritratti di scrittori di Gisèle Freund: il volto e l'anima





"Il  disappunto che proviamo davanti alle nostre fotografie nasce dall'assurda convinzione di conoscerci" (G.Freund)


Da sempre sono attratta dalle fotografie che ritraggono gli scrittori, come se conoscerne i tratti del volto mi facesse capire qualcosa di più sugli autori dei libri che ho amato. 
Per questo sono rimasta affascinata dalle foto di Gisèle Freund, scattate  tra il 1933 e il 1939 ed esposte in una mostra, organizzata, l'anno scorso, a Parigi dalla Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent: "L'oeil frontière". 
Ne ho scelte solo alcune da pubblicare, rintracciandole su internet, e la scelta non è stata facile. Nessuna è banale e tutte sono capaci di evocare le sfaccettature complesse di una personalità.



Ha appena ventidue anni, Gisèle Freund, ed è ancora una studentessa quando si rifugia a Parigi, nel 1933, scappando dalla Germania nazista:  la sua origine ebraica e il rullino di foto che ha scattato di nascosto a testimonianza della violenza  della polizia contro gli studenti, l'hanno costretta alla fuga.
Non ha passaporto, non  sa il francese, ma sa fotografare, fin da quando il padre, per il suo quindicesimo compleanno, le ha regalato una Leica. 
Alla prestigiosa facoltà di Sociologia di Francoforte, dove si è iscritta,  ha scelto, non a caso, una tesi sulla "Fotografia francese del XIX secolo".

Arrivata a Parigi, comincia a guadagnare qualche soldo,  adattando a  camera oscura una stanza d'albergo e dedicandosi a un genere che sente particolarmente congeniale, quello dei ritratti.
I suoi clienti sono i commercianti o i negozianti del quartiere.

La sua passione, insieme alla fotografia, è, da sempre, la letteratura. 
Il caso (o il destino, che poi è la stessa cosa) la porta, in una fredda giornata di marzo, sulla riva sinistra della Senna, in rue dell'Odéon. 
Là- come ricorda lei stessa-  tra un negozio di antiquariato con un gatto acciambellato su una sedia Luigi XIV e una latteria in cui sono ammucchiate scatole di formaggi, scopre, al numero 7, la porta di una libreria, tutta dipinta di grigio, sovrastata da una grande insegna "Maison des amis du livre. Societé de lecture". Il richiamo è irresistibile. 

Entrare là sarà la sua fortuna. 



La proprietaria, Adrienne Monnier, è un gran personaggio. 
Lettrice raffinatissima e cuoca eccellente, pubblica, a sue spese, una rivista, per cui scrivono i maggiori esponenti dell'avanguardia letteraria francese. 

Le due diventano subito amiche. 
Sarà Adrienne a presentarle Sylvia Beach, che, all'epoca, gestisce, proprio sull'altro lato della strada,  niente di meno che la  "Shakespeare & Co.", la mitica libreria, frequentata da tutti gli scrittori anglofoni (e no) di Parigi, di cui hanno parlato le mie due amiche blogger-bibliofile (qui e qui).

"Non esiste un volto più affascinante di quello di una persona capace di creare”: aveva scritto Gisèle. 
Adrienne Monnier e Sylvia Beach le forniranno la chiave per entrare nel mondo chiuso degli scrittori. Poi sarà il "passa-parola"ad assicurarle i contatti.


Il primo a farsi ritrarre è André Malraux che, giusto l'anno prima, ha vinto il premio Goncourt con il suo libro "La condizione umana". 
Fotografato sulla terrazza del suo piccolo appartamento, sfoggia un'aria da romantico rivoluzionario, con una sigaretta accesa tra le labbra, i cappelli lunghi spettinati dal vento e il volto imbronciato.

Niente studio, niente pose o ritocchi: così a Gisèle piace ritrarre i "suoi" scrittori. 
Gli unici consigli che dà sono quelli di indossare qualcosa di chiaro e di radersi bene, prima di iniziare a scattare.


Per ritrarre  James Joyce, comincia a usare la pellicola a  colori, con una tecnica, messa a punto da Kodak e Agfa appena due anni prima. 
I colori, che ora  ci sembra diano alle foto un effetto acquerello, erano poco saturi e evanescenti già nelle prime stampe. 
Comunque a Gisèle piacciono e le sembra che, rispetto al bianco e nero, diano l’aria di una maggiore verità.

Joyce, tra gli appassionati e i letterati era, allora, già un mito. 
Stanco e malato si trovava a Parigi per presentare "Finnegans Wake". 
Malgrado non stesse bene concede a Gisèle ben tre sedute. 
Lei scatta moltissime foto, in cui riesce a cogliere tutta la fatica e la malinconia dello scrittore.

"Un fotografo- dice- deve leggere un viso come si legge la pagina di un libro e deve essere capace di decifrare anche quello che è nascosto tra le righe"






Ed ecco l’immagine di Jean Paul Sartre.
È in giacca e cravatta, pipa in mano e libreria carica di libri sullo sfondo.
Lo sguardo, dietro gli occhiali tondi è assorto e riflessivo. Tutto è così ben accomodato da dare l'impressione di qualcuno che posi da intellettuale.





Colette, invece, è scapigliata, gli occhi e le labbra ben truccati, con una camicia rossa e l’aria da attrice tragica, mentre, assorta, sta scrivendo al suo tavolo di lavoro.


Gisèle Freund sceglie di  fotografare solo gli scrittori che ama. 
Quando va da loro- racconta lei stessa- non parla mai di come ritrarli ma dei lori libri, fino a sorprenderli nel momento in cui le pare rivelino, più liberamente, qualcosa di sé. 



A volte si concentra solo sul volto, a volte, invece, preferisce uno sfondo, fatto, comunque, di pochissimi elementi. 
Qui la grande mano rossa che spicca, quasi fosse un'insegna, fa risaltare il pallore di uno stralunato Jean Cocteau.

"Rivelare l'uomo all'uomo, creare un linguaggio universale, accessibile a tutti rimane per me il compito fondamentale della fotografia"- diceva Gisèle.







Il medaglione in gesso col volto di Giacomo Leopardi è messo quasi a confronto con quello liscio di un elegantissimo André Gide, che sfoggia un raffinato foulard di seta al collo e un'espressione grave e pensierosa.










Virginia Wolf, incontrata in Inghilterra, le appare in profilo sullo sfondo di un affresco della sorella Vanessa "fragile e luminosa come l'incanto stesso della sua prosa". 
Ma ne sa rivelare, nello sguardo vuoto e nel gesto nervoso, con cui tiene aperta la pagina del libro che sta sfogliando, tutta la segreta disperazione.





Il catalogo della mostra si chiude con questo ritratto.
Non così la vita di Gisèle Freund. 
Nel 1940  le truppe naziste arrivano a Parigi, Gisèle deve fuggire un'altra volta. La sua meta sarà l'Argentina e, poi, il Messico e gli Stati Uniti. Lavorerà per la "Magnum" con Robert Capa e per "Life", fino a diventare una leggenda della fotografia. 
I suoi ritratti di scrittori e di artisti faranno scuola.







giovedì 6 dicembre 2012

L'"Interno rosso": la poltrona di Matisse





Ci sono brani musicali che sembrano evocare immagini precise. 
Ieri, alla notizia della morte di quello straordinario jazzista che è stato Dave Brubeck (ne ho parlato qui), mi sono ricordata di un dipinto. 
Un quadro che mi dà la stessa sensazione di gioia e di calore della sua musica, capace di illuminare le giornate malinconiche, grigie di pioggia e di neve di questo inizio d'invernol'"Interno rosso" di Henri Matisse, ora al museo di Düsseldorf.

È uno degli ultimi dipinti che Matisse, esegue a olio, nel 1947: all'epoca ha settantott'anni e si affatica facilmente, soprattutto da quando gli esiti di un'operazione mal riuscita lo hanno costretto alla sedia a rotelle. Tanto che, da allora in poi, preferirà usare la tecnica meno stancante del decoupage (come qui). 


Una stanza con un medaglione in  terracotta appeso al muro, un tavolo blu su cui sono posati un vaso di fiori e un vassoio con delle mele rosse e, sullo sfondo, una porta con una persiana arancione, aperta su un giardino con una lussureggiante vegetazione mediterranea. 
Un interno, probabilmente, lo studio dell'artista sulla Costa Azzurra, a Vence, come parrebbe dal dettaglio del medaglione alla parete: è il ritratto della prima donna amata, la madre di sua figlia Marguerite, che Matisse usava tenere appeso nel suo atelier. 

Potrebbe essere un soggetto banale, una stanza qualsiasi. Invece, tutto è trasfigurato attraverso il  colore. Quel colore che  aveva affascinato Matisse dagli inizi della sua carriera e che aveva usato con tanta gioiosa violenza da essere qualificato, fin dall'esposizione al Salon del 1905, come "fauve, belva". Ormai è vecchio e, anche se ha assunto sempre di più un'aria compassata ed erudita, tanto da giustificare il soprannome di "professore" che gli era stato attribuito da studente, la sua allegria, la sua foga e la sua felicità di vivere e di dipingere non sono venute meno.  

È convinto che la sua pittura  non debba mai inquietare, ma dare una sensazione di entusiasmo e di piacere.
Allora, come in questo caso, copre con un caldo rosso carminio quasi tutta la tela e sottolinea le pareti della stanza con una serie di linee nere a zig-zag che formano una specie di tappezzeria o di carta da parati. 
È un motivo che serve a dare energia e dinamismo a tutta la scena:" voglio che ogni  superficie sia viva ed espressiva "-usava dire.

Non gli interessano ricerche spaziali o prospettiche, né, tanto meno, dare un'idea di massa e volume col chiaroscuro o con effetti di luce e d'ombra. 
Non si stanca di ripetere che tutto deve annegare in quel  "colore, che ancora più del disegno, rappresenta la vera libertà dell'artista".
Le sue sono tinte vivaci, spesso contrapposte se non addirittura dissonanti: rosso, blu, verde, giallo arancio. Ma il risultato è armonico ed equilibrato. 
Come nota uno scrittore e critico d'arte come John Berger "Matisse sbatte con violenza i suoi colori l'uno contro l'altro, come fossero dei cembali e ottiene l'effetto dolce di una ninna-nanna".
Come un musicista sa scegliere il timbro dei suoi strumenti, così Matisse sa selezionare l'intensità giusta dei suoi  colori per ottenere, come lui stesso dice, un'"armonia vibrante come quella di una composizione musicale". 

Vuole, da sempre, che la sua pittura sia "come una poltrona", comoda e piacevole, "in cui ci si possa riposare senza distrazioni, nè turbamenti". Un grande regalo per chi ne sappia godere.

Non ci resta che approfittarne, sedere e ascoltare, in sottofondo, la musica che, secondo me, più gli assomiglia.
"Take five" di Dave Brubeck, ovviamente.

QUI  è il link.






sabato 1 dicembre 2012

Le "Très riches heures du Duc de Berry": Dicembre




Ultimo mese dell'anno e ultimo foglio del calendario delle "Très riches heures du duc de Berry". Una pagina sorprendente, un soggetto diverso, da quelli, a cui la raffinatezza favolosa delle pagine precedenti ci aveva abituato.
L'anno si era aperto, a gennaio, con  un lussuoso banchetto offerto Duca, nell'atmosfera festosa della corte. Si chiude, a dicembre, con una scena cruenta.


Nella lunetta in alto, sono raffigurati i segni del mese, Sagittario e Capricorno, mentre il carro del Sole transita nel cielo. Al di sopra, nei semicerchi concentrici, sono indicate le fasi lunari e la durata dei giorni.
È  ormai inverno e le foglie dei fitti alberi della foresta sono secche. Il terreno è spoglio: qua e là è rimasto solo qualche arbusto. 

Sullo sfondo, si erge una serie di candide torri: fanno parte della gigantesca cinta muraria che racchiudeva il castello di Vincennes, voluto, nel 1364, dal fratello del Duca di Berry, l'allora re Carlo V. Era destinato a essere "la demeure de plusieurs seigneurs et chevaliers", dove passare le ore più liete della vita di corte. 


Stavolta non si tratta, dunque, di una proprietà del Duca, ma  del luogo dove era nato nel 1340,  terzo figlio del re di Francia. 
Dagli anni trascorsi a Vincennes aveva preso il gusto per gli edifici comodi e fastosi che vorrà per sé in ogni sua sede. Lì forse era nata anche la sua passione per il collezionismo, per cui avrebbe riempito d'oro, di gemme e di squisite oreficerie  tutti i suoi forzieri. 
La predilezione per i piccoli oggetti preziosi lo aveva portato all'amore per i libri miniati, un vero lusso da gentiluomini. Al punto che aveva preso al suo servizio i fratelli Ian, Pol e Herman de Limbourg per decorare le pagine del suo Libro d'ore. 
E così i miniatori avevano riempito i fogli dei mesi del calendario con le immagini dei suoi sogni di magnificenza e di una vita simile a una favola. 
Per tutto l'anno, avevano dispiegato, insieme, le rappresentazioni della vita della campagna e degli svaghi della corte. Col passare delle stagioni,  sullo sfondo dei castelli di proprietà del Duca, si erano avvicendati il gelo dell'inverno, il verde dei prati a primavera, il giallo del grano estivo o  i campi arati dell'autunno. 

Ora siamo all'ultima pagina e  lo stile elegante dei fratelli di Limbourg non può nascondere la violenza della scena. 

È il momento, in cui termina la caccia al cinghiale: il suono del corno (l'hallali) è il segnale della "curée", quando la spoglia dell'animale ucciso viene fatta dilaniare dai cani. A questo spettacolo cruento  non assiste nessuno dei raffinati aristocratici, che comparivano in tutte le altre scene. Ci sono solo i servitori, con le livree, dai colori araldici del duca, che controllano a stento l'impazienza della muta dei cani.

La rappresentazione non è inconsueta: ce ne sono anche esempi nella miniatura italiana contemporanea,  ma non fa parte dell'iconografia tipica di Dicembre, tradizionalmente legato, nei calendari dei Mesi, all'uccisione del maiale. Un soggetto, questo, che forse era parso troppo volgare alla raffinata mentalità del duca. 
La caccia, invece, era il passatempo favorito dell'aristocrazia e il cinghiale  uno dei trofei più ambiti. Alla corte del Duca era diventata un rituale che seguiva una tradizione antica.  Servitori  e cani ben addestrati avevano il compito di stanare la preda e di fiaccarla. A questo punto, il signore si avvicinava, scendeva da cavallo e  finiva l'animale, ormai allo stremo, con un affondo di spada.  
Affrontare da vicino il cinghiale inferocito era considerato  un segno di  coraggio degno solo di un nobile:  a dimostrazione di un aristocratico sprezzo del pericolo si praticava la caccia nel tardo autunno o nell'inverno, nella stagione degli amori, quando gli animali erano più aggressivi e il terreno, reso scivoloso dalla pioggia, era più difficoltoso. Superare tutte le insidie aveva, allora, una valenza simbolica precisa. 
Il cinghiale era l'emblema dell'ira e della lussuria, l'antitesi delle virtù cristiane: ucciderlo era segno di una vittoria contro il male e gli istinti più perversi. 

Neppure il velo del simbolo può, comunque, togliere alla scena la sua crudezza: è come se, dopo mesi di liete immagini di fiabe, alla  fine del calendario irrompesse la brutalità del reale. 

Erano tempi violenti quelli: la Guerra  dei Cento anni imperversava per città e campagne, ovunque c'era sofferenza, carestia e miseria. 
La peste, nello stesso anno, il 1416, avrebbe tolto la vita al Duca e ai suoi miniatori. 
Ma, nelle preziose illustrazioni dei mesi precedenti delle "Très riches heures", la vita vera non si rappresentava, la si lasciava fuori.  
Ora, il soggetto più crudo della miniatura di dicembre  fa capire che un'eco della realtà esterna è arrivata, comunque, a incrinare il piccolo mondo perfetto della corte di Berry. 
E non basta il tentativo di esorcizzarla, di ridurla a un'immagine astratta e lontana; non basta più a  evitare la consapevolezza che i sogni evocati nel calendario sono ormai finiti.